argomento: Osservatorio - Unione Europea
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di PAOLA MORI
Gli ultimi mesi hanno visto un drammatico ed esponenziale incremento dei flussi migratori, accompagnati da un tragico bilancio di vittime. La risposta europea alle questioni politiche, sociali e umanitarie poste dall’ondata migratoria pare per molti versi cacofonica. A fronte dell’affermazione contenuta nell’art. 80 TFUE per cui le politiche relative ai controlli alle frontiere, all’asilo e all’immigrazione «sono governate dal principio di solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri, anche sul piano finanziario» e a fronte delle ambiziose iniziative della Commissione e del suo Presidente, nei fatti i Governi degli Stati membri si dimostrano poco inclini alla solidarietà e alla fiducia reciproca.
L’applicazione del regolamento Dublino ha fatto emergere le difficoltà nel sistema europeo di asilo, difficoltà in molti casi conseguenti ai diversi standard applicativi nei vari Stati membri (se ne veda una significativa eco in alcune sentenze della Corte EDU, M.S.S. c. Belgio and Grecia, Tarakhel c. Svizzera, Sharifi e al. c. Italia e Grecia, e della Corte giust., N.S. e. a., 21 dicembre 2011, cause riunite C411/10 e C-493/10) e in una certa rigidità del sistema di determinazione dello Stato membro competente, da individuarsi, per regola generale e salvo le pur possibili eccezioni, nello Stato di primo ingresso del richiedente protezione internazionale. Quest’ultimo aspetto ha fatto sì che tra gli Stati che per la loro situazione geografica costituiscono la frontiera di primo ingresso, come l’Italia, si sia fatta valere l’esigenza di una maggiore elasticità del sistema richiedendone una sostanziale riforma. Per contro, gli Stati nord-europei, che rappresentano nella gran parte dei casi la meta agognata da parte dei migranti, ne pretendono l’applicazione conforme. Tutto ciò ha contribuito, in un’utilizzazione spesso politicamente pretestuosa, a rendere ancora più teso il clima tra gli Stati membri, aggravando vecchie fratture e incomprensioni e creandone di nuove.
In questo contesto l’attuazione effettiva dei principi di reciproca fiducia e di solidarietà stenta a realizzarsi, venendo di fatto declinata principalmente in chiave economica, mentre ciascuno Stato gestisce le proprie frontiere esterne, con periodiche critiche e tensioni variamente manifestate. È dunque la mancanza di una reale convergenza politica tra gli Stati membri la vera causa dell’immobilismo di quella che la vulgata giornalistica identifica con “l’Europa”, di fronte all’acuirsi dei flussi migratori, sia attraverso la rotta mediterranea sia attraverso la rotta balcanica, con il loro carico di perdite umane sempre più tragiche e frequenti.
Nella riunione straordinaria del 23 aprile 2015 il Consiglio europeo ha tra l’altro convenuto di accrescere gli aiuti d’urgenza agli Stati membri in prima linea e di considerare opzioni per l’organizzazione di una ricollocazione di emergenza fra tutti gli Stati membri su base volontaria.
A questo scopo la Commissione, il 27 maggio 2015, ha pubblicato l’Agenda europea sull’immigrazione [COM(2015)240], individuandovi le azioni fondamentali da intraprendere allo scopo. In particolare vi si prevede il potenziamento del ruolo di FRONTEX e delle capacità delle operazioni Triton e Poseidon; il sostegno a una possibile missione nel quadro della PSDC volta a smantellare le reti del traffico di migranti; una proposta legislativa per attivare il sistema di emergenza previsto dall’art. 78, par. 3, TFUE, in base ad un meccanismo temporaneo di distribuzione delle persone bisognose di protezione internazionale, a cui dovrebbe far seguito entro la fine 2015 una proposta di sistema comune permanente UE di ricollocazione in situazioni emergenziali; infine la presentazione di un programma di reinsediamento dell’UE allo scopo di offrire ai rifugiati – cui sia stata già riconosciuta la protezione internazionale in un Paese terzo – 20.000 posti distribuiti fra gli Stati membri.
Non si intende qui esaminare in dettaglio le misure finora intraprese. Basti segnalare come sul primo punto si sia provveduto ad incrementare la missione Triton sia sotto il profilo finanziario che quello dei mezzi operativi, sia infine estendendone il raggio d’azione fino a 138 nm dalla Sicilia; sul secondo punto vale la pena di ricordare la decisione del Consiglio relativa alla missione militare EUNAVFOR MED dall’Òincerto” mandato di «smantellare il modello di business
dei trafficanti nel Mediterraneo centromeridionale»
(decisione(PESC)2015/778 del Consiglio. Sulla missione si vedano le concise ma inequivocabili osservazioni di N. RONZITTI, Emergen-
za e respingimenti in alto mare, in
http://www.affarinternazionali.it/articolo.asp?ID=3098). Vorremmo piuttosto attirare l’attenzione su alcune incongruenze circa le modalità con cui il Consiglio europeo ha affrontato la questione della ricollocazione.
Come è noto, il 27 maggio la Commissione, dando seguito all’Agenda, ha presentato una proposta di decisione del Consiglio relativa a un meccanismo provvisorio di ricollocazione europeo per assistere l’Italia e la Grecia (Paesi che, peraltro, beneficiano anche di piani di sostegno speciale in materia di asilo concordati con l’UESA) (COM/2015/286/final).
Il meccanismo, basato sull’art. 78, par. 3, TFUE, comporta una deroga temporanea e obbligatoria ai criteri di competenza del regolamento (UE) 604/2013, c.d. Dublino III, in particolare al suo art. 13(1), e prevede il ricollocamento negli Stati membri, nei prossimi due anni, di 40.000 richiedenti siriani ed eritrei arrivati in Italia (24.000) e in Grecia (16.000) dopo il 15 aprile 2015, o che arriveranno dopo l’adozione della decisione, pari a circa il 40% del totale di quelli aventi tale nazionalità. La distribuzione per Stato membro proposta dalla Commissione avrebbe tenuto conto di alcuni parametri oggettivi, quali la popolazione complessiva (ponderazione del 40%), il PIL totale (ponderazione del 40%), il numero di rifugiati già presenti sul territorio nazionale nel periodo 2010-2014 (ponderazione del 10%) e il tasso di disoccupazione (ponderazione del 10%). L’Italia e la Grecia, in quanto Stati soggetti alla pressione migratoria di primo ingresso, non sono prese in considerazione ai fini della ricollocazione delle persone in evidente bisogno di protezione internazionale; tuttavia sarebbero tenute a presentare alla Commissione e al Consiglio una specifica tabella di marcia che comprende misure adeguate nei settori dell'asilo, della prima accoglienza e del rimpatrio dirette a migliorare le capacità, la qualità e l'efficacia dei loro sistemi in questi settori, e a garantire l'applicazione corretta della decisione. Regno Unito, Irlanda e Danimarca sono anch’esse escluse dalla ripartizione in forza del regime di opt out di cui godono.
La chiave complessiva della distribuzione proposta dalla Commissione non ha incontrato il favore dei Governi degli Stati membri. Da un lato, infatti, i Paesi nei cui confronti le regole dell’Unione in materia di asilo e immigrazione si applicano in maniera differenziata – Regno Unito, Irlanda e Danimarca – non sono interessati dalla ripartizione; dall’altro lato, Ungheria, Spagna, Finlandia, Polonia, Lettonia, Lituania, Estonia, Slovacchia e Repubblica ceca hanno manifestato la loro netta contrarietà; dall’altro lato ancora, Francia e Germania hanno chiesto di rivedere i criteri di ripartizione utilizzati e maggior rispetto delle procedure d’identificazione.
Con queste premesse, il confronto politico tra i Capi di Stato e di Governo è stato particolarmente aspro e le conclusioni del Consiglio europeo del 25 e 26 giugno hanno individuato una strada per definire le modalità di ricollocazione/reinsediamento di 60.000 persone in evidente bisogno di protezione internazionale che non sembra del tutto coerente con i Trattati.
Per quanto riguarda in particolare la ricollocazione temporanea ed eccezionale da Italia e Grecia di 40.000 persone in evidente bisogno di protezione internazionale, su un periodo di due anni, il punto 4, B), delle conclusioni del Consiglio europeo rinvia alla rapida adozione da parte del Consiglio di una decisione in tal senso e prevede che «a tal fine tutti gli Stati membri raggiungeranno un accordo per consenso entro fine luglio sulla distribuzione di tali persone, rispecchiando le situazioni specifiche degli Stati membri» (corsivo aggiunto).
Il 20 luglio i rappresentanti dei Governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio hanno adottato una risoluzione con cui approvano la ricollocazione, su un periodo di due anni, di 40.000 persone in evidente bisogno di protezione internazionale dagli Stati membri in prima linea, Italia e Grecia, e, come primo passo, decidono la ricollocazione di 32.256 persone, ripartendole tra gli Stati membri nei numeri indicati nell’allegato; convenendo di aggiornare le cifre entro il dicembre 2015 al fine di raggiungere il numero complessivo di 40.000 persone conformemente all'impegno assunto in seno al Consiglio europeo del 25 e 26 giugno 2015. L’Irlanda, esercitando l’opting in di cui al Protocollo (21), ha dato la disponibilità ad accogliere 600 persone.
Secondo quanto dichiarato nell’Outcome of the Council meeting il Consiglio «will formally adopt the decision once the European Parliament gives its opinion, which is expected in September».
Come si è sopra anticipato, la proposta decisione del Consiglio che stabilisce misure provvisorie in materia di protezione internazionale a beneficio di Italia e Grecia, indica come propria base giuridica l’art. 78, par. 3, TFUE. Derogando alla regola generale stabilita nel par. 2 dell’art. 78 che vuole che le misure in materia di protezione internazionale siano adottate dal Parlamento europeo e dal Consiglio seguendo la procedura legislativa ordinaria, il par. 3 della disposizione prevede che quando uno Stato membro si trovi ad affrontare una situazione di emergenza caratterizzata da un afflusso improvviso di cittadini di Stati terzi, il Consiglio, su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo possa adottare le necessarie misure temporanee. In quest’ultimo caso, dunque, il Trattato delinea una procedura non legislativa in cui il Consiglio delibera, secondo quanto stabilito in via generale dall’art. 16, par. 3 TUE, a maggioranza qualificata su proposta della Commissione e dopo aver consultato il Parlamento europeo.
Non si intende qui entrare nel merito della questione se la situazione verificatasi nelle acque del Mediterraneo nei primi mesi del 2015 possa effettivamente essere qualificata come «un afflusso improvviso», evenienza questa che giustificherebbe l’applicazione del par. 3 dell’art. 78 e l’adozione di misure emergenziali con una procedura non legislativa, o non costituisca piuttosto l’aggravamento del fenomeno migratorio in corso ormai da tempo da affrontare con misure generali da adottarsi sulla base dell’art. 78, par. 2, con procedura legislativa ordinaria (sul punto si veda M. BORRACCETTI, “To quota” or “not to quota”? The EU facing effective solidarity in its Asylum Policy, in http://www.eurojus.it).
In realtà nel caso di specie la questione della base giuridica sembra assumere contorni diversi e ben più gravi, non potendosi escludere un vero e proprio “aggiramento” del diritto primario. Nulla nel Capo 2 del Titolo V TFUE lascia infatti spazio a decisioni prese all’unanimità dal Consiglio e men che mai ad atti dei rappresentanti degli Stati membri in sede di Consiglio. Questo tipo di atti, che non trovano un formale fondamento nei Trattati e hanno natura ed efficacia eterogenea, sono caratterizzati dal fatto di essere adottati dalla collettività degli Stati membri agenti non in quanto membri di un’istituzione dell’Unione ma in quanto soggetti sovrani e ciò nondimeno di essere così strettamente ed intimamente connessi al sistema normativo dell’Unione da essere ricompresi nell’acquis alla cui accettazione globale è condizionata l’adesione di nuovi Stati (su tali atti e la loro collocazione nel sistema delle fonti UE si rinvia a P. MORI, Rapporti tra fonti nel diritto dell’Unione europea. Il diritto primario, Torino, 2010, p. 233-273).
Ora, in un sistema caratterizzato da un elevato livello di rigidità quale è quello dell’Unione, il ricorso ad una fonte atipica nel corso di un procedimento decisionale basato sul Trattato può giustificarsi, nel rispetto delle competenze e dell’equilibrio istituzionale, solo nella misura in cui sia funzionale a colmare eventuali lacune dello stesso.
Si aggiunga che l’art. 296, comma 3, TFUE stabilisce l’obbligo a carico del Parlamento europeo e del Consiglio di astenersi da atti non previsti dalla procedura legislativa applicabile (R. ADAM, A. TIZZANO, Manuale di diritto dell’Unione europea, 2014, p. 181 s.; P. MORI, Art. 296, in Trattati dell’Unione europea e della Comunità europea, a cura di A. TIZZANO, Milano, 2004). Sancito con riferimento ai soli progetti di atti legislativi, tale obbligo sembra in realtà esprimere un’esigenza di portata generale rivolta a evitare sviamenti di procedura e quindi a tutelare il principio di legalità e quello del rispetto dell’equilibrio istituzionale; in quanto tale si può ritenere che esso si imponga come una regola di correttezza istituzionale applicabile in tutte le procedure decisionali.
Considerando che l’art. 293 TFUE prevede che Consiglio, deliberando all’unanimità, possa comunque emendare la proposta della Commissione, non si comprendono le ragioni al fondo di una tale scelta se non quelle, di natura prettamente politica, di ricondurre le dinamiche normative in materia a quel metodo intergovernativo che, almeno per questo settore, sembrava, per volontà degli stessi Stati membri, ormai espunto dal sistema dei Trattati.
Eppure l’iniziale proposta della Commissione è stata significativamente “modificata” sia nei numeri finali della distribuzione sia per quanto riguarda i criteri sulla base dei quali questa è stata effettuata (unico criterio la non altrimenti definita «specifica situazione degli Stati membri») dalla risoluzione del 20 luglio dei rappresentanti dei Governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio. Ora se è ben vero che il Consiglio, deliberando all’unanimità, può emendare la proposta della Commissione, questo dovrebbe però avvenire nel corso dell’iter decisionale del Consiglio, che è un’istituzione dell’Unione, e non sulla base dell’accordo tra gli Stati membri raggiunto a margine del Consiglio.
È ben stabilito che le regole relative alla formazione della volontà delle istituzioni e degli atti normativi dell’Unione trovano la loro fonte nei Trattati e «non sono derogabili né dagli Stati membri né dalle stesse istituzioni» (Corte giust. 6 maggio 2008, C-133/06, Parlamento c. Consiglio, punto 54). La giurisprudenza della Corte di giustizia sui c.d. fondamenti normativi derivati, cioè le modifiche delle procedure decisionali previste dai Trattati poste in essere dalle istituzioni o dagli Stati membri senza revisione degli stessi, è molto rigorosa ed attenta al rispetto del principio dell’equilibrio istituzionale (Corte giust. 22 maggio 1990, causa C-70/88, Parlamento c. Consiglio, punto 22). E come la stessa Corte ha tenuto a sottolineare proprio con riferimento ad un caso riguardante la politica comune dell’asilo l’adozione di fondamenti normativi derivati «non può neppure essere giustificata in base a considerazioni riguardanti il carattere politicamente delicato della materia di cui trattasi o riguardanti la volontà di garantire l’efficacia di un’azione comunitaria» (C-133/06, cit., punto 59).