argomento: Osservatorio
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di CELESTE PESCE
Disciplina europea del lavoro interinale: tutele dei lavoratori e competenze nazionali. Nota a sentenza della Corte di giustizia UE del 14 ottobre 2020, causa C‑681/18, KG
Celeste Pesce
1. La sentenza pregiudiziale del 14 ottobre 2020 (sentenza del 14 ottobre 2020, causa C‑681/18, KG), ha origine da una controversia italiana tra un lavoratore interinale e una impresa utilizzatrice, concernente la successione di contratti di somministrazione di lavoro tramite agenzia interinale e delle relative proroghe, note come missioni successive.
Nella fattispecie, ad essere interessato da dubbi interpretativi era l’art. 5, par. 5, della direttiva 2008/104/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 novembre 2008, relativa al lavoro tramite agenzia interinale; disposizione che si rivolge agli Stati membri obbligandoli ad adottare le misure necessarie, conformemente alla legislazione e/o alle pratiche nazionali, per evitare il ricorso abusivo all’applicazione della medesima norma e per prevenire missioni successive con lo scopo di eludere le disposizioni della direttiva.
Le argomentazioni svolte dalla Corte nella sua sentenza, di qui a poco indagate, definiscono i parametri entro cui il giudice a quo può accertare se la reiterazione dei contratti di lavoro discussa sia una misura elusiva della direttiva del 2008 riconducibile all’art. 5 poc’anzi menzionato.
Nel complesso, il procedimento pregiudiziale è stata l’occasione per vagliare i profili sociali del lavoro interinale come disegnato dall’Unione nel 2008. Per tale via, la Corte di giustizia ha avuto modo di ribadire la centralità del principio di parità di trattamento dei lavoratori, la necessità di norme nazionali di contrasto al ricorso abusivo al lavoro interinale – misure elusive – e i poteri del giudice nazionale chiamato a dirimere la lite.
Indubbia, quindi, la significatività della pronuncia come la sua capacità di avviare la discussione e la riflessione su pratiche nazionali e su aspetti rilevanti della disciplina europea in tema di lavoro tramite agenzia interinale, al fine di stabilirne, rispettivamente, condizioni di compatibilità europea e confini. Si percepisce sin d’ora che le considerazioni del giudice di Lussemburgo, sono destinate a divenire precedente giurisprudenziale in grado di orientare giudici e legislatori interni su una prassi abbastanza frequente in taluni contesti lavorativi.
Si tenga, altresì, conto che è la prima volta che la Corte interviene sulla ripetizione e sulle proroghe dei contratti di somministrazione de quibus interpretando l’art. 5, par. 5, della direttiva 2008/104/CE. Infatti, proprio le specificità e le novità della fattispecie come della disposizione interessata hanno giocato un ruolo decisivo nella sua determinazione a rispondere in via pregiudiziale. Del pari, ampliando il campo di osservazione, le questioni sollevate hanno riguardato l’interpretazione di una norma del diritto dell’Unione; ne è seguito il dovere della Corte di statuire in via di principio, godendo le medesime di presunzione di rilevanza (Corte giust. 8 maggio 2019, C‑486/18, Praxair MRC).
Del tutto condivisibile, pertanto, la scelta del giudice dell’Unione di entrare nel merito del lavoro tramite agenzia interinale. Tema che continua a dividere gli Stati membri e, al loro interno, parti datoriali e lavoratori.
2. Come accennato, il quesito interpretativo nasce nell’ambito di una controversia italiana tra il lavoratore interinale JH e la società utilizzatrice KG.
Tra il 2014 e il 2016, JH è assegnato in qualità di lavoratore interinale all’impresa utilizzatrice KG. Ciò avviene mediante una successione di contratti di somministrazione di lavoro (otto) prorogati più volte (diciassette).
Nel 2017, JH presenta ricorso al Tribunale di Brescia per vedersi riconosciuta la qualità di lavoratore a tempo indeterminato della società KG, per avvenuto superamento del numero massimo di proroghe dei contratti di lavoro interinale consentito dalla normativa nazionale. Al tempo stesso, l’azione legale mira ad accertare e dichiarare l’illegittimità e/o l’irregolarità e/o la nullità dei contratti di somministrazione di lavoro sulla base dei quali era stato messo a disposizione della KG.
Secondo l’istante, le disposizioni nazionali applicabili sarebbero contrarie alla direttiva 2008/104/CE, laddove non prevedono alcun limite alle missioni successive dei lavoratori messi a disposizione di uno stesso utilizzatore.
I motivi del ricorso si concentrano sul considerando 15 della direttiva, che disegnerebbe i rapporti di lavoro in generale nella forma di contratto a tempo indeterminato, e sull’art. 5, par. 5, prima frase, della medesima direttiva, che imporrebbe agli Stati membri di adottare le opportune misure di contrasto a pratiche contrattuali elusive.
Peraltro, la successione di contratti di somministrazione di lavoro sarebbe illecita ai sensi del diritto interno (art. 1344 c.c.; art. 1421 c.c.) e tali contratti nulli per violazione del divieto di somministrazione di lavoro fraudolenta ai sensi dell’art. 28 del d.lgs. n. 276/2003, come novellato segnatamente dal d.lgs. 2 marzo 2012, n. 24 di attuazione della direttiva 2008/104/CE. Proprio quest’ultimo testo porta il giudice del rinvio a valutare che la sua applicazione condurrebbe, in linea di principio, al rigetto del ricorso. Infatti, l’art. 20, quarto comma, dello stesso d.lgs. n. 276/2003 non prevede che la somministrazione di lavoro a tempo determinato sia ammessa solo a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, né la necessità di indicare tali ragioni nel contratto scritto. Ugualmente, il successivo art. 22 esclude l’applicabilità dell’art. 5, co. 3 e seguenti, del d.lgs. n. 368/2001 che circoscrive la possibilità di stipulare più contratti a tempo determinato in successione e, in ogni caso, stabilisce un tetto massimo di trentasei mesi di occupazione. In altri termini, il d.lgs. n. 276/2003, come modificato in particolare dal testo che recepisce la direttiva in parola, non limita il numero consentito di missioni successive del lavoratore interinale presso la stessa impresa utilizzatrice.
Tanto considerato, il giudice italiano dubita che la normativa nazionale applicabile ratione temporis sia conforme alla direttiva 2008/104/CE e, in particolare, al suo art. 5, par. 5, nella misura in cui non permette alcun controllo giurisdizionale sulle ragioni del ricorso al lavoro tramite agenzia interinale né fissa limiti alle missioni successive dello stesso lavoratore presso la medesima impresa utilizzatrice. Di qui l’interrogativo alla Corte UE sul fatto che la menzionata disposizione della direttiva in parola ammetta una simile normativa nazionale.
3. Quanto al piano di indagine, va ricordato, in poche battute, che la direttiva 2008/104/CE integra due precedenti atti dell’Unione sul lavoro atipico allo scopo di raggiungere il più elevato grado di armonizzazione del diritto sociale (direttive 97/81/CE del Consiglio, del 15 dicembre 1997, relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES, e 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato).
L’azione dell’Unione in tale settore intende sviluppare forme di lavoro flessibili nell’accezione positiva di incremento e valorizzazione delle possibilità di ingresso e inserimento duraturo nel mondo del lavoro. Il legislatore comunitario del 2008 si propone, cioè, di stimolare l’accesso al lavoro a tempo indeterminato presso l’impresa utilizzatrice tramite agenzia interinale.
Invero, il punto focale della direttiva 2008/104/CE è che la forma comune dei rapporti di lavoro resta, tendenzialmente, il contratto di lavoro a tempo indeterminato (quindicesimo considerando). Di qui una disciplina organica, non discriminatoria, trasparente e proporzionata nel rispetto della diversità dei mercati del lavoro, a tutela dei lavoratori interinali.
Il principio che informa la direttiva è la parità di trattamento (art. 5, par. 1): il lavoratore interinale beneficia per tutta la durata della sua missione presso un’impresa utilizzatrice di condizioni di base di lavoro e d’occupazione almeno identiche a quelle che gli si applicherebbero se fosse stato direttamente impiegato dalla stessa impresa per svolgervi il medesimo lavoro (v. anche art. 31 della Carta).
Al contempo, la direttiva responsabilizza gli Stati membri (i legislatori nazionali) in fase di adeguamento. È questo il profilo che interessa maggiormente ai nostri fini. Si fa riferimento all’art. 5, par. 5, della direttiva 2008/104/CE che, come accennato, impone agli Stati membri due obblighi distinti, come la stessa Corte UE precisa nella pronuncia in esame (v. infra). Il primo consiste nell’evitare il ricorso abusivo all’applicazione dello stesso art. 5, e ha una portata circoscritta alla disposizione detta. Il secondo mira a prevenire missioni successive con lo scopo di aggirare le disposizioni della direttiva nel suo complesso, con chiare finalità trasversali di prevenzione di proroghe a chiave elusiva della direttiva nel suo insieme.
Il modello normativo così originato intende bilanciare flessibilità e sicurezza sul mercato del lavoro, la c.d. «flessicurezza». Ove la prima va incontro alle esigenze delle parti datoriali e la seconda alla tutela dei lavoratori.
4. La risposta pregiudiziale può apparire alquanto complessa se non opportunamente indagata.
La disamina della Corte di giustizia si snoda in tre punti argomentativi fra loro conseguenziali: la portata dell’art. 5, par. 5, prima fase; la lettura organica del testo del 2008, avanzata dal giudice bresciano; gli obblighi e le competenze del giudice nazionale quale giudice dell’Unione.
In merito al primo profilo, la Corte ripercorre gli obiettivi della direttiva del 2008. Vale a dire stabilire un quadro normativo a tutela dei lavoratori interinali paritario, trasparente e proporzionato nel rispetto delle peculiarità del rapporto di lavoro tramite agenzia interinale; migliorare la qualità del lavoro interinale, tenuto conto della necessità di inquadrare il ricorso a tale tipologia contrattuale in una più ampia politica di creazione di posti di lavoro e di sviluppo di forme di lavoro flessibili.
A tale scopo la direttiva 2008/104/CE si limita a prevedere requisiti minimi per realizzare la parità di trattamento dei lavoratori tramite agenzia interinale (art. 5); e il riesame dei divieti nonché delle restrizioni applicabili al lavoro interinale, introdotti dagli Stati membri, volto a mantenere in vigore esclusivamente quelli giustificati da ragioni d’interesse generale ed inerenti alla tutela dei lavoratori (art. 4).
Nell’ambito delle previsioni citate, la Corte osserva che l’art. 5, par. 5, prima frase, della direttiva de qua stabilisce che gli Stati membri adottino le misure necessarie per evitare che esso sia applicato abusivamente e, in particolare, per prevenire missioni successive elusive della direttiva.
E qui la Corte pare arrestarsi. Infatti, a suo giudizio, tale disposizione non impone agli Stati di limitare il numero di missioni successive di un medesimo lavoratore presso la stessa impresa utilizzatrice o di subordinare il ricorso a detta forma di lavoro all’indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo sostitutivo.
A supporto, la Corte richiama l’art. 4, par. 1, della direttiva ai sensi del quale i divieti o le restrizioni al ricorso al lavoro tramite agenzia interinale eventualmente previsti dagli Stati membri devono essere giustificati da ragioni d’interesse generale che investono la tutela dei lavoratori tramite agenzia interinale, le prescrizioni in materia di salute e di sicurezza sul lavoro o la necessità di garantire il buon funzionamento del mercato del lavoro e la prevenzione di abusi. E, del pari, ricorda la propria giurisprudenza secondo cui la norma in esame delimita l’ambito entro il quale deve svolgersi l’attività legislativa degli Stati membri al riguardo, senza, cioè, imporre l’adozione di una determinata normativa in materia, quand’anche per prevenire abusi (sentenza del 17 marzo 2015, causa C‑533/13, AKT).
Pertanto, l’art. 5, par. 5, prima frase, della direttiva 2008/104/CE non limita il numero di missioni successive che un medesimo lavoratore tramite agenzia interinale può svolgere presso la stessa impresa utilizzatrice e non subordina la legittimità del ricorso al lavoro tramite interinale all’indicazione di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. Né si può dedurre che tale disposizione obblighi gli Stati membri a prevedere, nei rispettivi ordinamenti nazionali, la totalità o parte delle misure specifiche atte a legittimare il ricorso a tale tipologia contrattuale.
5. Ciò nonostante, il giudice dell’Unione prosegue valutando la non conformità alla direttiva della normativa italiana nella misura in cui, non adottando misure antielusive, possa consentire missioni successive di uno stesso lavoratore presso la medesima impresa utilizzatrice.
Le perplessità al riguardo del giudice nazionale si concentravano anche sulla lettura e sull’attuazione dell’art. 1, par. 1, della direttiva 2008/14/CE, che presuppone il carattere temporaneo dell’assegnazione del lavoratore all’impresa utilizzatrice.
Pertanto, la Corte cerca di chiarire se, con l’adozione della direttiva in analisi, il legislatore dell’Unione abbia inteso preservare il carattere temporaneo del lavoro interinale, imponendo agli Stati membri di vietare i rinnovi illimitati di missioni che soddisfano esigenze permanenti di personale dell’impresa utilizzatrice e che finiscono per eludere la direttiva e, nello specifico, le finalità riconducibili al menzionato art. 5, par. 5, prima frase, letto alla luce del quindicesimo considerando.
La risposta pregiudiziale sul punto si articola in diverse argomentazioni. In primo luogo, il giudice dell’Unione precisa che la direttiva coniuga le esigenze di flessibilità delle imprese con la necessità dei lavoratori di conciliare vita privata e professionale, contribuendo alla creazione di posti di lavoro, alla partecipazione al mercato del lavoro e all’inserimento nello stesso. Vale a dire, bilanciare la flessibilità con la sicurezza sui luoghi di lavoro.
Questo duplice obiettivo rispecchia la volontà del legislatore dell’Unione di ravvicinare le condizioni del lavoro tramite agenzia interinale ai rapporti di lavoro «normali», tanto più che il considerando 15 rammenta che la forma comune dei rapporti di lavoro è il contratto a tempo indeterminato. La direttiva, di conseguenza, incoraggia l’accesso dei lavoratori interinali ad un impiego permanente presso l’impresa utilizzatrice (art. 6, parr. 1-2).
Parallelamente, la Corte afferma la centralità del principio della parità di trattamento (art. 5, par. 1). Difatti, per tutta la durata della missione presso un’impresa utilizzatrice, le condizioni di base di lavoro e di occupazione dei lavoratori tramite agenzia interinale devono corrispondere, come minimo, a quelle che si applicherebbero loro se fossero direttamente impiegati dalla stessa impresa per svolgervi il medesimo lavoro.
Ancora, la direttiva – primo considerando – mira a garantire il pieno rispetto dell’art. 31 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il quale sancisce, in modo generale, il diritto di ogni lavoratore a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose ai sensi dell’art. 156 TFUE, che, come la Corte osserva, si limita a contemplare, senza definirle, le «condizioni di lavoro» come uno dei settori della politica sociale dell’Unione in cui la Commissione può intervenire per incoraggiare la cooperazione e il coordinamento tra gli Stati.
Unendo tale considerazione alle finalità di tutela dei diritti del lavoratore tramite agenzia interinale, perseguite dalla direttiva 2008/104/CE, la mancanza di precisione depone a favore di un’interpretazione estensiva della nozione di «condizioni di lavoro».
Ancora nello stesso senso, l’art. 5, par. 5, prima frase, della direttiva impone agli Stati membri due obblighi; ossia di adottare le misure necessarie ad evitare il ricorso abusivo alle deroghe al principio della parità di trattamento e a prevenire missioni successive aventi lo scopo di aggirare le disposizioni della direttiva nel suo insieme.
A tale riguardo, la Corte si concentra sull’interpretazione letterale della norma in parola, sulla sua economia e finalità, deducendone che i due obblighi posti a carico degli Stati hanno portate ben distinte. Il primo obbligo impone loro di adottare le misure necessarie al fine di evitare unicamente un ricorso abusivo alle deroghe autorizzate ai sensi dell’art. 5, parr. da 2 a 4, della direttiva. Il secondo è, viceversa, enunciato in maniera più ampia, e mira a fare sì che gli Stati adottino le misure necessarie per prevenire, in particolare, missioni successive elusive della direttiva nel suo complesso.
Ugualmente, la Corte constata che la direttiva 2008/104/CE è finalizzata anche a fare sì che gli Stati membri si adoperino affinché il lavoro tramite interinale presso la stessa impresa utilizzatrice non diventi una situazione permanente per il lavoratore così coinvolto.
A tale proposito, si rammenta il tenore della direttiva nel senso di attribuire carattere temporaneo al rapporto di lavoro con un’impresa utilizzatrice.
Inoltre, ricorda la Corte, se è vero che la direttiva riguarda rapporti di lavoro temporanei, transitori o limitati nel tempo, nondimeno essa precisa che i contratti di lavoro a tempo indeterminato rappresentano la forma comune di rapporti di lavoro e che i lavoratori interinali devono essere informati dei posti vacanti nell’impresa utilizzatrice, affinché possano aspirare a ricoprire posti di lavoro a tempo indeterminato, al pari degli altri dipendenti dell’impresa (considerando 15; art. 6, parr. 1-2).
Infine, conclude la Corte, non è revocabile in dubbio che l’art. 5, par. 5, prima frase, impone agli Stati membri, in termini chiari, precisi e incondizionati, di adottare le misure necessarie per impedire gli abusi consistenti nelle successioni di missioni di lavoro tramite agenzia interinale volte ad eludere le disposizioni della direttiva.
Ne segue che tale disposizione non ammette che uno Stato membro non adotti alcuna misura al fine di preservare la natura temporanea del lavoro tramite agenzia interinale.
6. Il punto conclusivo della risposta pregiudiziale riguarda da vicino gli organi giurisdizionali nazionali quali giudici dell’Unione.
In merito, la Corte di giustizia ribadisce la propria giurisprudenza secondo cui l’obbligo degli Stati membri, derivante da una direttiva, di raggiungere il risultato ivi previsto, nonché il loro dovere di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l’adempimento di tale obbligo (art. 4, par. 3, TUE; art. 288 TFUE), valgono per tutti gli organi statali compresi quelli giurisdizionali nell’ambito della loro competenza (sentenza del 19 settembre 2019, causa C‑467/18, Rayonna prokuratura Lom).
Per attuare tale obbligo, il principio d’interpretazione conforme esige che i giudici nazionali si adoperino al meglio, prendendo in considerazione il diritto interno nel suo insieme e applicando i metodi di interpretazione riconosciuti da quest’ultimo, al fine di garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione e di pervenire a una soluzione conforme all’obiettivo europeo. Tuttavia, tale principio non può servire a fondare un’interpretazione contra legem del diritto nazionale.
Così, nel caso di specie, il giudice del rinvio deve accertare la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro di cui trattasi nel procedimento principale, tenendo conto sia della direttiva 2008/104/CE, sia del diritto nazionale di trasposizione, in modo da verificare se sussista un rapporto di lavoro a tempo indeterminato al quale sia stata artificiosamente attribuita la forma di una successione di contratti di lavoro interinale con lo scopo di disattendere gli obiettivi della direttiva e la natura temporanea del lavoro interinale.
A questi fini, il giudice del rinvio può tenere conto di diverse considerazioni ben indicate dal giudice del Lussemburgo. In primo luogo, del fatto che le proroghe discusse conducono a una durata dell’attività presso l’impresa utilizzatrice più lunga di quanto possa essere ragionevolmente qualificato come temporaneo. Analogamente, della circostanza che simili missioni successive travisano l’essenza stessa della direttiva, costituiscono un abuso di tale forma di rapporto di lavoro, e pregiudicano l’equilibrio tra la flessibilità e la sicurezza. Infine, quando l’impresa utilizzatrice interessata non fornisce alcuna spiegazione oggettiva al ricorso alla successione di contratti di lavoro tramite agenzia interinale, spetta al giudice nazionale verificare, nel contesto del quadro normativo nazionale e tenendo conto delle circostanze di specie, se una delle disposizioni della direttiva 2008/104/CE venga aggirata. Ciò in particolare modo qualora sia sempre lo stesso lavoratore interinale ad essere assegnato all’impresa utilizzatrice in forza di contratti successivi.
7. In definitiva, l’art. 5, par. 5, prima frase, della direttiva 2008/104/CE non impone agli Stati membri l’obbligo di prevedere la totalità o una parte delle misure specifiche antielusive. Al contempo, la medesima disposizione non ammette che uno Stato membro non adotti alcuna misura al fine di preservare la natura temporanea del lavoro tramite agenzia interinale.
Come a volere, da un lato, richiamare i legislatori nazionali alla ricerca di un bilanciamento che tenga conto delle finalità della direttiva, delle realtà giuridiche e sostanziali interne come delle caratteristiche dei mercati del lavoro; dall’altro, salvaguardare l’impianto della disciplina europea del lavoro interinale quale lavoro a tempo determinato che, al contempo, ha in sé il seme della stabilità contrattuale. Ergo, temporaneità sì, ma a patto che non sia duratura, reiterata né elusiva o, più in generale, senza alcuna prospettiva di stabilizzazione nell’ipotesi di successione di contratti presso la medesima impresa utilizzatrice dello stesso lavoratore interinale.
Più da vicino per quanto concerne l’ordinamento italiano, coinvolto nel procedimento pregiudiziale, non si può escludere che la sentenza annotata incida a medio-lungo termine sulla sensibilità giuridica del nostro legislatore, sino a indurlo a rivedere la disciplina interna del lavoro tramite agenzia interinale in maniera più ragionata rispetto a quanto sinora accaduto in occasione del recepimento della direttiva europea del 2008 (d.lgs. 2 marzo 2012, n. 24 di attuazione della direttiva 2008/104/CE e d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’art. 1, co. 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183) e in maniera più conforme al senso della direttiva stessa.
Del pari, andrebbero ripensati i termini nazionali (italiani) di garanzia e di rispetto del principio di parità di trattamento dei lavoratori dell’Unione presente nei Trattati istitutivi e tradotto in molteplici atti di diritto derivato dell’Unione. Principio che ricordiamo, senza timore di ripeterci, è alla base di qualsiasi azione e/o politica dell’Unione in tema di diritto dei lavoratori; prescinde dalla tipologia contrattuale individuata sul piano nazionale; ed è in grado di esplicare i propri effetti in ogni contesto lavorativo e ad ogni livello – europeo e nazionale – di osservazione e di attuazione.
Nelle more delle auspicate riflessioni e modifiche normative da parte del legislatore italiano, riguardato dalla pronuncia, come degli altri Stati membri che possano versare in situazioni analoghe alle nostre, il principio guida in tema del lavoro tramite agenzia interinale, ricavabile dal caso KG, è in medio stat virtus. Ciò pare giovare, nell’immediato, gli operatori del diritto che, a diverso titolo, possano entrare in contatto con la disciplina europea e nazionale di adeguamento in materia di lavoro interinale. Del resto, ancora una volta, la Corte sottolinea la centralità del giudice nazionale quale giudice dell’Unione e quale luogo di coniugazione tra circostanze e normativa applicabile sia dell’UE sia nazionale. Spetta, infatti, al giudice interno investito della controversia, cucire la soluzione ad hoc per il caso di specie e comporre il delicato equilibrio delle contrapposte esigenze e finalità in gioco di volta in volta.