argomento: Osservatorio - Unione Europea
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di ROBERTO MASTROIANNI
1. Qual è il rimedio al quale il diritto dell’Unione europea impone di ricorrere per risolvere i problemi di incompatibilità tra una legge interna e una norma di diritto dell’Unione dotata di efficacia diretta? Come ampiamente noto, la risposta si rinviene nella sentenza Simmenthal (e nelle conferme che questa ha avuto nella giurisprudenza successiva) ed è, da Granital in poi, univoca nella giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr. tra le tante la sentenza n. 86 del 2012): spetta al giudice comune, nell’ambito delle sue competenze, riconoscere piena ed immediata tutela alle situazioni giuridiche attribuite dal diritto dell’Unione, disapplicando all’occorrenza qualsiasi regola di diritto interno che contenga prescrizioni con esse incompatibili. In questo schema, completato, se necessario, dal coinvolgimento della Corte di giustizia attraverso il rinvio pregiudiziale, la Corte costituzionale non gioca alcun ruolo (con la nota eccezione, di estrema attualità a seguito della sentenza Taricco, dell’invocazione dei “controlimiti”) , diversamente da quanto avviene nell’ipotesi in cui la presunta antinomia coinvolga una regola di diritto dell’Unione non dotata di efficacia diretta, nel qual caso, come chiarito dalla giurisprudenza più recente (ad es. sentenze n. 28 e 227del 2010), la soluzione del conflitto trova la sua sede naturale dinanzi alla Consulta.
Non è facile inquadrare in questo percorso consolidato la recente sentenza n. 133 del 2016, nella quale la Corte costituzionale appare aver rispolverato il sistema – pre-Granital – di controllo accentrato della “comunitarietà” delle leggi. In breve, si tratta della decisione con la quale la Consulta è stata chiamata da più giudici amministrativi a risolvere i dubbi di conformità con la Costituzione dell’art. 1, commi 1, 2 e 3 del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 agosto 2014, n. 114, nella parte in cui per alcune categorie di impiegati pubblici (avvocati dello Stato, docenti universitari) impone la brusca interruzione del trattamento in servizio ottenuto, in applicazione delle leggi precedenti, nonostante il compimento del settantesimo anno. I giudici rimettenti dubitavano della legittimità costituzionale di questa modifica legislativa in riferimento a diversi parametri, tra i quali, per quello che qui interessa, l’art. 117, primo comma, Cost., che richiede al legislatore il rispetto degli obblighi comunitari. Più in dettaglio, il TAR Emilia-Romagna dubitava della conformità della nuova disposizione legislativa con gli artt. 1, 2 e 6, par. 1, della direttiva n. 2000/78/CE (Direttiva del Consiglio che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro), nella parte in cui vieta discriminazioni in base all’età. Sosteneva il TAR che la drastica riduzione della permanenza in servizio degli avvocati dello Stato, con un preavviso di poco più di due mesi, sarebbe lesiva del principio di proporzionalità e dell’affidamento che il dipendente ripone nell’efficacia dei provvedimenti amministrativi già adottati nei suoi confronti, in violazione delle norme prima citate della direttiva 200/78, come interpretati dalla Corte di giustizia con sentenza 6 novembre 2012, causa C-286/12, Commissione contro Ungheria, e quindi in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost.
2. La questione della discriminazione in base all’età nello svolgimento e nella cessazione del rapporto di lavoro è stata più volte affrontata dalla Corte di giustizia in una serie di pronunce che hanno avuto ad oggetto, spesso, il rapporto di lavoro pubblico (cfr. ad es. le sentenze 13 settembre 2011, Prigge e a., causa C-447/09, e 5 luglio 2012, Hörnfeldt, causa C-141/11) - come quello in discussione nei giudizi a quibus - e a volte il lavoro privato (tra le più note, le sentenze 22 novembre 2005, Mangold, C-144/04 e 19 gennaio 2010, Kücükdeveci, causa C-555/07). E’ utile ricordare che le pronunce della Corte del Lussemburgo in merito all’interpretazione delle disposizioni della direttiva 2000/78 relative alle discriminazioni in base all’età non hanno mai messo in discussione la capacità di quest’ultime di operare come parametro di legittimità comunitaria delle regole interne, in ragione della loro natura chiara, precisa ed incondizionata: appaiono quindi dotate di effetto diretto sia quelle che dispongono il divieto di discriminazioni, sia quelle che consentono agli Stati membri di invocare legittime finalità di politica del lavoro (tra cui il ricambio generazionale) per giustificare disparità di trattamento in ragione dell’età. Piuttosto, la questione si è posta della impossibilità di invocare la direttiva “a danno” di un datore di lavoro privato, problema notoriamente superato dalla Corte con il – da più parti criticato – ricorso alla categoria dei principi generali del diritto, ed in particolare del principio del divieto di discriminazione in base all’età, che rappresenta un’applicazione specifica del principio generale della parità di trattamento (v. sentenze Mangold, punti 74-76, e Kücükdeveci, punto 50).
Sulla base di queste premesse, la questione della conformità comunitaria della nuova disciplina del trattenimento in servizio degli avvocati dello Stato avrebbe dovuto, a nostro parere, essere risolta nella sede propria, vale a dire il giudizio dinanzi al giudice amministrativo, eventualmente previo coinvolgimento della Corte di giustizia. Avendo il TAR Emilia-Romagna deciso diversamente, con la sollevazione di una questione di legittimità costituzionale per rapporto all’art. 117 Cost., la Corte costituzionale avrebbe dovuto restituire gli atti al Tar, come più volte avvenuto in situazioni simili (cfr. ad es. la sentenza n. 75 del 2012), chiedendo al giudice remittente di sciogliere preventivamente i dubbi di conformità comunitaria, eventualmente attraverso il coinvolgimento della Corte di giustizia in sede di rinvio pregiudiziale di interpretazione. Come ribadito da ultimo nella sentenza n. 216 del 2014, «la questione pregiudiziale di legittimità costituzionale sarebbe invece inammissibile, secondo la giurisprudenza di questa Corte, ove il giudice rimettente chiedesse la verifica di costituzionalità di una norma, pur esplicitando un dubbio quanto alla corretta interpretazione di norme comunitarie e un contrasto con queste ultime; il dubbio sulla compatibilità della norma nazionale rispetto al diritto comunitario va risolto, infatti, eventualmente con l’ausilio della Corte di giustizia, prima che sia sollevata la questione di legittimità costituzionale, pena l’irrilevanza della questione stessa».
Ciò non è avvenuto: la Corte ha valutato nel merito la questione sollevata dal TAR, concludendo per la sua infondatezza (cfr. punto
4.2.1. dalla parte in diritto). Ha motivato la sua conclusione sostenendo che la sentenza della Corte di giustizia richiamata dal rimettente, nella quale è stata dichiarata incompatibile con la direttiva 2000/78 la disciplina adottata in Ungheria per il pensionamento anticipato di magistrati e notai, non è rilevante ai fini dello scrutinio di costituzionalità della normativa censurata: nelle parole della Corte costituzionale, “in tale pronuncia, resa riguardo a disposizioni di legge adottate dall’Ungheria che avevano anticipato bruscamente e considerevolmente (da 70 a 62 anni) i limiti di età per il pensionamento di giudici, procuratori e notai, senza prevedere misure transitorie idonee a tutelare il legittimo affidamento delle persone interessate, la Corte di giustizia ne ha ravvisato il contrasto con la direttiva n. 2000/78/CE, che vieta le discriminazioni basate sull’età (art. 6, paragrafo 1), in assenza di un principio di proporzionalità”. Dunque, “l’ambito di operatività della normativa denunciata non è sovrapponibile a quello della normativa ungherese, visto che la norma censurata non incide sui limiti dell’età pensionabile, ma sull’istituto del trattenimento in servizio”. La misura adottata dal legislatore viene dunque giustificata dalla Corte costituzionale in quanto “le finalità di ricambio generazionale, insite nella normativa in esame, rientrano nell’ambito delle «legittime finalità di politica del lavoro», che non danno seguito a discriminazioni sulla base dell’età, secondo la citata direttiva (paragrafo 1 dell’art. 6). In questa direzione si è coerentemente orientata la Corte di giustizia dell’Unione europea, che ha riconosciuto ampi margini alla discrezionalità dei legislatori nazionali (ex plurimis, Corte di giustizia, sentenza 21 luglio 2010, in cause C159/10 e C-160/10, Fuchs e Köhler)”. All’evidenza, la Corte costituzionale ha svolto l’analisi della disciplina europea applicabile, interpretato la direttiva e distinto il caso in esame da quello già deciso dalla Corte di giustizia, assumendo di fatto il ruolo che il diritto dell’Unione attribuisce al giudice della controversia e, eventualmente, alla Corte di giustizia.
3. Come anticipato, la sentenza n. 133 del 2016 sembra deviare da un percorso ormai acquisito e consolidato, ristabilendo un controllo accentrato che avevamo da tempo dato per superato. Meraviglia anche il ritorno al passato rappresentato dalla indicazione dell’art. 117 come unico parametro costituzionale di riferimento, mentre la Corte ha sempre inteso mantenere nell’art. 11 la norma di base per i rapporti tra ordinamento interno e ordinamento dell’Unione (cfr. ad es. la sentenza n. 86 del 2012).
E’ ovvio che una soluzione del genere, che rischia di portare indietro le lancette del tempo al periodo pre-Granital, non è facilmente conciliabile con la posizione assunta dalla Corte di giustizia sin dalla sentenza Simmenthal, ma non va sottovalutato (anche se nella sentenza qui commentata non vi è traccia di questa novità) che la stessa Corte di giustizia sembra di recente avere in parte ridimensionato essa stessa la portata del principio, accettando di fatto di sospendere il potere del giudice nazionale di disapplicare la norma interna incompatibile in attesa dello svolgimento del giudizio di costituzionalità (in casu, la QPC francese, e successivamente il controllo accentrato del giudice costituzionale austriaco) riferito alla stessa norma ed allo stesso parametro comunitario (sentenze 22 giugno 2010, Melki e Abdeli, cause riunite C-188 e 189/10; 11 settembre 2014, A c. B, causa C-112/13. Per un commento a quest’ultima rinvio al mio scritto La Corte di giustizia ed il controllo di costituzionalità: Simmenthal revisited?, in Giur . cost., 2014, p. 2089 ss.). Tuttavia, in quelle - a mio modo di vedere, discutibili - pronunce la Corte di giustizia aveva condizionato il suo via libera alla questione prioritaria di costituzionalità al mantenimento della libertà per i giudici nazionali di: “a) sottoporre alla Corte, in qualunque fase del procedimento ritengano appropriata, e finanche al termine del procedimento incidentale di controllo generale delle leggi, qualsiasi questione pregiudiziale a loro giudizio necessaria; b) adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione, e c) disapplicare, al termine di un siffatto procedimento incidentale, la disposizione legislativa nazionale in questione ove la ritengano contraria al diritto dell’Unione”. La terza condizione pone dinanzi al lettore uno scenario di certo poco rassicurante e in definitiva tutt’altro che “generoso” nei confronti delle Corti costituzionali, vale a dire quello della potenziale, successiva smentita da parte del giudice remittente, eventualmente con il concorso della Corte di giustizia, di una decisione di infondatezza già assunta dalla Corte costituzionale. Scenario che, prescindendo ovviamente dal merito della questione, potrebbe in teoria realizzarsi anche rispetto alla decisione assunta dalla Corte costituzionale nella pronuncia qui commentata.