argomento: Osservatorio - Unione Europea
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di ROBERTO ADAM
Il 26 luglio scorso il Consiglio dell’Unione ha adottato una nuova decisione sull’ordine di successione degli Stati membri nella sua presidenza. Era una decisione attesa da tempo. Sono più di tre anni, infatti, che la Croazia è entrata nell’Unione europea. Ma stranamente non era stata ancora integrata nell’ordine di rotazione deciso nel 2009, nonostante negli altri casi di adesione di nuovi Stati membri a ciò si fosse provveduto in tempi sicuramente più rapidi: in occasione della “grande adesione” di 10 Stati del 1° maggio 2004, ci volle poco più di un anno e mezzo; mentre per la successiva adesione di Bulgaria e Romania, la decisione che li inseriva nella successione delle presidenze fu presa dal Consiglio addirittura contestualmente al loro ingresso nell’Unione. Certo, in questo caso l’operazione era un pò più complessa, perché dopo il passaggio, con il Trattato di Lisbona, a un sistema basato su presidenze collegiali di tre Stati (R. ADAM, La presidenza del Consiglio dell’Unione europea, in DUE, 2016, p. 441 ss.), l’aumento a 28 membri, sfalsando la loro suddivisione in terne, non consentiva più la semplice integrazione del nuovo Stato, ma obbligava a una revisione più ampia, anche in termini temporali, dell’ordine di successione. Ciò non toglie, tuttavia, che il tempo trascorso dall’ingresso della Croazia era ormai più che sufficiente per una riorganizzazione di quell’ordine.
Leggendo però la decisione di luglio, si scopre che il Consiglio ha risolto alla radice quella difficoltà, “riportando” gli Stati membri a 27 e le terne destinate a succedersi nella presidenza al numero (esatto) di 9. E su questa base ha riorganizzato l’ordine di rotazione da qui al 31 dicembre 2030.
Com’è stata possibile questa soluzione inaspettata, visto che il numero degli Stati membri assomma in ogni caso a 28? Scorrendo l’ordine in questione è facile scoprire che questo “gioco delle tre carte”, o meglio dei tre Stati, è semplicemente frutto dell’eliminazione del Regno Unito dalla lista delle future presidenze. E la ragione di questa eliminazione è candidamente indicata, dal considerando n. 3 del preambolo della decisione (magia dei numeri!), nel fatto che “uno Stato membro, sebbene non sia ancora pervenuta la notifica del governo a norma dell'articolo 50 TUE, ha reso pubblica l'intenzione di recedere dall'Unione” e, quindi, “l'ordine delle presidenze del Consiglio [è stato] modificato per tener conto di questa situazione, fatti salvi i diritti e gli obblighi di detto Stato membro”.
Che ci fosse bisogno di affrontare, insieme con quello della Croazia, anche il problema della presidenza britannica del Consiglio, prevista per il secondo semestre del 2017, era del tutto evidente. Dopo l’esito del referendum sulla Brexit del 23 giugno scorso, infatti, sembra effettivamente avvicinarsi il momento in cui si avvierà la procedura che ai sensi dell’art. 50 TFUE dovrebbe portare, in un periodo di circa due anni, all’uscita del Regno Unito dall’Unione. E se è vero che in tale periodo il Regno Unito rimane membro a pieno titolo, dovendosi solo astenere, ai sensi del par. 3 di quell’articolo, dal partecipare “alle deliberazioni [e] alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo riguardano”, è anche vero che più di una ragione depone nel senso di evitare, in una situazione del genere, l’assunzione da parte sua delle responsabilità legate alla presidenza del Consiglio: ragioni di funzionalità dell’istituzione, vista l’influenza della presidenza sui tempi di trattazione dei dossier in discussione e l’impegno inevitabilmente minore che ci sarebbe da aspettarsi da una presidenza assicurata da uno Stato prossimo all’uscita; ragioni di opportunità, per i potenziali conflitti di interesse legati al ruolo della presidenza e alla sua capacità di influenzare l’orientamento negoziale del Consiglio; ragioni di convenienza, infine, dello stesso Regno Unito, che si troverebbe a dover profondere risorse, organizzative, umane e finanziarie nella gestione di un compito per lui ormai inutile, invece di concentrarle tutte sul negoziato dell’accordo di recesso.
Una soluzione andava quindi trovata. E andava trovata anche con una certa urgenza, benché la notifica dell’intenzione di recedere che avvia la procedura e il periodo previsti dall’art. 50 non sia stata ancora effettuata dal Regno Unito. L’inizio del turno di presidenza del Regno Unito (1° luglio 2017) è troppo ravvicinato, infatti, per correre il rischio di dover procedere d’urgenza all’affidamento di quel turno a un altro Stato membro, laddove il termine per il momento annunciato dalla premier inglese per il deposito della notifica (fine marzo 2017) fosse effettivamente rispettato.
Per la verità, la prassi del Consiglio una soluzione già la forniva. Si ricorderà, infatti, e sicuramente avrebbe dovuto ricordarlo il Servizio giuridico dello stesso Consiglio, che nel 2002, di fronte a una precisa richiesta di Germania e Finlandia di scambiarsi i rispettivi turni di presidenza previsti per il secondo semestre 2006 e il primo semestre 2007, il Consiglio vi provvide con una decisione presa all’unanimità secondo quanto espressamente previsto dall’art. 1, par. 2, della decisione 95/2 del 1° gennaio 1995 relativa alla fissazione dell’ordine di esercizio della Presidenza (“Il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta degli Stati membri interessati, può decidere che uno Stato membro eserciti la Presidenza in un periodo diverso da quello indicato”). Il Consiglio avrebbe potuto quindi limitarsi, nell’inserire la Croazia nell’ordine di rotazione, a spostare il turno di presidenza britannico in una data sufficientemente lontana da renderlo di fatto prevedibilmente inattuabile perché, con tutta probabilità, successivo al momento dell’effettiva uscita del Regno Unito dall’Unione.
Sarebbe stata una soluzione semplice e pienamente in linea, oltre che con il buon senso, con il diritto dell’Unione. È vero, infatti, che la base giuridica esplicita sulla cui base a suo tempo fu decisa l’inversione delle presidenze finlandese e tedesca è venuta nel frattempo meno; ma la competenza da essa riconosciuta al Consiglio può ritenersi del tutto legittimamente ricompresa, oggi, nella previsione, contenuta nella decisione del Consiglio europeo del 1° dicembre 2009 che ha dettato, nelle sue linee generali, la nuova disciplina della presidenza dopo Lisbona, secondo la quale spetta comunque al Consiglio stabilire “le misure di applicazione” del nuovo sistema di presidenza.
E, invece, si è scelta la soluzione di eliminare del tutto il turno di presidenza del Regno Unito. Si tratta di una scelta francamente sorprendente. Per quanto, infatti, questo paese possa aver “reso pubblica l’intenzione di recedere dall’Unione”, esso non ha ancora formalizzato tale intenzione nella notifica al Consiglio europeo richiesta dall’art. 50 TFUE; e anzi, questa notifica potrebbe, al limite, non aversi mai, non solo perché non vi è alcun obbligo formale né di diritto interno, né di diritto dell’Unione, che imponga al governo britannico di effettuarla a seguito dell’esito del referendum, ma anche perché, come dimostrano le vicende giudiziarie in corso a Londra circa la necessità o meno di un via libera di Westminster a quella notifica, non può essere nemmeno del tutto escluso un ripensamento politico sulla stessa intenzione di lasciare l’Unione. E, in un’eventualità del genere, per essere reintegrato nel sistema di presidenza del Consiglio il Regno Unito potrebbe addirittura trovarsi nella condizione, quanto meno singolare, di dover invece notificare la volontà di rimanere membro dell’Unione.
Ma a parte ciò, e pur senza evocare scenari che al momento potrebbero sembrare improbabili, rimane il fatto che la decisione di luglio del Consiglio si pone in ogni caso in evidente contrasto con i Trattati, visto che finisce per escludere, senza alcuna ragione sostanziale e formale, uno Stato membro dal “sistema di rotazione paritaria” della presidenza del Consiglio previsto dall’art. 16, par. 9, TUE. Il Regno Unito, infatti, oltre ad essere ancora uno Stato membro a pieno titolo, è comunque destinato a restarlo anche dopo la notifica, dato che, come si è sopra ricordato, è solo al momento dell’effettivo recesso che “i trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato” (art. 50, par. 3). Né si può pensare che valga a escludere quel contrasto il fatto che, probabilmente, lo stesso Regno Unito possa aver acconsentito a tale soluzione o che la decisione faccia espressamente “salvi i diritti e gli obblighi di detto Stato membro”: l’esercizio a rotazione del turno di presidenza del Consiglio dell’Unione, infatti, se certamente è un diritto degli Stati, si configura altrettanto certamente come un obbligo istituzionale e irrinunciabile degli stessi (R.ADAM, op. cit., p. 359 ss.).