argomento: Osservatorio - Unione Europea
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di CRISTINA SCHEPISI
1. Può, l’obbligo di rinvio pregiudiziale del giudice di ultima istanza, venir meno qualora sulla questione sostanziale si sia già espressa, nel corso del medesimo giudizio, la Corte costituzionale, seppur sulla base di parametri diversi?
Questa è essenzialmente la domanda posta dal Consiglio di Stato (con ordinanza n. 2334/2016 del 1° giugno di quest’anno) alla Corte di giustizia, l’ultima in ordine di tempo sul tema dei rapporti tra il rinvio pregiudiziale obbligatorio e le questioni incidentali di costituzionalità. Oltre ai risvolti sul rinvio pregiudiziale, l’ordinanza – specie se letta alla luce della pronuncia resa dalla Corte costituzionale (n. 56/2005) - suggerisce anche ulteriori riflessioni sul ruolo svolto da quest’ultima nell’interpretare le norme dell’Unione.
La questione coinvolge, ancora una volta, la conformità sia a parametri costituzionali che europei, di una normativa italiana in materia di giochi d’azzardo. E come in casi precedenti (ad es. Placanica) il giudice remittente si avvale della doppia pregiudiziale, l’una alla Corte costituzionale, l’altra alla Corte di giustizia. Dinanzi a quest’ultima, tuttavia, il giudice a quo non si limita a formulare un quesito sulla compatibilità della regola interna (il comma 78, lett. b) della legge 220/2010) con il Trattato (in primis gli artt. 49 e 56 TFUE), ma ne pone una preliminare sulla persistenza del suo obbligo di rinvio pregiudiziale. La peculiarità del caso (secondo il Consiglio di Stato) sarebbe determinata dal contenuto sostanzialmente analogo dei - seppur formalmente diversi - parametri utilizzati nel giudizio di costituzionalità (gli artt. 3, 41 e 42 Cost.) rispetto a quelli delle norme europee invocate in giudizio. Sia in riferimento agli uni che agli altri si discuteva infatti dell’eventuale violazione del principio di parità di trattamento e di legittimo affidamento degli operatori preesistenti sul mercato, a seguito di nuovi interventi legislativi, nonché della ragionevolezza e proporzionalità delle restrizioni imposte, seppur in ragione della tutela di obiettivi di interesse generale.
2. Ma andiamo per ordine. Il legislatore italiano aveva introdotto con la L. 220/2010 nuove restrizioni, nel settore del gioco d’azzardo, sia per l’ottenimento che per la prosecuzione di concessioni già in essere. In particolare, per queste ultime la legge, a fronte della possibilità di ottenere il diritto alla prosecuzione delle concessioni, disponeva la sottoscrizione di un atto integrativo della convenzione accessiva alla concessione entro 180 gg dall’entrata in vigore della legge, al fine di adeguare i contenuti alle nuove prescrizioni.
Una società inglese, già titolare di concessione, impugnava dinanzi al Tar un Decreto interdirigenziale del Direttore dell’AAMS, adottato in esecuzione della predetta legge, sostenendo, da un lato, la contrarietà delle norme italiane a varie disposizioni del Trattato (tra cui gli artt. 49 e 56, TFUE) e al principio del legittimo affidamento; dall’altro, l’illegittimità delle stesse alla luce degli artt. 3, 41 e 42 Cost. Non avendo ottenuto ragione dinanzi al Tar, la società proponeva appello al Consiglio di Stato, il quale decideva di investire la Consulta con le indicate questioni di legittimità. Quest’ultima, facendo anche in parte leva sulla giurisprudenza della Corte di giustizia (e dunque adottando un’interpretazione, dell’art. 3 Cost., “comunitariamente” orientata) considerava legittima le norme con riferimento a tutti i parametri invocati.
Ripreso il procedimento, il Consiglio di Stato, rilevando che la parte reiterava la richiesta di rinvio alla Corte di giustizia, e ritenendo, in quanto giudice di ultima istanza, di non rientrare in nessuno dei tre casi di esonero dall’obbligo di rinvio pregiudiziale indicati nella sentenza Cilfit (sentenza 6 ottobre 1982, causa 283/81) rimetteva finalmente all’interpretazione del giudice di Lussemburgo la questione dell’eventuale contrarietà della normativa italiana con molteplici principi del Trattato. Tale domanda era tuttavia posta in subordine alla risposta negativa alla prima questione e con la quale il Consiglio di Stato intendeva sapere «se non sussiste l’obbligo incondizionato del giudice di ultima istanza qualora, nel corso del medesimo giudizio, la Corte costituzionale abbia valutato la legittimità costituzionale della disciplina nazionale, nella sostanza, utilizzando gli stessi parametri normativi di cui si chiede l’interpretazione alla Corte di giustizia, ancorché formalmente diversi perché rivenienti in norme della Costituzione e non dei Trattati europei».
3. Il quesito del Consiglio di Stato presuppone che ne sia risolto uno preliminare: la permanenza della facoltà/obbligo di rinvio (a prescindere dunque da eventuali casi di esonero) nonostante l’adozione da parte della Corte costituzionale, nell’ambito dello stesso giudizio, di una sentenza su questioni sostanzialmente analoghe. Tale quesito trova subito e certamente risposta positiva.
In primis, perché nonostante l’oggetto del quesito rivolto alle due Corti verta in entrambi i casi sull’analisi della ragionevolezza e proporzionalità (o meno) delle nuove restrizioni adottate nel settore gioco dal legislatore italiano, i parametri invocati sono e restano evidentemente distinti, così come il risultato dei giudizi dinanzi al giudice comune o alla Corte costituzionale produce conseguenze diverse sulla sorte della norma interna: (i) l’annullamento o la sopravvivenza della norma interna se valutata alla luce della Costituzione (eventualmente anche del diritto dell’Unione come parametro interposto); (ii) la mera disapplicazione della norma da parte del giudice nazionale qualora dinanzi ad esso si prospetti violazione di norme o principi dell’ordinamento dell’Unione europea. E tale obbligo, come ribadito dalla Corte di giustizia, grava sul giudice, in aderenza al principio del primato, indipendentemente dal giudizio espresso sulla legge nazionale dalla Corte costituzionale (sentenza 19 novembre 2009, Filipiak, causa C-314/08).
In secondo luogo, la Corte di giustizia ha già fornito puntuali indicazioni riguardo all’uso del rinvio pregiudiziale in un momento successivo alla valutazione di legittimità costituzionale (quale che sia il parametro utilizzato) operato nell’ambito del medesimo giudizio, ritenendo che un procedimento incidentale di costituzionalità non può impedire, sia prima che dopo, «a tutti gli altri organi giurisdizionali nazionali di esercitare la loro facoltà o di adempiere il loro obbligo di sottoporre questioni pregiudiziali alla Corte» (sentenze 22 giugno 2010, Melki Abdeli, cause riunite C-188/10 e C-189/10; 11 settembre 2014, A c. B, causa C-112/13).
Infine, e in linea più generale, la stessa Corte ha sempre e comunque richiesto la disapplicazione di norme processuali interne che, nel vincolare il giudice al principio di diritto espresso da un organo superiore (o da altra sezione dello stesso) impediscano a tale giudice di discostarsene e quindi di esercitare la facoltà o l’obbligo di rinvio pregiudiziale (sentenza 12 febbraio 1974, Rheinmühlen, causa 146/73). E ciò anche qualora il principio di diritto, espresso da un organo superiore, già contenga una valutazione e interpretazione delle norme del diritto dell’Unione (sentenza 5 aprile 2016, PFE, causa C-689/13).
4. Può tuttavia tale obbligo, oltre ai casi indicati dalla sentenza Cilfit, trovare ulteriore limite – e quindi un ridimensionamento - nelle peculiarità processuali del caso, senza che il giudice incorra in una violazione dell’art. 267, par. 3, TFUE? E’ questo sostanzialmente il vero nocciolo della domanda, nonché la principale preoccupazione del Consiglio di Stato.
Che tale giudice nutra realmente molti pochi dubbi sulla compatibilità della norma interna con il TFUE e gli altri principi di diritto UE traspare in maniera abbastanza evidente. Non solo la redazione del quesito è del tutto frettolosa e stringata, ma egli tiene innanzitutto a sottolineare alla Corte di giustizia «la particolarità del settore dei giochi pubblici, in ragione degli interessi coinvolti ed afferenti all’ordine pubblico, alla tutela dei consumatori ed alla prevenzione di frodi, che potrebbero comportare limitazioni ragionevoli ai principi su richiamati [ndr. le norme del TFUE; sottolineatura aggiunta]». Inoltre, qualora avesse nutrito un ragionevole dubbio in punto di diritto dell’Unione, il Consiglio di Stato avrebbe opportunamente prima esperito il rinvio pregiudiziale e poi, eventualmente (e solo in caso di conformità della norma con le disposizioni dei Trattati) trasmesso gli atti alla Consulta per la (diversa) valutazione di legittimità costituzionale. E’ insomma molto probabile che se fosse stato un giudice di istanza inferiore, non vi sarebbe stato, in questo caso, alcun rinvio pregiudiziale.
Nella sostanza, il rinvio pregiudiziale del Consiglio di Stato prende piuttosto le mosse dal timore di eludere le reiterate richieste della parte privata e di incorrere conseguentemente in una violazione dell’art. 267, par. 3, TFUE. E difatti lo stesso giudice amministrativo chiede innanzitutto di non trascurare il fatto che si possa configurare «un possibile abuso degli strumenti processuali con richieste di rinvio pregiudiziale che, nella sostanza tendono, a superare una decisione del giudice costituzionale nazionale nonostante sia stata resa all’esito della valutazione di parametri di giudizio sostanzialmente omogenei rispetto a quelli invocati nella richiesta di rinvio pregiudiziale; dunque in violazione del divieto del ne bis in idem processuale e con la conseguente ulteriore lesione del principio di ragionevole durata del processo». Esso fa poi leva sulla posizione della Corte europea dei diritti dell’uomo, in applicazione dell’art. 6 CEDU, circa la possibilità di configurare la responsabilità del giudice nazionale di ultima istanza, solo quando ometta di motivare le ragioni del diniego di rinvio. Il Consiglio di Stato, infine, sottolinea le sue preoccupazioni per le conseguenze del mancato rinvio in termini di responsabilità del giudice nazionale e dello Stato membro, sia alla luce della legge italiana, che sulla base dei principi europei.
Sul primo punto, ovvero sul ruolo svolto dalla parte privata, è noto che il rinvio pregiudiziale è uno strumento di collaborazione tra il giudice nazionale e la Corte di giustizia e non un rimedio processuale di cui dispongano direttamente le parti private (v. la sentenza della seconda del 18 luglio 2013, Consiglio nazionale dei geologi c. AGCM, causa C-136/12). Se è vero che la proposizione di un’istanza di parte mira a sensibilizzare e a “responsabilizzare” il giudice nel decidere se rinviare o meno, resta in ogni caso fermo che ai fini dell’esistenza di un’eventuale violazione dell’art. 267, par. 3 TFUE è sufficiente che il giudizio in sede nazionale debba essere risolto in applicazione (anche o solo) di norme di diritto dell’Unione, e che il giudice di ultima istanza ometta di rinviare alla Corte al di fuori dei casi di esonero previsti dalla sentenza Cilfit, a prescindere dalla richiesta di una parte.
Ciò premesso, è vero, d’altro canto, che la finalità del meccanismo del rinvio pregiudiziale, non è unicamente quella di garantire uniformità di interpretazione e applicazione delle norme dell’Unione, ma anche quella di assicurare (seppur per il tramite del giudice nazionale) maggior tutela delle parti private, a garanzia delle loro posizioni giuridiche soggettive di fonte europea, posto che tale meccanismo – dal punto di vista della parte privata - costituisce l’unico strumento mediante il quale portare la Corte di giustizia a pronunciarsi sulla interpretazione di norme dell’Unione. E ciò è tanto più vero quando il giudice nazionale sia di ultima istanza (sentenza 30 settembre 2003, Köbler, causa C-224/01).
Sotto tale profilo, l’istanza volta sollecitare la rimessione di una questione interpretativa alla Corte di giustizia non può dunque essere identificata (come paventa invece il Consiglio di Stato) come un tentativo, di parte privata, di elusione del divieto del ne bis in idem, comunque non pertinente nella fattispecie, stante la evidente diversità di ruoli della Corte di giustizia e della Corte costituzionale e la non sovrapponibilità, o surrogabilità, dei relativi giudizi. Né tanto meno, e per la stessa funzione del rinvio pregiudiziale, potrebbe parlarsi di lesione del principio di ragionevole durata del procedimento. Meno che mai poi nel caso in cui (come quello in esame) il “prolungamento” del giudizio non crei certamente alcun danno alla parte privata (l’unica peraltro), visto anche che è essa stessa a sollecitare il giudice affinché effettui un rinvio pregiudiziale.
Nulla aggiungono, in positivo o in negativo, anche le ulteriori considerazioni formulate dal Consiglio di Stato. Sia l’eventuale violazione dell’art. 6 CEDU, che i principi e norme in tema di responsabilità del giudice e dello Stato, non hanno, infatti alcuna incidenza ai fini della mera configurazione e sussistenza della violazione (o meno) dell’obbligo di rinvio ai sensi dell’art. 267, par. 3, TFUE, ma solo, ed eventualmente, anche ai fini di un’azione in responsabilità.
In particolare, sotto il profilo dell’art. 6 CEDU, la Corte di Strasburgo ha in effetti sempre ritenuto di non poter entrare nel merito delle questioni sottoposte al giudice nazionale, ovvero di non poter valutare se il giudice nazionale che omette di rinviare violi effettivamente l’art. 267 TFUE (e/o renda una decisione errata). Essa piuttosto si è limitata a ravvisare una violazione dell’equo processo (di cui all’art. 6 CEDU) nel caso in cui il giudice non abbia congruamente motivato le ragioni del diniego del rinvio (8 aprile 2014, Dhahbi c. Italia; 21 luglio 2015, Schipani c. Italia; 1° marzo 2016, Arlewin c. Svezia; e, per approfondimenti, A. Di Stasi, Equo processo e obbligo di motivazione del mancato rinvio alla Corte di giustizia da parte del giudice di ultima istanza nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in federalismi.it). In altre parole, qualora il giudice motivi adeguatamente le ragioni dell’omesso rinvio egli (e lo Stato) non incorreranno nella violazione della CEDU, ma la conformità a quest’ultima del proprio operato non comporta tuttavia che sia stato a monte rispettato anche l’art. 267, par. 3, TFUE, la cui violazione può comunque sussistere. Si aggiunga inoltre – e comunque sempre agli stretti fini dell’art. 6 CEDU e non dell’art. 267, par. 3, TFUE – che sempre secondo la Corte di Strasburgo (20 settembre 2011, Ullens De Schooten e Rezabek; 21 luglio 2015, Schipani c. Italia, cit.), la motivazione è adeguata quando si riferisca pur sempre a una delle ipotesi di esonero di cui alla sentenza Cilfit. Una diversa motivazione (come poteva ipotizzarsi nel caso di specie) non riuscirebbe in ogni caso – e a prescindere dall’art. 267, par. 3, TFUE - a garantire il rispetto dell’art. 6 CEDU.
5. In conclusione, la peculiare situazione creatasi non introdurrebbe affatto alcun muovo caso di esonero dall’obbligo di rinvio. Ben ha fatto dunque, e comunque, il Consiglio di Stato a chiedere ausilio alla Corte di giustizia. Ma la “peculiarità” della situazione processuale induce, tuttavia, a un’altra serie di riflessioni riguardanti i rapporti tra il giudice a quo e la Corte costituzionale, e tra questa e la Corte di giustizia.
Il fatto che il Consiglio di Stato abbia sollevato prima l’incidente di costituzionalità e solo all’esito di una valutazione di legittimità anche un rinvio pregiudiziale si presenta, con riferimento all’ordinamento italiano, come un’anomalia riguardo alla prassi normalmente seguita. Del resto, anche nell’ottica della Corte costituzionale “la questione di compatibilità comunitaria costituisce un prius logico e giuridico rispetto alla questione di costituzionalità”. E, difatti, qualora una questione del genere sia sollevata nell’ambito di un incidente di costituzionalità, essa investe la stessa applicabilità della norma censurata nel giudizio e pertanto anche la stessa rilevanza e ammissibilità della questione di costituzionalità (ordinanza n. 289/2011), con la conseguenza della rimessione degli atti al giudice a quo affinché questi eventualmente sollevi un rinvio pregiudiziale (sentenze n. 170/1984 e n. 284/2007). Il tutto ovviamente quando le norme invocate siano direttamente efficaci e il giudice a quo possa procedere a un’eventuale disapplicazione della norma interna contraria (si veda tuttavia la sentenza n. 133/2016 e il commento di R. Mastroianni, in questa Rivista).
Ebbene, le norme che venivano invocate dinanzi al Consiglio di Stato erano tutte dotate di efficacia diretta (in primis gli artt. 49 e 56 TFUE). Nella fattispecie, tuttavia, la Corte costituzionale non era stata direttamente investita, ai sensi dell’art. 117 Cost., di una questione di compatibilità della norma interna con il diritto dell’Unione europea (tale da indurre dunque la Consulta a rimettere gli atti al giudice a quo). Il Consiglio di Stato le chiedeva, infatti, di valutare la legittimità delle norme alla luce degli artt. 3, 41 e 42 Cost., senza fare alcun ulteriore riferimento diretto al diritto dell’Unione europea o alla compatibilità con esso della normativa interna. Mentre dunque la Corte costituzionale ha proceduto, come doveva, a rendere il suo giudizio di costituzionalità, il Consiglio di Stato avrebbe invece dovuto, più opportunatamente, anticipare cronologicamente il rinvio pregiudiziale rispetto all’incidente di costituzionalità.
In linea generale, il fatto che, in occasione di una doppia pregiudiziale, a pronunciarsi per prima (e con sentenza) sia la Corte costituzionale comporta il rischio che la decisione di questa possa effettivamente perdere ex post di rilievo. Questa sarebbe addirittura inutiliter data nel caso in cui la Corte di giustizia rilevi una contrarierà tra la norma interna e quella europea (con conseguente disapplicazione della prima da parte del giudice a quo).
Nel caso che qui interessa, gli effetti sarebbero ancora più macroscopici. Essendo stata, la Corte costituzionale, interpellata sulla conformità al principio di ragionevolezza e proporzionalità (nonché del legittimo affidamento dei preesistenti operatori sul mercato) delle nuove restrizioni imposte nel settore dei giochi dal legislatore italiano, e dunque su profili che effettivamente possono coincidere con le valutazioni da effettuarsi alla luce delle norme del TFUE in materia di servizi e stabilimento, il rischio (seppur remoto nella fattispecie) potrebbe essere quello di una vera e propria smentita nel merito da parte della Corte di giustizia della sentenza costituzionale.
Ma anche nello scenario più probabile - e cioè che la Corte di giustizia non “bocci” (o non integralmente) le norme italiane - un intervento della Corte costituzionale avrebbe potuto avere un rilievo diverso se la stessa fosse stata interpellata all’esito della pregiudiziale “comunitaria” e non invece in un momento anteriore.
La disciplina sottoposta al vaglio delle due Corti riguarda infatti il settore del gioco d’azzardo, settore caratterizzato dalla presenza di monopoli statali e oggetto di concessioni del servizio pubblico del gioco, e nel quale gli Stati «godono di un ampio potere discrezionale per quanto riguarda la scelta del livello di tutela dei consumatori e dell’ordine sociale che considerano più appropriato» (sentenza del 22 gennaio 2015, Stanley International Betting C‑463/13). Per quanto riguarda proprio la normativa italiana in materia di giochi d’azzardo, la Corte ha già dichiarato che […] l’obiettivo attinente alla lotta contro la criminalità collegata ai giochi d’azzardo è idoneo a giustificare le restrizioni delle libertà fondamentali derivanti da tale normativa» (sentenza 28 gennaio 2016, Laezza, causa C-375/14). Il fulcro delle questioni normalmente sottoposte alla Corte riguarda di fatto – e ciò è certamente vero riguardo ai casi italiani - sempre la proporzionalità della misura, la quale in particolare sussiste solo quando la normativa nazionale risponda effettivamente all’intento di raggiungerlo [ndr: l’obiettivo] in modo coerente e sistematico” (sentenza Laezza, cit.; v. anche sentenza 8 settembre 2016, Politanò, causa C-225/15).
Ora, è da ritenere che in risposta all’attuale rinvio del Consiglio di Stato la Corte di giustizia dirà che il comma 78, lett. b) della legge 220/2010 (già da essa valutato in riferimento a distinte disposizioni rispetto a quelle oggetto del presente giudizio) introduce nuove e diverse restrizioni alla libera prestazione di servizi e libertà di stabilimento. Ma è anche presumibile che la Corte demandi ancora una volta al giudice nazionale, seppur nell’ambito delle sue puntuali indicazioni, lo screening riguardo alla proporzionalità della misura. Ebbene, poiché il quesito che il Consiglio di Stato aveva rivolto alla Corte costituzionale verteva – lo si è già detto - proprio sulla ragionevolezza, proporzionalità e coerenza delle restrizioni imposte dalla normativa interna, è ragionevole ritenere che la Consulta, avrebbe, alla luce delle nuove indicazioni della Corte di giustizia, potuto giocare più efficacemente un suo ruolo qualora interpellata ex post e non ex ante, calibrando più “utilmente” il suo giudizio e rendendo anche più proficuo il dialogo (seppur a distanza) con la Corte di giustizia.
6. Sia consentita a questo punto anche un’ultima domanda: avrebbe potuto la Corte costituzionale, nella fattispecie sollevare essa stessa un rinvio pregiudiziale? A stretto rigore, teoricamente no, visti i suoi attuali orientamenti in materia.
La Corte costituzionale ha sino ad ora sollevato questioni in via pregiudiziale solamente due volte (ordinanze n. 103/2008 e n. 207/2013). In ambedue i casi si trattava di ambiti in cui la Consulta si era già ritenuta competente a interpretare le norme europee: (i) nei giudizi in via principale (posto che manca un giudice a quo), e (ii) nei giudizi in via incidentale, ma solo qualora le norme invocate siano sprovviste di efficacia diretta.
Per il resto essa ha sempre negato di poter valutare la compatibilità di una norma interna con quella europea (e dunque, nei casi richiesti, di poter effettuare un rinvio pregiudiziale). In materia di giochi si ricorda la sentenza n. 284/2007, nella quale il giudice remittente, lamentandosi del fatto che la Cassazione avesse a suo dire erroneamente interpretato il requisito della “proporzionalità” indicato nella sentenza Gambelli (sentenza 6 novembre 2003, causa C-243/01) , aveva sollecitato l’intervento della Consulta affinché quest’ultima valutasse la compatibilità delle norme italiane con le norme del Trattato (in particolare per via dell’art. 11 Cost) e la loro legittimità costituzionale alla luce degli artt. 3 e 41 Cost. E la Corte costituzionale aveva dichiarato la questione inammissibile, ritenendo che la questione fosse tutta incentrata sul rapporto tra la norma interna e le norme di diritto dell’Unione europea (v. anche ordinanza n. 454/206)
Ebbene, qui gioca sicuramente un ruolo il giudice remittente e le modalità di redazione dell’ordinanza. E’ chiaro che quando sia il giudice a quo a porsi il dubbio di un’eventuale compatibilità tra diritto interno e diritto dell’Unione direttamente applicabile, e tale dubbio sia esplicitato nell’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale, vuoi sulla base degli artt. 11 e 117, vuoi sulla (apparente) base di altri parametri costituzionali, la Corte costituzionale non può che ritenere inammissibile la domanda.
Il Consiglio di Stato, a differenza di precedenti casi sempre in materia di giochi, non aveva prospettato alla Corte costituzionale né una violazione degli artt. 11 e 117, Cost., né posto preliminari questioni di compatibilità comunitaria ai fini del vaglio di costituzionalità, sulla base di altri parametri costituzionali (artt. 3, 41 e 42). Era tuttavia chiaro, come anche dimostrano i rinvii della stessa Corte costituzionale alla giurisprudenza della Corte di giustizia, che la corretta interpretazione delle norme dell’Unione si poneva come un prius logico giuridico.
Cosa accadrebbe dunque se il giudice a quo (e in particolare un giudice di ultima istanza, come nel caso di specie) mostrasse di aver già risolto la preliminare questione comunitaria, senza magari aver esperito alcun rinvio, oppure addirittura non menzionasse o ignorasse l’esistenza di parametri europei pur rilevanti nella fattispecie e certamente preliminari alla soluzione della questione di costituzionalità?
In altre parole, se la Corte costituzionale si rendesse conto di avere la necessità, al fine di svolgere correttamente il suo vaglio di costituzionalità, di risolvere come prius logico giuridico una questione di compatibilità comunitaria – ignorata dal giudice a quo, o già erroneamente risolta in senso positivo - non potrebbe essa stessa, qualora l’interpretazione delle norme dell’Unione non fosse così chiara ed evidente, rimettere la questione alla Corte di giustizia?
E’ da escludere che la Corte costituzionale possa opportunamente rimettere gli atti al giudice a quo. Tecnicamente il dubbio di compatibilità non è del giudice remittente ma della stessa Corte costituzionale. Quest’ultima non potrebbe dunque ritenere la questione inammissibile per carenza di rilevanza sulla base del suo consolidato orientamento. Né potrebbe “costringere” il giudice a quo ad effettuare un rinvio pregiudiziale posto che quest’ultimo ha già risolto il suo dubbio o neppure lo ha (v. anche L. Daniele, Corte costituzionale e pregiudiziale comunitaria: alcune questioni aperte, in Giur. Cost., 2010, p. 3551 ss.). Quello che invece in tale contesto si creerebbe, sarebbe una divergenza di posizioni interpretative in punto di diritto dell’Unione (incluso il caso di semplice assenza di posizione da parte del giudice a quo), che solo la Corte costituzionale a quel punto potrebbe risolvere, anche auspicabilmente tramite un rinvio pregiudiziale (non è chiaro se possa costituire da esempio il recentissimo caso deciso su rinvio della Corte costituzionale belga, sentenza 21 dicembre 2016, Paul Vervloet causa C-76/15).
I risvolti positivi di un dialogo diretto tra la Corte costituzionale e la Corte di giustizia sarebbero innegabili. Il primo è che consentirebbe alla prima di formulare la questione in termini più appropriati e allo stesso tempo di far valere e difendere la propria posizione. La risposta della Corte giustizia, inoltre, non solo rappresenterebbe a tutti gli effetti un prius logico giuridico della questione di costituzionalità, ma innestandosi direttamente all’interno del procedimento costituzionale, ne acquisterebbe in termini di “utilità”.
Il secondo, non minore, è che, in circostanze simili, un rinvio pregiudiziale effettuato dalla Corte costituzionale verrebbe a “riparare” all’inerzia del giudice a quo ed eviterebbe una violazione dell’art. 267, par. 3 TFUE. Visto sotto un’altra visuale, la Corte costituzionale sarebbe in tal caso l’unica e l’ultima “giurisdizione” a poter/dover effettuare un rinvio pregiudiziale. In tal caso, pur trattandosi di norme aventi efficacia diretta, mancherebbe infatti, un giudice a quo “disposto” o in grado di risolvere il previo ed eventuale conflitto tra la norma interna e quella di fonte europea. Tecnicamente non vi sarebbe dunque alcuna rottura con l’orientamento seguito sino ad ora dalla Consulta riguardo alla pregiudiziale comunitaria.
7. In questa stessa ottica, un rinvio pregiudiziale da parte della Consulta potrebbe, inoltre, assumere sicuro rilievo in altri contesti, quali ad esempio quelli in cui l’applicazione del diritto dell’Unione europea (pur dotato di efficacia diretta) sia esclusa perché la questione riguarda una situazione “puramente interna”, ma la sua interpretazione si riveli al contempo indispensabile (e preliminare) al fine di verificare l’eventuale esistenza di una “discriminazione alla rovescia”. Più volte la Corte costituzionale è stata chiamata, in via incidentale, a valutare se una norma nazionale violasse l’art. 3 Cost., come conseguenza della disapplicazione della prima (per contrarietà con il Trattato) solo nei confronti di soggetti originari di altri Stati membri e dunque “a danno” di persone/operatori “interni”. Ma qualora mancassero pronunce della Corte di giustizia (e/o il contrasto tra norma interna ed europea non fosse così chiaro) ed il giudice avesse direttamente investito la Consulta con una questione di legittimità costituzionale fondata sull’art. 3 Cost., vi è un’ulteriore ragione per sostenere che un rinvio pregiudiziale esperito dalla Corte costituzionale potrebbe essere “necessario” (o quanto meno opportuno).
E’ infatti evidente che, se la questione pendente dinanzi al giudice nazionale è “puramente interna”, l’eventuale quesito da questi sollevato dinanzi alla Corte di giustizia sulla compatibilità tra una norma nazionale e le norme del TFUE riguardanti le libertà di circolazione, non sarebbe “rilevante”, posto che il giudice non potrebbe comunque disapplicare la norma interna eventualmente contraria.
Ora è vero che in molti casi di domande vertenti su questioni puramente interne, la Corte di giustizia ritiene che la sua risposta possa comunque essere utile al giudice nazionale, magari proprio al fine di estendere la disciplina più favorevole anche agli operatori sedentari. Ma questo dipende anche dalle modalità di redazione dell’ordinanza di rinvio. In linea generale resta, tuttavia, fermo che la questione dinanzi al giudice a quo è tecnicamente “interna” e non consentirebbe la diretta applicazione del diritto dell’Unione.
Ai fini tuttavia, di un rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte costituzionale tale elemento non avrebbe alcun rilievo. La “rilevanza” della questione sussisterebbe per altra ragione: la risposta della Corte di giustizia sarebbe necessaria proprio al fine di consentire alla Corte costituzionale di rendere il suo giudizio, alla luce dell’art. 3 Cost., sulla legittimità della norma interna che, anche qualora fosse dichiarata incompatibile con le disposizioni europee, comunque “sopravvivrebbe” continuando a trovare applicazione in situazioni in cui tutti gli elementi sono circoscritti nell’ambito di un ordinamento interno.
Chi meglio della Corte costituzionale potrebbe formulare un tale quesito?