argomento: Osservatorio - Unione Europea
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di GIULIA D’AGNONE
Prima dell’entrata in vigore della legge 24 dicembre 2012, n. 234, in Italia la presentazione di ricorsi o interventi dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea non era regolata. Attualmente, essa è disciplinata dall’art. 42 della legge che, insieme al successivo articolo relativo al diritto di rivalsa dello Stato nei confronti di regioni o di altri enti pubblici responsabili di violazioni del diritto dell’Unione europea, ne costituisce il capo VII, espressamente dedicato al contenzioso.
Così, se in assenza di una disciplina ad hoc la valutazione relativa all’opportunità di un ricorso o di un intervento davanti alla Corte era per lo più affidata all’Agente del Governo presso la Corte e quindi, in buona sostanza, all’Avvocatura dello Stato, cui è da tempo assegnato tale incarico (ora anche per legge: art. 42, comma 3, della legge n. 234), oggi essa è formalmente rimessa al Presidente del Consiglio dei Ministri o al Ministro per gli affari europei, in raccordo con il Ministro degli affari esteri e d'intesa con i Ministri interessati (e, ove necessario, dopo aver riferito al Consiglio dei Ministri), allorché esso ritenga che sussistano esigenze di “tutela di situazioni di rilevante interesse nazionale”. A tal fine, a partire dal 4 agosto 2015, il Dipartimento per le Politiche Europee, d'intesa con il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione internazionale e l'Agente del Governo dinanzi alla Corte di giustizia dell'Unione europea, convoca periodicamente riunioni di coordinamento con l'obiettivo di attivare un raccordo sistematico tra le amministrazioni interessate e l'Avvocatura generale dello Stato per l’individuazione dei casi in cui vi siano situazioni di rilevante interesse nazionale da tutelare innanzi all’istituzione giudiziaria dell’Unione europea (v. qui).
L’attribuzione del potere decisorio a un organo politico, invece che tecnico, assicura dunque una maggiore capacità di individuare i casi in cui il contenzioso dinanzi alla Corte abbia effettivamente ad oggetto questioni di tale rilevanza. Occorre peraltro precisare che, nonostante l’art. 42 della legge faccia esclusivo riferimento, oltre ai ricorsi, agli interventi dinanzi alla Corte di giustizia, quest’ultimo termine è evidentemente usato in maniera estensiva, nel senso che la disciplina ivi prevista è da applicare anche nei casi di presentazione di osservazioni in merito a questioni sollevate da domande in via pregiudiziale proposte da organi giurisdizionali degli Stati membri. Infatti, l’istituto dell’intervento, in senso stretto, sussiste solo in caso di ricorsi diretti. Diversamente, in caso di rinvio pregiudiziale, l’art. 23 dello Statuto della Corte prevede che “gli Stati membri […] hanno il diritto di presentare alla Corte memorie ovvero osservazioni scritte” (v., per maggiori dettagli, M. CONDINANZI, R. MASTROIANNI, Il contenzioso dell’Unione europea, Torino, 2009, p. 422). E’ evidente, perciò, che anche per la presentazione di osservazioni a seguito di domande in via pregiudiziale sollevate da organi giurisdizionali di altri Stati membri, spetta al Presidente del Consiglio dei Ministri o al Ministro per gli affari europei, eventualmente all’esito delle riunioni di coordinamento convocate dal Dipartimento per le Politiche Europee, decidere di “intervenire” in presenza di situazioni di rilevante interesse nazionale.
Invero, non è infrequente che gli Stati membri intervengano in procedimenti che non li riguardano direttamente, e in particolar modo nei casi di esercizio della competenza in via pregiudiziale della Corte, (i) per la portata generale che le sentenze ex art. 267 TFUE assumono per l’interpretazione del diritto dell’Unione europea; (ii) per stabilire la compatibilità della legislazione nazionale con quest’ultimo, nel caso in cui la stessa sia formulata in modo simile alla legislazione oggetto del rinvio pregiudiziale; infine, (iii) perché gli Stati membri hanno spesso interesse a presentare osservazioni in procedimenti che riguardino questioni di particolare rilievo politico.
Ebbene, una verifica empirica dei dati a disposizione, mette in luce alcuni elementi.
Per quanto riguarda gli interventi, anche nei procedimenti in via pregiudiziale, promossi da organi giurisdizionali di altri Stati membri e decisi dinanzi alla Corte riunita in grande sezione - circostanza che presuppone che la causa interessata tocchi materie di particolare importanza per il diritto dell’Unione -, si riscontra un aumento del loro numero a seguito dell’adozione della legge n. 234 del 2012. Infatti, se nel periodo 2009-2012 si registrano appena sette casi in cui sono state presentate osservazioni in procedimenti in via pregiudiziale, nell’arco temporale 2013-2016 se ne contano quasi il doppio: ben tredici interventi. All’interno di questi casi, tuttavia, non sembra possibile individuare materie più “sensibili”, ovvero che comportino interventi più frequenti, rispetto ad altre: in entrambe le fasce temporali prese in considerazione, gli argomenti trattati sono eterogenei. Si contano solo due casi relativi all’interpretazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri e due in materia bancaria nel periodo 2013-2016.
Su un piano generale, i numeri considerati possono peraltro essere comparati con quelli degli altri “grandi” Paesi dell’Unione europea. Ebbene, su un totale di 295 casi analizzati in un arco temporale di circa dieci anni (2007-2017), risulta che l’Italia ha presentato osservazioni in procedimenti in via pregiudiziale sollevati da organi giurisdizionali di altri Stati membri decisi in composizione grande sezione, in un numero quasi pari a quello della Germania (rispettivamente, 73 e 75), mentre la Francia e il Regno Unito ne contano molti di più (93 e 95). Inoltre, mentre in ben tredici casi sia la Germania, che la Francia e il Regno Unito hanno presentato osservazioni in cause decise in grande sezione originate da rinvii di organi giurisdizionali di altri Stati membri, l’Italia è intervenuta a fianco degli altri grandi Stati membri in solo tre occasioni. Occorre peraltro precisare che sono stati esclusi dalla verifica gli interventi degli Stati membri sopra citati in procedimenti originati da domande di propri organi giurisdizionali, essendo abbastanza scontato che in tali circostanze gli Stati presentino in ogni caso loro osservazioni.
Quanto ai casi di intervento in senso tecnico, ovvero quelli presentati in ricorsi diretti, si riscontrano per l’Italia, compreso il primo caso del 1966 (cause riunite 56 e 58-64, Établissements Consten S.à.R.L. e Grundig-Verkaufs-GmbH c. Commission of the European Economic Community), solo ventitré precedenti, numero molto inferiore a quello relativo alla presentazione di osservazioni in procedimenti in via pregiudiziale.
Tuttavia, recentemente si sono registrate alcune notevoli “assenze” del nostro Paese su temi di grande rilevanza sia per il diritto dell’Unione europea, data la trattazione degli stessi dalla Corte nella composizione di grande sezione (e comprovata dall’intervento di molti Stati membri), sia di interesse nazionale, in quanto oggetto di serrati dibattiti politici. Ad esempio, l’Italia non è intervenuta, al contrario di Francia e Regno Unito, nei due recenti casi riguardanti il velo islamico (cause C-157/15 e C-188/15 del 14 marzo 2017, v. qui e qui) a seguito di rinvio pregiudiziale sollevato, rispettivamente, dalla Corte di Cassazione belga e dalla Cassazione francese; nel caso Aranyosi, relativo alla possibilità di rinvio dell’esecuzione del mandato di arresto europeo in caso di rischio di trattamento inumano o degradante nel Paese di emissione del mandato, nel quale sono intervenuti, invece, Germania, Francia e Regno Unito (cause riunite C-404/15 e C-659/15 PPU, v. qui); nel caso avente ad oggetto la possibilità per gli Stati membri di concedere un visto umanitario alle persone che intendono recarsi nel loro territorio con l’intenzione di chiedere asilo, che ha visto l’intervento di Germania e Francia (causa C-638/16 PPU, v. qui).
In buona sostanza, pur riscontrandosi una rilevante presenza italiana nei procedimenti davanti alla Corte di Lussemburgo si attestano, al tempo stesso, alcune apparentemente “ingiustificate assenze”, che sollecitano due (rapide) osservazioni.
La prima è che non sussistono meccanismi di controllo delle ragioni del mancato intervento in alcuni procedimenti che sembrerebbero di sicuro interesse per il Paese. Si assiste, dunque, a un considerevole deficit di trasparenza. Se, infatti, è difficile immaginare che il Governo debba rendere pubbliche le ragioni del mancato intervento in certi procedimenti quando lo stesso, più che di una omissione, potrebbe essere frutto di una precisa scelta e di strategie di politica europea, si potrebbe quanto meno auspicare che vi sia una maggiore pubblicità dei casi di intervento davanti alla Corte, per permettere un controllo politico sull’operato del Governo. Occorre a tal riguardo precisare che ora sono rese pubbliche le date e le cause oggetto delle citate riunioni periodiche di coordinamento che si svolgono presso il Dipartimento per le Politiche Europee ai sensi dell’art. 42 della legge n. 234 del 2012 e dei casi discussi in tali occasioni, ma non sono pubbliche le motivazioni delle decisioni adottate all’esito delle stesse (v. il sito del Dipartimento per le Politiche Europee).
In secondo luogo, occorre ricordare che se da un punto di vista giuridico il mancato intervento non produce conseguenze dirette per il Paese che si è astenuto se non quella di non poter influenzare in suo favore le decisioni della Corte, da un punto di vista politico esso può avere, invece, un effetto immediato, ovvero quello di indebolire le pretese dello Stato membro nei confronti dell’Unione nell’ambito delle istituzioni politiche, visto che esso non ha fatto valere le sue ragioni in altre sedi, compresa quella giudiziaria.