Il Diritto dell'Unione EuropeaEISSN 2465-2474 / ISSN 1125-8551
G. Giappichelli Editore

04/05/2021 - Limiti ratione temporis all’applicazione del principio della tutela giurisdizionale effettiva: riflessioni in margine alla sentenza Repubblika c. Il-Prim Ministru

argomento: Osservatorio

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di MARIA EUGENIA BARTOLONI

1.  Con sentenza del 20 aprile 2021, resa nella causa C-896/19, Repubblika c. Il-Prim Ministru, la Corte di giustizia è stata nuovamente chiamata a pronunciarsi sul nesso sussistente tra il rispetto del principio della tutela giurisdizionale effettiva e le garanzie di indipendenza del giudice previste dal diritto UE e a stabilire in quale misura siffatte garanzie possano essere pregiudicate dal sistema di nomina dei giudici nazionali. Più precisamente, la Corte è stata chiamata, da una parte, a verificare se le disposizioni della Costituzione maltese del 1964, che conferiscono al Primo ministro un potere decisivo nel processo di nomina dei giudici, possano considerarsi compatibili con gli articoli 19, par. 1, secondo comma, TUE e 47 della Carta; dall’altra, a stabilire se le modifiche apportate dalla riforma costituzionale del 2016 - che prevedono l’intervento, in tale processo, di un organo indipendente incaricato di valutare i candidati e di fornire un parere a tale Primo ministro - determinino o meno un rafforzamento della garanzia dell’indipendenza dei giudici.

La sentenza in commento si colloca nell’ambito dell’oramai cospicuo filone giurisprudenziale che, inaugurato dalle note vicende relative al rispetto dello “Stato di diritto” in Polonia (Corte giust. 25 luglio 2018, C-216/18 PPU, LM; 24 maggio 2019, C-619/18, Commissione c. Polonia; 5 novembre 2019, C-192/18, Commissione c. Polonia; 19 novembre 2019, C‑585/18, C‑624/18 e C‑625/18, A.K. et al.; 2 marzo 2021, C-824/18, A.B. et al.), ha introdotto l’idea, valorizzandone progressivamente le numerose implicazioni, secondo cui il rispetto della rule of law non possa prescindere dalla sussistenza di un sistema giurisdizionale che assicuri l’indipendenza dei giudici nazionali.

In questo filone giurisprudenziale, culminato da ultimo nella sentenza in oggetto, il principio che impone agli Stati membri di prevedere un sistema di rimedi e di procedimenti atti a garantire il rispetto del diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva - e con esso il ruolo riservato dai Trattati ai giudici nazionali in funzione della tutela di questo diritto fondamentale - ha assunto un rilievo così pronunciato nell’argomentazione giuridica, da poter essere considerato la “chiave di volta” per una nuova tappa del processo costituzionale europeo (M. Ovádek, Has the CJEU just Reconfigured the EU Constitutional Order?, in www.Verfassungsblog.de, 28 febbraio 2018, disponibile su www.verfassungsblog.de/hasthe-cjeu-just-reconfigured-the-eu-constitutional-order/). Nelle numerose sentenze in tema, infatti, la Corte non ha mai mancato di riaffermare che il principio di tutela giurisdizionale effettiva, allorché “affida l’onere di garantire il controllo giurisdizionale nell’ordinamento giuridico dell’Unione non soltanto alla Corte, ma anche agli organi giurisdizionali nazionali”, “concretizza il valore dello Stato di diritto affermato all’articolo 2 TUE” (v., tra le molte, Corte giust. 27 febbraio 2018, C-64/16, ASJP, punto 32; 24 maggio 2019, C-619/18, Commissione c. Polonia, cit., punto 47).

Questo filone giurisprudenziale, al di là dell’incontestabile significato politico, solleva alcune questioni giuridiche che, pur apparendo di carattere squisitamente tecnico, possono incidere in maniera considerevole sul complessivo sistema costituzionale dell’UE, soprattutto per le ricadute che esso è idoneo a determinare nel quadro degli obblighi che ne derivano per gli Stati membri. Tra le principali, è sufficiente indicare la questione relativa alla sfera applicativa apparentemente illimitata che la Corte, con una giurisprudenza coraggiosa e audace, ha assegnato al principio della tutela giurisdizionale effettiva ai sensi dell’art. 19, par. 1, secondo comma, TUE.

Ancorché di non immediata evidenza, non sembra trascurabile il contributo che la sentenza in oggetto apporta proprio nella definizione della sfera applicativa del principio di tutela giurisdizionale effettiva. Siffatto principio, infatti, incontrerebbe per la prima volta dei limiti applicativi. Alla luce di queste considerazioni, le brevi riflessioni che seguiranno sono volte ad esaminare l’iter argomentativo percorso dalla Corte per frenare la forza espansiva impressa, nella precedente giurisprudenza, al principio della tutela giurisdizionale effettiva.

 

2.  La prima questione sulla quale la Corte è stata chiamata a pronunciarsi riguarda l’applicabilità, congiunta o disgiunta, degli articoli 19 TUE e 47 della Carta alla causa oggetto del rinvio. Siffatta questione ha reso necessaria una preliminare comparazione del nucleo normativo delle due disposizioni e del loro rispettivo ambito d’applicazione.

Sotto il primo profilo, la Corte ha indicato in termini espressi il carattere speculare e complementare delle due previsioni: “mentre l’articolo 47 della Carta contribuisce al rispetto del diritto a una tutela giurisdizionale effettiva di ogni singolo che si avvalga, in una determinata fattispecie, di un diritto che gli deriva dal diritto dell’Unione, l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE mira, dal canto suo, a garantire che il sistema di rimedi giurisdizionali istituito da ogni Stato membro garantisca la tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione” (punto 52). La Corte, in questo passaggio, ha dunque svolto in maniera esplicita l’indicazione, già formulata in precedenti sentenze, secondo cui all’obbligo che l’articolo 19, paragrafo 1, TUE impone agli Stati membri “corrisponde il diritto ad un ricorso effettivo dinanzi ad un giudice imparziale sancito dall’articolo 47 della Carta” (ad es., Corte giust. 29 gennaio 2020, C-785/18, GAEC). Se dunque l’art. 19 TUE si colloca nel quadro organizzativo-istituzionale dell’Unione europea e vincola gli Stati membri all’adozione di un assetto di rimedi interno adeguato, l’art. 47 della Carta appartiene ad un catalogo di diritti fondamentali dell’individuo, riconosciuti e tutelati a livello sovranazionale. Di conseguenza, quest’ultima norma è attributiva di un diritto, che si rivela un vero e proprio “rovescio” della medaglia rispetto all’obbligo imposto agli Stati.

A questa dimensione normativa speculare non corrisponde tuttavia una analoga sfera applicativa. Sotto questo profilo, la Corte ha confermato la giurisprudenza precedente secondo cui “l’ambito di applicazione ratione materiae dell’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE, … riguarda i ‘settori disciplinati dal diritto dell’Unione’, indipendentemente dalla situazione in cui gli Stati membri attuano tale diritto, ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1” (punto 36). Dal canto suo, l’art. 47 – nel sancire, a favore di ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati, il diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice – presuppone invece che la persona che lo invoca “si avvalga di diritti o di libertà garantiti dal diritto dell’Unione, conformemente all’articolo 51 della Carta” (punti 40 e 41). La Corte ha dunque riaffermato che la sfera applicativa dell’art. 19 non è collegata al criterio fatto proprio dall’art. 47 della Carta e, dunque, prescinde dal momento “attuativo”, inteso in senso ampio come idoneità della norma nazionale di transitare, attraverso un qualche fattore di collegamento, nell’ambito d’applicazione del diritto dell’Unione. Essa, piuttosto, riguarda “i settori disciplinati dal diritto dell’Unione” o, come parafrasato in altre sentenze, i “settori coperti dal diritto dell’Unione” (Corte giust. 6 marzo 2018, C-284/16, Achmea, punto 55; 28 marzo 2017, C-72/15, Rosneft, punto 54).

Ne deriva che, al fine di invocare l’art. 47 della Carta, la situazione deve essere concretamente e specificamente collegata con il diritto UE. Così, soltanto in presenza di un nesso di connessione – che radichi in maniera concreta ed effettiva la fattispecie al diritto dell’Unione – una norma nazionale può essere vagliata alla luce della prescrizione che consente agli individui di esigere un concreto ed effettivo accesso alla giustizia. Al contrario, non è richiesta la sussistenza di alcuna situazione concreta specificamente ed effettivamente connessa al diritto dell’Unione per invocare l’applicazione dell’art. 19 TUE. Piuttosto, laddove la Corte indica che “ogni Stato membro deve segnatamente garantire che gli organi che fanno parte, in quanto ‘organi giurisdizionali’ nel senso definito dal diritto dell’Unione, del suo sistema di rimedi giurisdizionali nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione e che, pertanto, possono trovarsi a dover statuire in tale qualità sull’applicazione o sull’interpretazione del diritto dell’Unione, soddisfino i requisiti di una tutela giurisdizionale effettiva” (punto 37) si accontenta di un nesso molto più blando dato dalla mera idoneità o capacità del giudice di pronunciarsi “su questioni riguardanti l’applicazione o l’interpretazione del diritto dell’Unione”.

In questo caso, dunque, l’obbligo per gli Stati membri di assicurare che un organo giurisdizionale sia idoneo a offrire ai singoli tutela giurisdizionale effettiva non dipende dall’oggetto concreto di una determinata controversia, bensì dalla competenza dell’organo a conoscere, anche soltanto in via meramente ipotetica, di questioni che chiamano in causa il diritto dell’Unione. Il collegamento effettivo e concreto con l’ambito d’applicazione del diritto UE fa dunque spazio ad un collegamento potenziale ed astratto (si consenta di rinviare a M.E. Bartoloni, La natura poliedrica del principio della tutela giurisdizionale effettiva ai sensi dell’art. 19, par. 1, TUE, in Il Diritto dell’Unione europea, 2019, p. 245 ss.).

Alla luce delle differenti condizioni che consentono di innescare l’applicazione rispettivamente degli articoli 19 TUE e 47 della Carta, la Corte ha escluso l’applicazione dell’art. 47: nel caso di specie, infatti, “non risulta che [la ricorrente] faccia valere un diritto ad essa conferito sulla base di una disposizione del diritto dell’Unione” (punto 42).

La Corte ha di conseguenza condotto la complessiva indagine esclusivamente sulla base dell’art. 19 TUE (questa soluzione è stata applicata anche in Corte giust. 2 marzo 2021, C-824/18, A.B. et al., punti 87-89). Conviene peraltro chiedersi se il ricorso ad un duplice parametro si sarebbe imposto nell’ipotesi in cui la ricorrente avesse invocato la violazione di diritti conferiti da una norma UE. Una soluzione negativa parrebbe trarsi dalla sentenza A.K. (Corte giust. 19 novembre 2019, C‑585/18, C‑624/18 e C‑625/18) che ha escluso la possibilità di condurre l’indagine di conformità della normativa statale sulla base di un cumulo di parametri, pur essendo in principio, nel caso di specie, applicabili contestualmente sia l’art. 19 TUE che l’art. 47 della Carta. In quel caso, infatti, la Corte aveva ritenuto che l’esame sull’art. 47 avesse “assorbito” l’esame sull’art. 19 e che un’indagine separata su quest’ultima disposizione non avrebbe potuto che “corroborare la conclusione già esposta” (ivi, punto 169).

 

3.  Al fine di verificare la conformità della normativa maltese di nomina dei giudici all’art. 19 TUE, la Corte ha dovuto preliminarmente determinare il contenuto prescrittivo di tale disposizione. Dopo aver confermato che l’art. 47 della Carta, ancorché non applicabile al caso di specie, deve “essere debitamente pres(o) in considerazione ai fini dell’interpretazione dell’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE” (punto 46), la Corte ha indicato che il requisito di indipendenza degli organi giurisdizionali è “intrinsecamente connesso al compito di giudicare” e costituisce, in quanto tale, “un aspetto essenziale del diritto fondamentale a una tutela giurisdizionale effettiva e a un equo processo” ai sensi dell’art. 47 della Carta (punto 51). La Corte ha dunque riaffermato l’inscindibile nesso che si instaura tra effettività della tutela e indipendenza del giudice. In assenza di regole dell’Unione dirette ad armonizzare il diritto processuale degli Stati membri, spetta dunque agli Stati, ai sensi dell’art. 19 TUE, prevedere nel quadro degli strumenti di garanzia di ciascun ordinamento nazionale una tale tutela, garantendo che gli organi giurisdizionali soddisfino i requisiti di indipendenza.

La questione immediatamente successiva affrontata dalla Corte ha riguardato la definizione dei presupposti in presenza dei quali l’organo giurisdizionale può essere qualificato indipendente. In questa prospettiva, la Corte ha innanzitutto rammentato che le garanzie di indipendenza e di imparzialità presuppongono l’esistenza di “regole, relative in particolare alla composizione dell’organo, alla nomina, alla durata delle funzioni nonché alle cause di astensione, di ricusazione e di revoca dei suoi membri” (punto 53). Tali regole sono preordinate ad escludere “non solo qualsiasi influenza diretta, sotto forma di istruzioni, ma anche le forme di influenza più indiretta che possano orientare le decisioni dei giudici interessati” (punto 55).

Ciò premesso, la sentenza ha indicato i criteri da applicare al fine di procedere alla verifica della sussistenza dell’indipendenza ed il metodo di rilevazione che deve essere utilizzato. Sotto questo duplice profilo, conviene osservare che la Corte si è ispirata ad un approccio assai rigoroso. Quanto ai criteri, lo standard che la Corte ha adottato per valutare l’indipendenza del giudice risulta piuttosto stringente: esso esige che le decisioni di nomina siano “tali da non poter suscitare, nei singoli, dubbi legittimi in merito all’impermeabilità dei giudici interessati nei confronti di elementi esterni e alla loro neutralità rispetto agli interessi contrapposti” (punto 57).

Non si tratta dunque di provare un’interferenza reale o anche potenziale all’autonomia dei giudici. Il parametro è più sfumato e quindi assai più insidioso perché fa riferimento ad un elemento di obiettiva incertezza. In applicazione di questo criterio, laddove gli elementi presi in considerazione siano scarsamente persuasivi o contradditori, tali da giustificare una conclusione alternativa rispetto all’indipendenza, il “legittimo dubbio che i singoli possano nutrire quanto all’impermeabilità” non può considerarsi superato. Non appare allora irragionevole ritenere che la formula utilizzata dalla Corte - che si incentra sul “dubbio legittimo” -, non imponendo alcuna prova rigorosa sul nesso di causalità tra condotta statale e violazione dell’indipendenza del giudice, apra la strada a giudizi che non si fondano sull’evidenza probatoria, ma su elementi di indeterminatezza e su meri convincimenti di credibilità. Come enfaticamente suggerito dall’AG Tanchev, “(l)e apparenze hanno una determinata importanza, per cui ‘non solo si deve fare giustizia, ma si deve anche vedere che è stata fatta giustizia’. L’elemento in gioco è la fiducia che i giudici, in una società democratica, devono ispirare nel pubblico” (Conclusioni presentate l’11 aprile 2019, C-619/18, Commissione c. Polonia).

Quanto al metodo di rilevazione, la sussistenza del ragionevole dubbio può essere esclusa o confermata soltanto in riferimento alle varie e molteplici “condizioni sostanziali e modalità procedurali che presiedono all’adozione delle suddette decisioni di nomina” (punto 57). Questo iter di rilevazione indica l’esigenza di procedere ad un esame combinato di una pluralità di normative e prassi di carattere sia sostanziale che procedurale, le quali – dopo essere state complessivamente considerate e soppesate le une con le altre – sono soggette ad un giudizio complessivo. Tale metodo, che si fonda chiaramente su un approccio olistico, nel presupporre che l’indipendenza sia condizionata da una molteplicità di elementi di natura sia giuridica che fattuale, non àncora il vaglio della sussistenza del ragionevole dubbio ad una norma o condotta specifica, ma considera le varie componenti nel loro complesso (v., sotto questo profilo, P.M. Rodríguez, Poland Before the Court of Justice: Limitless or Limited Case Law on Art. 19 TEU?, in European Papers del 25 aprile 2020, p. 331 ss.).

 

4.  Sullo sfondo di un quadro concettuale e giuridico così analiticamente ricostruito, la Corte ha infine esaminato la normativa maltese di nomina dei giuridici alla luce dell’art. 19 TUE, concludendo per la sua conformità al principio di tutela giurisdizionale effettiva. A prescindere dalla soluzione, l’iter argomentativo attraverso cui la Corte abbraccia siffatta conclusione appare innovare sensibilmente la precedente giurisprudenza.

Come accennato, la Corte era chiamata a verificare nello specifico se le norme della Costituzione maltese, sia nella loro formulazione precedente alla riforma del 2016 che in quella successiva, rispettassero l’art. 19 TUE. In corrispondenza a questo spartiacque temporale, la Corte ha svolto dunque una duplice valutazione.

Riguardo alle norme introdotte dalla riforma del 2016, esse hanno previsto l’istituzione del Comitato per le nomine in magistratura, organo incaricato di valutare i candidati ad un posto di giudice e di fornire un parere al Primo ministro. Per quanto quest’ultimo continui a disporre di un potere decisivo nella procedura di nomina ai sensi della Costituzione del 1964, la Corte ha indicato che il Comitato “può, in linea di principio, contribuire a rendere obiettivo tale processo, delimitando il margine di manovra di cui dispone il Primo ministro nell’esercizio della competenza conferitagli in materia” (punto 66). Alla luce di una serie di regole, la Corte ha infatti riconosciuto che il Comitato appare dotato dell’indipendenza necessaria ad agire in piena autonomia, senza essere assoggettato a controlli di carattere politico (v. punti 67 e 68). La Corte ha quindi concluso che il Comitato, nel rafforzare la garanzia dell’indipendenza dei giudici, risponde ai requisiti dell’art. 19 TUE (punto 69).

Per quanto riguarda l’esame delle previsioni costituzionali antecedenti la riforma del 2016, che corrispondono alla Costituzione del 1964 e che sono quelle che assegnano al Primo ministro “un potere certo nella nomina dei giudici” (punto 70), la Corte ha utilizzato argomenti inediti che, come anticipato, appaiono idonei ad introdurre dei limiti significativi alla sfera applicativa potenzialmente illimitata dell’art. 19 TUE.

Conviene ripercorrere la complessiva argomentazione. La Corte ha innanzitutto premesso che “è sulla base delle disposizioni della Costituzione del 1964 che la Repubblica di Malta ha aderito all’Unione sulla base dell’articolo 49 TUE” (punto 60). Quest’ultimo articolo, “che prevede la possibilità per ogni Stato europeo di domandare di diventare membro dell’Unione, precisa che quest’ultima riunisce Stati che hanno liberamente e volontariamente aderito ai valori comuni attualmente previsti dall’articolo 2 TUE, che rispettano tali valori e che si impegnano a promuoverli” (punto 61). In particolare, ha aggiunto la Corte, “dall’articolo 2 TUE discende che l’Unione si fonda su valori, quali lo Stato di diritto, che sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata, in particolare, dalla giustizia. Va rilevato, al riguardo, che la fiducia reciproca tra gli Stati membri e, segnatamente, i loro giudici si basa sulla premessa fondamentale secondo cui gli Stati membri condividono una serie di valori comuni sui quali l’Unione si fonda” (punto 62).

In questa sorta di articolato sillogismo giuridico, la Corte, nel collegare l’art. 19 TUE rispettivamente agli articoli 2 e 49 TUE, sembrerebbe prospettare una automatica presunzione di conformità della Costituzione del 1964 ai requisiti imposti dal principio della tutela giurisdizionale effettiva. Infatti, poiché solo gli Stati che, ai sensi dell’art. 49 TUE, rispettano e promuovono i valori comuni di cui all’art. 2 TUE possono aderire all’Unione, si deve presupporre che la Costituzione del 1964, con cui Malta ha aderito all’UE, rispetti pienamente quei valori, tra cui lo “Stato di diritto, valore che si concretizza, in particolare, nell’articolo 19 TUE”.

Nell’indicare, inoltre, che uno Stato membro “non può quindi modificare la propria normativa in modo da comportare una regressione della tutela del valore dello Stato di diritto” (punto 63), la Corte parrebbe confermare che, in assenza di modifiche che determinino un arretramento nella tutela, la normativa costituzionale vigente in uno Stato membro al momento della sua adesione all’Unione debba essere assistita da una presunzione di conformità ai valori tutelati dall’art. 2 e quindi all’art. 19 TUE.

Queste indicazioni, complessivamente considerate, sembrano dunque indicare che il principio di tutela giurisdizionale effettiva debba considerarsi rispettato al cospetto di un assetto costituzionale rimasto inalterato nel periodo successivo all’adesione dello Stato. Alla luce di queste considerazioni, il tendenziale allargamento che la complessiva giurisprudenza ha operato riguardo la sfera applicativa dell’art. 19 TUE sarebbe quindi attenuato da un criterio ratione temporis. L’art. 19, ancorché applicabile rispetto al complessivo sistema giudiziario statale - indipendentemente dal fatto che un singolo caso sia deciso o meno ai sensi del diritto dell’Unione -, incontrerebbe un limite applicativo in relazione a norme costituzionali rimaste immutate dall’adesione. Queste ultime, in quanto norme che hanno garantito la partecipazione al complessivo sistema di valori e principi dell’Unione, sarebbero in principio sottratte, proprio in virtù di questo particolare status giuridico, ad un controllo ai sensi dell’art. 19 TUE.

 

5.  In conclusione, è innegabile la funzione sistemica e costituzionale impressa all’art. 19 TUE dalla complessiva giurisprudenza. L’approccio assai rigoroso, sia in merito ai criteri da applicare al fine di procedere alla verifica della sussistenza dell’indipendenza del giudice che al metodo di rilevazione, testimonia chiaramente la centralità dell’art. 19 nella tutela dello stato di diritto. A ciò si aggiungano l’estensione potenzialmente senza limiti della sua sfera applicativa e il riconoscimento della sua idoneità a produrre effetti diretti (Corte giust. 2 marzo 2021, C-824/18, A.B. et al., punto 46). Elementi questi che, considerati complessivamente, rendono il principio della tutela giurisdizionale effettiva uno strumento di straordinaria efficacia.

Tuttavia, a fronte di una forza espansiva virtualmente illimitata, questa sentenza sembrerebbe opporre dei chiari limiti ratione temporis: l’art. 19 TUE arretrerebbe e non sarebbe applicabile dinanzi a norme rimaste inalterate dopo l’adesione dello Stato membro. Queste, infatti, sarebbero assistite, per il tramite dell’intrinseco nesso che si instaura tra gli articoli 49, 2 e 19 TUE, da una presunzione di conformità al principio di tutela giurisdizionale effettiva.

In una prospettiva ricostruttiva più generale, tuttavia, siffatta presunzione andrebbe chiaramente considerata iuris tantum. Non sarebbe infatti ragionevole ritenere che il rispetto dell’art. 19 TUE sia necessariamente garantito soltanto per l’assenza di modifiche costituzionali volte a determinare una regressione nella tutela dei diritti e che, quindi, il mantenimento dello “status quo normativo” esistente al momento dell’adesione rappresenti una garanzia decisiva per il rispetto dello stato di diritto. Un paradigma del genere poggerebbe infatti su basi di incerta solidità. Non sembra allora azzardato pensare che l’art. 19 possa tornare a svolgere la sua funzione di presidio laddove, pur in assenza di regressioni normative, si riscontrino “circostanze eccezionali” (v., mutatis mutandis e con le dovute cautele, Corte giust. 5 aprile 2016, C‑404/15 e C‑659/15 PPU, Aranyosi e Căldăraru, per il mandato d’arresto europeo; Corte giust. 21 dicembre 2011, C-411/10 e C-493/10, N.S., per il sistema di Dublino) che attentino all’indipendenza dei giudici e, più in generale, alla garanzia di una tutela giurisdizionale effettiva.