Il Diritto dell'Unione EuropeaEISSN 2465-2474 / ISSN 1125-8551
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11/05/2021 - La (finta) rivoluzione dell’avvocato generale Bobek: i criteri CILFIT nelle conclusioni alla causa C-561/19

argomento: Osservatorio

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di PATRIZIA DE PASQUALE

 

La (finta) rivoluzione dell’avvocato generale Bobek: i criteri CILFIT nelle conclusioni alla causa C-561/19

Patrizia De Pasquale

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. I fatti all’origine della controversia. – 3. La doppia risposta dell’avvocato generale Bobek. – 4. I criteri CILFIT e la giurisprudenza successiva. – 5. La proposta dell’avvocato generale: critica. –  6. Conclusioni

 

1.  Non vi è dubbio che le eccezioni all’obbligo di rinvio pregiudiziale, di cui all’art. 267, comma 3, TFUE, enunciate nella celeberrima sentenza CILFIT (6 ottobre 1982, 283/81), abbiano fatto venire più di un mal di testa in fase di attuazione concreta. E in particolare ciò è accaduto con la teoria dell’acte clair, ovvero l’ipotesi in cui la deroga è collegata alla mancanza di ogni ragionevole dubbio da parte del giudice nazionale di ultima istanza. Invero, per l’ampia autonomia valutativa assegnata al giudice interno, tale teoria non soltanto è stata fortemente criticata in seno a un acceso dibattito dottrinale, ma ha richiesto altresì l’intervento della stessa Corte di giustizia che, più volte, ha dovuto precisarne i contorni (nella letteratura, v. soprattutto A. Tizzano in Foro it. 1983, vol. 106, n. 3, p. 63 ss.; M. Lagrange, in RTDEur 1983, p. 159 ss.; N. Catalano, La pericolosa teoria dell’”atto chiaro”, in Giustizia civile, I, 1983, p. 12 ss.; K. Lenaerts, La modulation de l’obligation de renvoi préjudiciel, in Cahiers de droit européen, 1983, p. 471 ss.; G. Bebr, The Rambling Ghost of “Cohn-Bendit”: Acte Clair and the Court of Justice, in Comm. Market Law Rev., 1983, p. 439 ss.).

Inoltre, va notato che, sebbene la giurisprudenza CILFIT possa apparire attualmente superata dallo “spettro” della responsabilità dello Stato-giudice per grave violazione del diritto dell’Unione, con la correlata tendenza del giudice nazionale di ultima istanza a rinviare con maggiore frequenza e facilità, la giurisprudenza della Corte di giustizia continua invece a muoversi nel solco tracciato, pur con puntualizzazioni talora di particolare interesse. Confermando in tal modo la validità del sofisticato strumento di ingegneria giuridica definito dall’art. 267 TFUE, che potrebbe essere alterato attraverso la violazione dell’obbligo di rinvio.

Così, malgrado il meccanismo predisposto sia sicuramente perfettibile e le esenzioni all’obbligo in parola presentino margini di elasticità, tali da lasciare aperta la possibilità che esso venga aggirato o eluso, la soluzione proposta dall’avvocato generale Bobek, nelle conclusioni alla causa Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi (C-561/19, presentate in data 15 aprile 2021), non sembrano andare nella direzione di un aggiustamento effettivo (per un primo commento, v. R. Torresan, La giurisprudenza CILFIT e l’obbligo di rinvio pregiudiziale interpretativo: la proposta “ribelle” dell’avvocato generale Bobek, in rivista.eurojus.it, 19 aprile 2021; E. Gambaro, I. Bellini, Rinvio Pregiudiziale e Giudice di Ultima Istanza: Occorre Ripensare i Criteri “CILFIT”?, in gtlaw.com, 29 aprile 2021). Anzi, a fronte di una ricostruzione molto precisa e di un’argomentazione articolata ed ampia, le sue indicazioni risultano nella sostanza discostarsi molto poco da quanto finora affermato e consolidato dalla giurisprudenza.

 

2.  Occorre brevemente ricordare che la questione nasce nell’ambito di un appalto di servizi aggiudicato, nel 2006, al Consorzio Italian Management e alla Catania Multiservizi SpA, dalla Rete Ferroviaria Italiana SpA e dal successivo rifiuto di quest’ultima di adeguare il corrispettivo, in forza di una clausola del contratto limitativa della revisione dei prezzi. La controversia che ne è seguita è stata sottoposta, dapprima al TAR della Sardegna e, a seguito dell’impugnazione della sentenza di primo grado, al Consiglio di Stato che, a sua volta, decideva di sottoporre alla Corte di giustizia due quesiti pregiudiziali (TAR Cagliari, sez. I, sent. n. 433 dell’11 giugno 2014; Cons. Stato, sez. IV, ordinanza di rinvio n. 4949 del 15 luglio 2019). Con essi, il giudice di Lussemburgo era chiamato a valutare la conformità al diritto dell’Unione di una normativa nazionale che esclude l’adeguamento dei prezzi nei contratti afferenti ai cc.dd. settori speciali. La decisione della Corte non ha, però, soddisfatto le parti che hanno invitato il giudice amministrativo italiano di ultima istanza a sollevare ulteriori quesiti pregiudiziali.

Muovendo dalla constatazione che l’assenza di preclusioni processuali alla possibilità di rinvii a catena possa pregiudicare il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva, il Consiglio di Stato ha ritenuto opportuno interrogare di nuovo la Corte di giustizia su tre questioni. Precisamente, e per quanto qui rileva, ha chiesto (nel primo quesito) se l’obbligo di rinvio pregiudiziale che grava sulle giurisdizioni avverso le quali non è possibile proporre ricorso sussista anche qualora la questione venga sottoposta da una delle parti “del processo dopo il suo primo atto di instaurazione del giudizio o di costituzione nel medesimo, ovvero dopo che la causa sia stata trattenuta per la prima volta in decisione, ovvero anche dopo che vi sia già stato un primo rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione europea”. Con gli altri due quesiti ha riformulato le questioni contenute nella prima ordinanza.

 

3.  L’avvocato generale Bobek ha inquadrato i quesiti sollevati dal giudice del rinvio in una prospettiva più ampia, interrogandosi sull’inclusione, nell’obbligo di rinvio pregiudiziale incombente ai giudici di ultima istanza, di tutti i casi in cui persistano dubbi circa la corretta applicazione del diritto dell’Unione, “indipendentemente dal fatto che sia stata già proposta o meno, nella stessa causa, una precedente domanda di pronuncia pregiudiziale;” nonché su quale fosse “l’esatta portata dell’obbligo di proporre una domanda di pronuncia pregiudiziale e delle eccezioni a tale obbligo, alla luce in particolare di casi come quello di cui al procedimento principale” (punto 21).

Ha poi svolto le sue osservazioni seguendo una doppia logica: la prima ancorata alla costante giurisprudenza della Corte di giustizia che offre una ricostruzione più semplice e piana; la seconda seguendo uno schema molto più complesso che mette in discussione i criteri CILFIT.  

Nella prima parte delle sue conclusioni, l’avvocato generale ricorda, innanzitutto, come il controllo giurisdizionale si sia concretizzato nel dialogo tra giudice nazionale e giudice dell’Unione europea. E richiama brevemente le coordinate di tale controllo che, come ben noto, riconosce al giudice nazionale la competenza a sottoporre d’ufficio uno o più quesiti alla Corte di giustizia, per l’interpretazione o la validità di norme dell’Unione, allorquando la sua soluzione sia necessaria per decidere una controversia davanti ad esso pendente, anche se nella prassi segue spesso la sollecitazione di una parte del giudizio, senza che, però, tale sollecitazione comporti un obbligo di rinvio.

L’avvocato generale rammenta altresì che la decisione relativa al contenuto dei quesiti ed alla loro pertinenza per la soluzione della causa rimane di competenza esclusiva del giudice del rinvio e lo stesso vale per la fase del processo in cui promuovere il rinvio (comunque, meglio dopo il dibattito in contraddittorio per consentire un utile intervento della Corte).

Infine, evidenzia l’obbligo per il giudice interno di disapplicare le eventuali regole nazionali che limitino o ostacolino l’adempimento di tale obbligo (a titolo esemplificativo, v. Corte giust. 20 ottobre 2011, C-396/09, Interedil, punto 35), in quanto il giudice nazionale è tenuto a garantire la piena efficacia delle norme dell’Unione (Corte giust. 22 giugno 2010, C-188/10 e C-189/10, Melki e Abdeli, punti 40-45; 5 ottobre 2010, C-173/09, Elchinov, punto 21 ss.; 15 gennaio 2013, C-416/10, Križan, punti 65-73; 5 luglio 2016, C-614/14, Ognyanov; ord. 12 febbraio 2019, C-8/19 PPU, RH, punto 40 ss.)

Sulla base di tali premesse l’avvocato generale Bobek giunge rapidamente a rispondere al quesito posto dal Consiglio di Stato, affermando che una domanda di pronuncia pregiudiziale può essere sottoposta in qualsiasi momento, “indipendentemente da una precedente sentenza pregiudiziale della Corte pronunciata nell’ambito dello stesso procedimento, sempre che il giudice del rinvio ritenga che la risposta della Corte sia necessaria per consentirgli di pronunciare la propria sentenza. Tale decisione deve essere sempre adottata dal giudice nazionale, alla luce di ogni ragionevole dubbio che esso possa ancora nutrire riguardo alla corretta applicazione del diritto dell’Unione nella causa di cui è investito” (punto 31; corsivo aggiunto).

Ma non soddisfatto della soluzione appena offerta, e fedele alle osservazioni iniziali, propone poi una rilettura critica dei criteri CILFIT, ponendosi un ulteriore (fondamentale) quesito: ovvero se un obbligo di rinvio pregiudiziale sussiste in casi come quello di specie.

Il problema si pone – come sottolinea l’avvocato – con riferimento esclusivo al rinvio pregiudiziale di interpretazione, giacché, come risaputo, i giudici nazionali non sono competenti a dichiarare l’invalidità degli atti delle istituzioni dell’Unione. Ed è altrettanto noto che la ratio dell’obbligo di rinvio per le questioni di interpretazione in capo alle giurisdizioni di ultima istanza risiede nella necessità di evitare che in uno Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme dell’Unione (Corte giust. 24 maggio 1977, 107/76, Hoffmann-La Roche).

 

4.  Nell’economia del presente lavoro, è rilevante ricordare che, nella sentenza CILFIT, la Corte di giustizia ha individuato tre speciali eccezioni all’obbligo di rinvio pregiudiziale, ex art. 267, par. 3, TFUE, per lasciare ai giudici di ultima istanza un certo margine di apprezzamento nel valutare l’effettiva necessità del rinvio.

La prima riguarda il caso in cui la soluzione della questione interpretativa non influisca sull’esito della causa.

La seconda corrisponde al caso in cui si è in presenza di una giurisprudenza costante – c.d. questione materialmente identica, come definita dalla sentenza Da Costa (Corte giust. 27 marzo 1963, 28-30/62, spec. punti 5 e 6) – che abbia già risolto il punto litigioso, anche in assenza di stretta identità dei procedimenti e delle materie del contendere (c.d. acte éclairé).

Infine, la terza eccezione riguarda il caso in cui il giudice nazionale di ultima istanza abbia accertato che la corretta applicazione del diritto dell’Unione si imponga con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi (c.d. acte clair).

Con riferimento a quest’ultima condizione, consapevole di aver introdotto un elemento di alea nell’obbligatorietà del rinvio, che presenta il rischio che le giurisdizioni di ultima istanza trasformino in chiari, atti dell’UE che non lo sono affatto, la Corte ha previsto talune cautele, o meglio precisi criteri attraverso i quali il giudice nazionale possa misurare il livello di chiarezza dell’atto e affermare di non nutrire alcun dubbio sulla sua interpretazione. Specificatamente, i criteri si basano su: il raffronto delle varie versioni linguistiche; le nozioni giuridiche che non presentano necessariamente lo stesso contenuto nel diritto dell’Unione e nei vari diritti nazionali; il contesto e l’insieme delle disposizioni di diritto dell’Unione, delle sue finalità, nonché del suo stadio di evoluzione al momento in cui va data applicazione alla disposizione di cui trattasi.

Si tratta all’evidenza di verifiche complesse che investono il giudice di ultima istanza di una grande responsabilità, qualora dovesse decidere di non rinviare; sì che deve essere ben consapevole che la sua scelta sia riservata a casi estremi (M. Condinanzi, I giudici italiani “avverso le cui decisioni non possa porsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno” ed il rinvio pregiudiziale”, in questa Rivista, 2010, p. 295 ss.; S. Fortunato, L’obbligo di rinvio pregiudiziale ex art. 267, par. 3: una disciplina in continua evoluzione, in AA. VV, Liber Amicorum Antonio Tizzano. De la Cour CECA à la Cour de l’Union: le long parcours de la justice européenne, Torino, 2018, p. 351 ss.).

Anche la giurisprudenza successiva – diversamente da quanto ritiene l’avvocato generale Bobek – appare coerente con l’enunciazione e la specificazione dei criteri CILFIT. Infatti, il fil rouge individuato dalla Corte risiede nella responsabilità esclusiva del giudice di ultima istanza a decidere, in maniera indipendente, se è in presenza o meno di un atto chiaro. Responsabilità che va parametrata sulla necessità di assicurare la funzione essenziale del rinvio pregiudiziale, ovvero la realizzazione di un’interpretazione e un’applicazione del diritto dell’Unione uniforme in tutti i Paesi membri, in modo che esso abbia dovunque la stessa efficacia.

Sulla base di questi assunti, il giudice dell’Unione ha ritenuto soddisfatta la terza eccezione anche nell’ipotesi di interpretazione divergente di un’autorità amministrativa di altro Stato membro (Corte giust. 15 settembre 2005, C-495/03, Intermodal Transports); oppure nel caso di dubbi interpretativi da parte di un giudice di grado inferiore all’interno di uno Stato membro (Corte giust. 9 settembre 2015, C-72/14 e C-197/14, X e Van Dijk; cfr.  D. Sarmiento, CILFIT and Foto-Frost: Constructing and Deconstructing Judicial Authority in Europe, in M. Poiares Maduro, L. Azoulai (eds.), The Past and Future of EU Law, Oxford, 2010, p. 196); ed ancora ha stabilito che “il giudice che decide in ultimo grado può […] stimare, nonostante una determinata interpretazione di una norma del diritto dell’Unione effettuata da giudici subordinati, che l’interpretazione che esso intende dare a detta norma, differente da quella scelta da tali giudici, si impone senza lasciare adito ad alcun ragionevole dubbio” (Corte giust. 9 settembre 2015, C-160/14, Ferreira Da Silva e Brito, punto 42; in dottrina, v. C. Lacchi, Review by Constitutional Courts of the Obligation of National Courts of Last Instance to Refer a Preliminary Question to the Court of Justice of the EU, in German Law Journal, 2015, p. 1689). Ma ha poi aggiunto che, allorquando le contraddizioni siano tanto profonde da determinare interpretazioni divergenti, il giudice interno è tenuto ad effettuare il rinvio pregiudiziale. E, nella stessa ottica, ha chiarito – con riferimento all’ipotesi di una normativa nazionale incompatibile con il diritto dell’Unione europea – che il giudice nazionale, le cui decisioni non siano più soggette a ricorso giurisdizionale, è tenuto (sempre) a rivolgersi alla Corte in via pregiudiziale in presenza del minimo dubbio riguardo all’interpretazione o alla corretta applicazione del diritto dell’Unione (v. Corte giust. 28 luglio 2016, C-379/15, Association France Nature Environnement; F. Pani, L’obbligo (flessibile) di rinvio pregiudiziale e i possibili fattori di un suo irrigidimento. Riflessioni in margine alla sentenza Association France Nature Environnement, in europeanpapers.eu, 2017, p. 384 ss.; K. Sowery, Reconciling primacy and environmental protection: Association France Nature Environnement, in Comm. Market Law Rev., 2017, p. 1 ss.).

Peraltro, sul giudice nazionale di ultima istanza che intende far ricorso alla teoria dell’atto chiaro grava l’obbligo di motivare il mancato rinvio (sentenza Association France Nature Environnement, cit., punto 53), alla luce di circostanziate dimostrazioni. E, nell’elaborazione della motivazione, il medesimo giudice deve aver presente che una giustificazione non adeguata potrebbe comportare un consolidamento di un’interpretazione errata, a cui potrebbe seguire l’azione risarcitoria dei singoli i cui diritti siano stati lesi dalla pronuncia giudiziale (F. Spitaleri, Facoltà e obbligo di rinvio pregiudiziale, in F. Ferraro, C. Iannone [a cura di], Il rinvio pregiudiziale, Torino, 2020, p. 139).

A ciò si aggiunga che ulteriori verifiche sono poi svolte dagli uffici della Corte, al fine di evitare che questioni già trattate siano riproposte con inutile aggravio dell’attività processuale (nel senso che l’abuso del rinvio pregiudiziale vada contrastato, v., da ultimo, Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana, sent. n. 371 del 26 aprile 2021). Infatti, è prassi che la cancelleria della Corte trasmetta al giudice del rinvio le pronunce che possano risolvere i suoi dubbi, invitandolo a confermare o ritirare i quesiti posti. Inoltre, l’art. 99 del regolamento di procedura (“Risposta formulata con ordinanza motivata”) espressamente sancisce che qualora una questione pregiudiziale sia “identica a una questione sulla quale la Corte ha già statuito, quando la risposta a tale questione può essere chiaramente desunta dalla giurisprudenza o quando la risposta alla questione pregiudiziale non dà adito a nessun ragionevole dubbio, la Corte, su proposta del giudice relatore, sentito l’avvocato generale, può statuire in qualsiasi momento con ordinanza motivata”.

 

5.  Sebbene, dunque, l’aver subordinato l’uso della teoria dell’atto chiaro a condizioni molto rigorose, apparentemente persino diaboliche, non possa “eliminare il rischio di veder trasformati molti atti dell’Unione, anche quando siano oscuri, in atti chiari; e molte norme chiare, interpretate in modo... oscuro” è pur vero che “la scelta di ancorare le eccezioni all’obbligo del rinvio ad alcuni criteri oggettivi, seppur non sempre ben definiti, risiede nell’intento, da parte della Corte, di evitare di attribuire ai giudici di ultima istanza un eccessivo margine di discrezionalità in merito alla scelta di attivare lo strumento pregiudiziale” (G. Tesauro, Manuale di diritto dell’Unione europea, a cura di P. De Pasquale, F. Ferraro, II ed., Napoli, 2020, pp. 440 e 441).

Ciò non vuol dire, beninteso, che il sistema predisposto non sia stato immune da attentati e che l’atteggiamento rigoroso a sua protezione non sia andato gradualmente attenuandosi (v., da ultimo, G. Tesauro, La Corte costituzionale e l’art. 111, ult. comma: una preclusione impropria al rinvio pregiudiziale, in federalismi.it, n. 34, 2020, p. 237 ss.). Pur tuttavia, la proposta dell’avvocato generale Bobek non sembra offrire una soluzione definitiva ed innovativa per superare le insidie che il meccanismo ancora nasconde. In verità, sembra piuttosto che si sia voluto dilettare in un complesso esercizio dialettico, la cui portata non risulta però chiara.

Talune perplessità sulla rilettura critica dell’avv. generale Bobek sorgono innanzitutto con riguardo alla distinzione che opera tra carattere soggettivo e carattere oggettivo del “ragionevole dubbio”. Proprio la giurisprudenza appena ricordata ha più volte evidenziato che il dubbio deve essere reale e non meramente soggettivo. Più precisamente, facendo affidamento sulla cautela che si impone al giudice nazionale prima di escludere la sussistenza di validi motivi per il rinvio, la Corte ha voluto espressamente sottrarre la valutazione a mere convinzioni soggettive che finirebbero “con l’estendere sensibilmente l’area della discrezionalità del giudice nazionale e, di conseguenza, con il ridurre ulteriormente la portata dell’obbligo del rinvio imposto ai giudici di ultima istanza dal terzo comma dell’art. 234 CE”, introducendo “in modo del tutto arbitrario, forti elementi di incertezza e di soggettività, e quindi di confusione, nell’applicazione di quella disposizione” (conclusioni dell’avv. gen. Tizzano, del 21 febbraio 2002, alla causa Lyckeskog, C-99/00, punto 63).

Inoltre, l’avvocato generale Bobek propone di cambiare l’enfasi riguardo all’obbligo in parola e di subordinarlo a tre requisiti: “(i) una questione generale di interpretazione del diritto dell’Unione (anziché una questione relativa alla sua applicazione); (ii) su cui esistono oggettivamente più interpretazioni ragionevolmente possibili; (iii) per la quale la risposta non può essere dedotta dalla giurisprudenza esistente della Corte (o riguardo alla quale il giudice del rinvio intende discostarsi da tale giurisprudenza)” (punto 134). Con riguardo al primo dei criteri, l’avvocato precisa poi che l’obbligo di rinvio pregiudiziale “dovrebbe sorgere ogni qual volta un giudice nazionale di ultima istanza si trovi di fronte ad una questione di interpretazione del diritto dell’Unione, formulata a un livello di astrazione ragionevole e appropriato. Tale livello di astrazione è logicamente definito dalla portata e dallo scopo della norma giuridica di cui trattasi. Nel particolare contesto delle (indeterminate) nozioni giuridiche del diritto dell’Unione, la Corte ha il compito di fornire un’interpretazione di tale nozione” (punto 145).

Questa argomentazione, sia consentito osservare, porta con sé l’elevato rischio di snaturare la collaborazione tra Corte e giudici nazionali, mettendo in discussione i cardini su cui si instaura il dialogo; vale a dire la pendenza dinanzi ai giudici del rinvio di un’effettiva controversia e l’obiettiva necessità dell’intervento della Corte per risolverla. Invero, è ben noto che lo scopo del rinvio pregiudiziale non è quello di ottenere un parere del giudice dell’Unione su questioni generali ed ipotetiche, ma quello di contribuire a risolvere una questione effettiva ed attuale (tra le tante, Corte giust. 24 aprile 2012, C-571/10, Kamberaj, punto 42; 29 gennaio 2013, C-396/16, Radu, punto 22; 12 dicembre 2013, C-361/12, Carratù/Poste Italiane, punto 23; 20 dicembre 2017, C-516/16, Erzeugerorganisation Tiefkühlgemüse, punto 80; 7 marzo 2018, C-494/16, Santoro, punto 21. Sullo stesso punto, in relazione a questioni di validità, v. 10 dicembre 2002, British American Tobacco, C-491/01, punti 34 e 35; 4 maggio 2016, C-477/14, Pillbox, punti 24-26).

La nuova strada appare non agevole anche perché non sembra facile scindere, nei casi concreti, l’interpretazione dalla corretta applicazione del diritto dell’Unione. Ma anche perché, se si volesse riservare l’intervento obbligatorio alle sole questioni che presentano un livello di astrazione “ragionevole e appropriato”, si sottrarrebbero dal controllo indiretto della Corte numerose controversie in cui vengono in rilievo norme nazionali contrastanti con il diritto dell’Unione, lasciando spazio a regole e prassi incompatibili con tale diritto.

Quanto poi al secondo ed al terzo criterio individuati dall’avvocato generale Bobek, essi già fanno parte del bagaglio giurisprudenziale dell’Unione. Infatti, nella sentenza Ferreira Da Silva e Brito, la Corte aveva collegato l’obbligo di rinvio all’esistenza di soluzioni alternative plausibili; mentre nella sentenza CILFIT esso era agganciato all’assenza di una giurisprudenza preesistente.

Altrettanto scontata appare pure la precisazione secondo cui un giudice nazionale le cui decisioni non siano ulteriormente soggette a ricorso giurisdizionale è tenuto a rivolgersi alla Corte allorché intenda discostarsi da un’interpretazione di diritto dell’Unione fornita dalla giurisprudenza pregressa oppure allorché si trovi in presenza di divergenze giurisprudenziali in ambito nazionale. A tal riguardo, va appena richiamato il rigore della giurisprudenza CILFIT sull’evidenza dell’esistenza di un dubbio ragionevole.

Appare, invece, condivisibile il suggerimento di imporre un obbligo di motivazione in capo al giudice del rinvio più preciso e puntuale. Infatti, quantunque già previsto (sentenza Association France Nature Environnement), un’interpretazione più severa di tale obbligo impedirebbe al giudice nazionale di abdicarvi facilmente, affermando che “tutto è chiaro e al di là di ogni ragionevole dubbio”, e nascondendo “sotto il tappeto” le sue incertezze (punto 170 delle conclusioni). Come sostiene l’avvocato generale la motivazione dovrebbe spiegare adeguatamente quale eccezione sia applicabile alla causa e per quale motivo (ivi, punti 167 e 168).

 

6.  Alla luce di queste brevi osservazioni si potrebbe dunque rispondere all’avvocato generale che i criteri CILFIT non andrebbero metaforicamente rappresentati come un “can che dorme” (v. punto 2 delle conclusioni) quanto piuttosto come un “cane da guardia” di un sistema che finora ha garantito la certezza e l’uniforma applicazione del diritto dell’Unione in 28 Stati membri (oggi 27).

Si ritiene invero che il margine di discrezionalità lasciato al giudice di ultima istanza sia già sufficientemente ampio e che sia rischioso estenderlo ad libitum, con la sola eccezione delle questioni che pongono un problema di interpretazione generale. Sembra cioè paradossale che l’avvocato generale suggerisca di sostituire (almeno parzialmente) gli attuali parametri con elementi di maggiore incertezza e ambiguità e “di passare da una linea interpretativa ancorata a criteri di valutazione per quanto possibile obiettivi ad un’altra che lasci comunque spazio ad apprezzamenti subiettivi, per non dire arbitrari, da parte dei giudici nazionali” (v. conclusioni Lyckeskog, cit., punto 65).

D’altronde, se è vero che si è registrato, soprattutto negli ultimi anni, un costante incremento dei rinvii da parte delle giurisdizioni di ultima istanza, è pur vero che si tratta ancora di un numero molto ridotto rispetto a quelli provenienti da altri giudici. E, in ogni caso, la soluzione all’aumento dei rinvii non può essere trovata a danno della coerenza del diritto dell’Unione, della sua stessa interpretazione ed applicazione uniforme.

Non va sottovalutata però la tendenza delle giurisdizioni di ultima istanza a non assecondare le richieste di rinvio e ad agire in piena autonomia; tendenza aggravata dall’assenza di uno “specifico mezzo di ricorso di diritto dell’Unione, esperibile dalle parti, del quale esse potrebbero avvalersi se ritenessero violato il loro diritto di far sottoporre una questione alla Corte ai sensi dell’articolo 267, terzo comma, TFUE” (punto 112 delle conclusioni).

Tale problema costituisce un vero e proprio vulnus nella tutela dei diritti del soggetto leso da un omesso rinvio pregiudiziale. Tanto grave ed antico da essere affrontato già nel Progetto Spinelli che, all’art. 43, proponeva l’introduzione di un ricorso “in cassazione dinanzi alla Corte [di giustizia] contro le decisioni giudiziarie nazionali rese in ultima istanza che rifiutino di rivolgere a essa una domanda pregiudiziale o non rispettino una sentenza pregiudiziale pronunciata dalla Corte” (Progetto di Trattato che istituisce l’Unione europea, 14 febbraio 1984, in GUCE 19 marzo 1984).

Nondimeno una soluzione non è stata ancora trovata. Infatti, sebbene attualmente la violazione di tale obbligo possa dar luogo ad un ricorso per infrazione, al riesame o alla revisione di una decisione amministrativa definitiva o di una sentenza passata in giudicato, ad un’azione di risarcimento del danno e ad un ricorso alla CEDU, la giurisprudenza – anche della Corte EDU – si è dimostrata molto scettica sull’utilizzo di tali strumenti, soprattutto per il loro carattere eccezionale (con riferimento all’azione di danni, v. Corte giust. 30 settembre 2003, C-224/01, Köbler; 13 gennaio 2004, C-453/00, Kühne; 12 febbraio 2008, C-2/06, Kempter; in dottrina, per tutti, F. Ferraro, La responsabilità risarcitoria degli Stati per violazione del diritto dell’Unione, Milano, 2012. In relazione al ricorso per inadempimento, v. Corte giust. 4 ottobre 2018, C-416/17, Commissione/Francia).

Di talché, individuare un rimedio per il singolo al mero rifiuto del giudice di ultima istanza di operare il rinvio pregiudiziale, quando non sia accompagnato dalla contrarietà della successiva decisione giurisdizionale ad una norma di diritto dell’Unione, appare sì problematico ma necessario, pena il venir meno della ragion d’essere del procedimento di controllo giurisdizionale condiviso in funzione della massima tutela dei diritti dei singoli.