Il Diritto dell'Unione EuropeaEISSN 2465-2474 / ISSN 1125-8551
G. Giappichelli Editore

30/06/2017 - La scadenza del termine di recepimento della direttiva 2014/41/UE sull'ordine europeo di indagine penale e la so-stituzione delle "disposizioni corrispondenti" della conven-zione di assistenza giudiziaria fra gli Stati membri del 2000: spunti per la ricostruzione di un quadro normativo complesso

argomento: Osservatorio - Unione Europea

Articoli Correlati: direttiva 2014/41/UE

di STEFANO MONTALDO

1. L'entrata in vigore del Trattato di Lisbona ha segnato l'avvio di una proficua stagione normativa nel campo della cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale nell'Unione europea (idealmente, tale stagione costituisce la prosecuzione della scansione cronologica delineata in dottrina: V. Mitsilegas, The third wave of third pillar measures. Which directions for EU criminal justice?, in European Law Review, 2009, p. 523 ss.). Da un lato, il rinnovato slancio programmatico verso il progressivo consolidamento dello spazio penale europeo ha sollecitato l'adozione di norme comuni in relazione a istituti in precedenza esenti dall'influenza del diritto UE (si pensi alle direttive approvate sulla base del piano di azione della Commissione europea in tema di diritti processuali). Dall'altro lato, la regolamentazione del passaggio dal periodo transitorio quinquennale alla piena operatività del nuovo regime primario ha ulteriormente alimentato gli sforzi profusi dal legislatore europeo. Ai sensi dell'art. 9 del Protocollo n. 36 sulle disposizione transitorie, infatti, gli atti adottati prima della riforma dei Trattati, ivi comprese le convenzioni concluse tra Stati membri, conservano in linea di principio loro effetti originari e la conseguente impossibilità di esercitare effetti diretti. Ciò comporta altresì, ex articolo 10, par. 1, del medesimo Protocollo, la conferma dei limiti alla giurisdizione della Corte e la preclusione all'instaurazione di una procedura di infrazione da parte della Commissione europea. Nondimeno, gli articoli in questione prevedono l'abbandono dei lacci di matrice intergovernativa, in favore della comunitarizzazione della materia, laddove intervengano la modifica, l'abrogazione o l'annullamento di tali atti (per una analisi più dettagliata del periodo transitorio e delle sue implicazioni odierne v. C. Amalfitano, Scaduto il regime transitorio per gli atti del terzo pilastro. Da oggi in vigore il sistema "ordinario" di tutela giurisdizionale della Corte di giustizia, in www.rivista.eurojus.it, 1° dicembre 2014). Le istituzioni europee non hanno mancato di valorizzare questa possibilità: come confermato dalla dichiarazione n. 50 relativa al Protocollo 36, il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione si sono impegnati a riformare o sostituire, nella misura del possibile, le fonti dell'ex terzo pilastro, così da garantire la coerenza sistematica della cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale.

L'adozione della direttiva 2014/41/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 3 aprile 2014, relativa all'ordine europeo di indagine penale, deve essere inquadrata in questa duplice ottica. La direttiva, infatti, come si vedrà nel prosieguo dell'analisi, ha al contempo sostituito e modificato fonti preesistenti e progredito nella disciplina del compimento di atti di indagine transfrontalieri e della acquisizione e circolazione delle prove tra gli Stati membri.

2. La definizione di forme e meccanismi di cooperazione in ambito probatorio è coessenziale al rafforzamento della fiducia reciproca fra autorità nazionali ed alla piena applicazione del reciproco riconoscimento in materia penale (ex multis, R. Belfiore, The European Investigation Order in criminal matters: Developments in evidence gathering across the EU, in European Criminal Law Review, 2015, p. 312 ss.). La programmazione pluriennale che tradizionalmente caratterizza lo sviluppo dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia ha invero mantenuto nel tempo questo specifico settore fra le priorità dell'azione normativa europea. Ne è derivata una lunga serie di interventi normativi di multiforme natura e portata, destinati a disciplinare singoli profili del regime transfrontaliero delle prove penali. Fra i principali, occorre ricordare la convenzione di applicazione dell'accordo di Schengen (convenzione di applicazione dell'accordo di Schengen del 14 giugno 1985 relativo all'eliminazione graduale dei controlli alle frontiere comuni), la convenzione sull'assistenza penale giudiziaria fra gli Stati membri dell'Unione europea ed il relativo protocollo (Convenzione adottata con atto del Consiglio del 29 maggio 2000, conformemente all'art. 34, par. 2, lett. d), TUE, entrata in vigore il 23 agosto 2005), la decisione quadro sui provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro probatorio (decisione quadro n. 2003/577/GAI del Consiglio del 22 luglio 2003 relativa all'esecuzione nell'Unione europea dei provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro probatorio) e la decisione quadro riguardante il mandato europeo di ricerca delle prove (decisione quadro n. 2008/978/GAI del Consiglio del 18 dicembre 2008, relativa al mandato di ricerca delle prove diretto all'acquisizione di oggetti, documenti e dati da analizzare nel procedimento penale). Merita menzionare altresì la convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale del Consiglio d'Europa del 20 aprile 1959, che, unitamente ai suoi due protocolli addizionali, costituisce la matrice primigenia delle norme UE nell'ambito in esame.

Il susseguirsi di parziali riforme ed integrazioni ha dunque condotto, nel corso degli anni, ad uno scenario normativo particolarmente complesso. E' stato peraltro rilevato come, dal punto di vista funzionale, questa stratificazione non abbia causato "particolari vischiosità o patologiche durate delle procedure" (cfr. la relazione dell'ufficio legislativo del Ministero della Giustizia al progetto di decreto legislativo di attuazione della direttiva 2014/41/UE nell'ordinamento italiano, p. 3). Al contempo, un'eccessiva frammentazione normativa può innegabilmente costituire un ostacolo alla velocizzazione della cooperazione giudiziaria, tanto da inficiarne l'effettività o, quanto meno, da rappresentare un disincentivo al ricorso a tali istituti. I dati riguardanti i flussi di richieste di assistenza giudiziaria rivelano infatti il costante incremento, nel tempo, dell'utilizzo di tali meccanismi di cooperazione, sicché la semplificazione delle relative procedure potrebbe consolidare ed ulteriormente rafforzare tale tendenza (cfr. la relazione dell'ufficio legislativo del Ministero della Giustizia al progetto di decreto legislativo di attuazione della direttiva 2014/41/UE nell'ordinamento italiano, pp. 2-3).

Questa criticità è stata rilevata dal Consiglio europeo stesso, nel programma di Stoccolma del 2009. In tale sede, i Capi di Stato o di Governo hanno auspicato una complessiva revisione della materia, capace di valorizzare il reciproco riconoscimento, senza rinunciare in toto alla flessibilità tipica del sistema tradizionale di assistenza giudiziaria.

In risposta a questa esigenza, la direttiva 2014/41/UE si presenta come uno strumento di portata orizzontale, che può dunque trovare applicazione in rapporto a qualsiasi atto di indagine di cui si imponga il compimento nel territorio dello Stato membro di esecuzione, con alcune limitate eccezioni (come si vedrà, sono ad esempio espressamente escluse dall'ambito operativo della direttiva le attività svolte nell'ambito delle squadre investigative comuni, in relazione alle quali occorre fare riferimento alla decisione quadro 2002/465/GAI). Il nuovo strumento normativo delinea quindi un modello di cooperazione improntato a rapidità e tendenziale automaticità. Come tutti gli atti UE che attuano il reciproco riconoscimento alle decisioni giurisdizionali penali, le procedure disciplinate dalla direttiva prescindono dal preventivo vaglio politico al quale sono tradizionalmente affidate le sorti dell'assistenza giudiziaria classica. Operando in spirito di mutua confidenza, le autorità giudiziarie sono chiamate a consultarsi allo scopo di assicurare che l'esecuzione dell'ordine di indagine avvenga nel più breve tempo possibile, nel rispetto dei diritti dei soggetti coinvolti. Inoltre, l'esecuzione dell'ordine può essere negata solo in presenza di uno dei motivi di rifiuto (facoltativi) tassativamente predeterminati dalla direttiva (art. 11). Merita segnalare al riguardo come, a differenza di altre direttive e decisioni quadro, l'atto in esame annoveri fra le cause ostative il carattere sproporzionato dell'attività probatoria, misurato alla luce della gravità dei fatti per i quali si procede, delle possibili risultanze d'indagine e dell'eventuale restrizione dei diritti dell'indagato (sul punto, L. Marin, Effective and legitimate? Learning from the lessons of 10 years of practice with the European Arrest Warrant, in New Journal of European Criminal Law, 2014, p. 327 ss.).

A prima vista, in definitiva, l'atto in considerazione fornisce una risposta efficace alle istanze di semplificazione del quadro normativo e di flessibilità delle procedure di cooperazione poc'anzi ricordate. Cionondimeno, una più attenta lettura di insieme rivela non secondari elementi di complessità, in massima parte derivanti da tre fattori. Anzitutto, la direttiva e le fonti ad essa preesistenti hanno un campo di applicazione soggettivo differente, seppur limitatamente ad un novero ristretto di Stati. Questa circostanza determina una variegata modulazione degli obblighi incombenti agli Stati membri e ad alcuni Stati terzi, ai quali trovano applicazione ora la direttiva, ora la convenzione di assistenza giudiziaria del 2000, ora la convenzione del Consiglio d'Europa del 1959. Inoltre, l'assenza di un periodo transitorio tra la scadenza del termine di recepimento e la piena operatività del nuovo regime comporta l'esigenza di definire la normativa applicabile dalle autorità degli Stati che non abbiano tempestivamente adottato atti di trasposizione o che si siano resi protagonisti di un'attività di recepimento di scarsa qualità. Infine, la disciplina dell'ordine di indagine non è del tutto sovrapponibile al disposto delle fonti preesistenti. Alcune di esse, pertanto, conservano inalterati i propri effetti, perpetuando - benché, come si vedrà, in relazione a profili secondari - una stratificazione normativa che si auspicava superata. Merita dunque analizzare tali elementi di complessità, allo scopo di definire, pur con la sintesi imposta dalla natura del presente contributo, un quadro dell'assetto normativo che si profila per l'immediato avvenire.

 

3. Sotto il profilo soggettivo, è anzitutto esclusa dal novero dei destinatari della direttiva 2014/41/UE la Danimarca. Tale Stato membro, infatti, in virtù del Protocollo n. 22, gode di un opt-out generale in ordine alle misure di cooperazione in materia penale adottate dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona (artt. 1 e 3 del Protocollo n. 22). L'Irlanda ha a sua volta scelto di non partecipare all'adozione della direttiva, in forza dell'art. 4 bis del Protocollo n. 21, che disciplina la sua posizione rispetto allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Sempre alla luce del Protocollo n. 21, il Regno Unito ha invece maturato la scelta opposta, sebbene tale opzione sia in tutta evidenza minata dall'avvio della procedura ex art. 50 TUE per il recesso dall'Unione (sul tema degli opt-out v. S. Montaldo, L'integrazione differenziata e la cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale nell'UE: il caso degli opt-out di Regno Unito, Irlanda e Danimarca, in www.lalegislazionepenale.eu, febbraio 2016).

L'esercizio della facoltà di opting-out da parte dell'Irlanda appare particolarmente problematico. Ad oggi, infatti, a seguito della recentissima ratifica italiana, Grecia, Croazia e, appunto, Irlanda sono gli unici Stati membri a non aver ancora ratificato la convenzione sull'assistenza giudiziaria del 2000 (v. d.lgs. 5 aprile 2017, n. 52, attuazione della convenzione relativa all'assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell'Unione europea del 29 maggio 2000, adottato dal Consiglio dei Ministri in esecuzione della delega contenuta nella legge 21 luglio 2016 n. 149). Di conseguenza, le relazioni con le autorità giudiziarie e politiche di tale Stato nella materia in esame trovano fondamento nella convenzione di assistenza giudiziaria del Consiglio d'Europa del 1959 e nei relativi protocolli.

Al contempo, mentre Irlanda e Danimarca sono vincolate alla menzionata decisione quadro 2003/577/GAI in tema di blocco dei beni e sequestro probatorio, il Regno Unito ne è esentato (al mese di giugno 2017, la decisione quadro risulta recepita in tutti gli Stati membri, ad eccezione di Grecia e Lussemburgo; il recepimento nell'ordinamento italiano è invece intervenuto, benché con sensibile ritardo, grazie al d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 35). Esso, infatti, dopo aver invocato il block opt-out previsto dal Protocollo n. 36 in relazione alle misure di cooperazione giudiziaria e di polizia adottate prima della riforma di Lisbona, non ha incluso questa decisione quadro nella lista di 35 atti per i quali ha esercitato il back opt-in (S. Montaldo, Scadenza del regime transitorio per gli atti del terzo pilastro: il block opt-out del Regno Unito ed il successivo opt-in per 35 misure, in www.rivista.eurojus.it, 1° dicembre 2014). Lo stesso si dica per la decisione quadro 2008/978/GAI riguardante il mandato europeo di ricerca delle prove (decisione n. 2014/858/UE della Commissione europea del 1° dicembre 2014 sulla notifica, da parte del Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord, dell'intenzione di partecipare ad atti dell'Unione nel campo della cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale  adottati prima dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona e non facenti parte dell'acquis di Schengen; decisione n. 2014/857/UE del Consiglio del 1° Dicembre 2014 riguardante la notifica, da parte del Regno Unito di Gran Bretagna ed Irlanda del Nord, dell'intenzione di partecipare a certi atti dell'Unione nel settore della cooperazione di polizia adottati prima dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona e che non fanno parte dell'acquis di Schengen). L'attuazione di quest'ultima decisione quadro, peraltro, si caratterizza per diffusi ritardi a livello nazionale, ad ulteriore testimonianza di un contesto normativo di difficile ricostruzione (al mese di maggio 2017, non avevano recepito questa decisione quadro Austria, Bulgaria, Cipro, Germania, Grecia, Ungheria, Irlanda, Italia, Lettonia, Malta, Polonia, Romania, Slovacchia e Svezia)

Occorre infine sottolineare come l'ambito di applicazione della convenzione sull'assistenza giudiziaria fra gli Stati membri dell'UE sia stato esteso anche a Norvegia e Islanda, mediante un accordo siglato il 19 dicembre 2003 ed entrato in vigore il 1° gennaio 2013 (decisione n. 2004/79/CE del Consiglio del 17 dicembre 2003, relativa alla firma, e decisione n. 2012/305/UE del Consiglio del 7 giugno 2012, relativa alla conclusione dell'accordo tra l'Unione europea e la Repubblica d'Islanda e il Regno di Norvegia sull'applicazione di talune disposizioni della convenzione del 29 maggio 2000 riguardante l'assistenza giudiziaria in materia penale, tra gli Stati membri dell'Unione europea e del relativo protocollo del 2001). La partecipazione di questi due Stati terzi è tuttavia espressamente limitata ad alcune disposizioni della convenzione, poiché altre previsioni – segnatamente gli artt. 3, 5, 6, 7, 12 e 23 – incidono sull'accordo di associazione all'attuazione, applicazione e sviluppo dell'accordo di Schengen. In rapporto a Islanda e Norvegia, l'art. 34 della direttiva 2014/41/UE fa salva l'applicazione delle rilevanti disposizioni della convenzione del 2000, nonostante quest'ultima sia in ampia misura sostituita dalla disciplina sull'ordine europeo di indagine penale.

Il complesso di norme preesistente conserva dunque inalterata la propria rilevanza, ora con riferimento ad Islanda e Norvegia, ora in relazione agli Stati membri che hanno modellato la propria partecipazione alla luce delle facoltà di opt-out ed opt-in o che hanno mancato di attuare la normativa UE nel loro ordinamento.

 

4. La direttiva 2014/41/EU, all'art. 36, ha fissato alla data del 22 maggio 2017 il termine per l'adozione di norme di recepimento negli ordinamenti nazionali. Tale scadenza coincide in linea di principio con la compiuta messa a regime della disciplina dell'ordine europeo di indagine penale. L'art. 35 delinea infatti una netta cesura tra le richieste di assistenza giudiziaria inoltrate prima del 22 maggio 2017 e quelle ricevute in data successiva. Le une devono essere disciplinate dagli strumenti vigenti sino a quel momento, mentre le altre dovrebbero già essere condotte in base al quadro normativo riformato. Sempre a decorrere dalla scadenza del termine di recepimento, inoltre, le disposizioni della direttiva in toto o in parte sostituiscono gli atti preesistenti.

Questa impostazione, assai frequente nella prassi del legislatore europeo, appare idonea a regolare con linearità la successione di norme nel tempo. Nondimeno, le patologie dell'attività di recepimento sono altrettanto ricorrenti e coinvolgono non di rado un novero significativo di Stati membri, a fortiori in un settore come quello in esame, in cui le resistenze al diritto dell'Unione persistono con particolare vigore. Nel caso della direttiva in esame, ad esempio, i dati raccolti dalla rete giudiziaria europea evidenziano diffusi ritardi: sebbene in molti Stati membri l'iter verso l'adozione di norme interne di trasposizione sia stato avviato da tempo, al 13 di giugno solamente Francia, Germania, Belgio, Lettonia ed Ungheria avevano perfezionato il recepimento (cfr. i dati della rete giudiziaria europea: www.ejn-crimjust.europa.eu).

Nel contesto italiano, il Parlamento, mediante la legge di delegazione europea 2014, ha investito il Governo del compito di adottare la normativa di trasposizione (legge 9 luglio 2015, n. 114, delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l'attuazione di altri atti dell'Unione europea - Legge di delegazione europea 2014, art. 1 ed allegato B, n. 23). Il 17 maggio il Consiglio dei Ministri ha licenziato lo schema di decreto legislativo e, nelle settimane successive, ha ottenuto il parere sostanzialmente favorevole delle Camere. Poiché la delega scadrà a breve, si preannuncia - ed auspica - un'approvazione imminente, con conseguente contenimento entro limiti ragionevoli del ritardo rispetto al termine di attuazione imposto dalla direttiva (La scadenza della delega, fissata di regola dalla legge n. 234 del 2012 entro due mesi dal termine di recepimento indicato nell'atto UE - nel caso di specie, dunque, 22 marzo 2017 - è stata estesa di tre mesi ulteriori, sino al 22 giugno 2017, in forza dell'art. 31, comma 3, della legge di delegazione europea 2014).

La mancata o inadeguata trasposizione in sede nazionale può comportare difficoltà operative di non secondario momento. Occorre invero individuare la disciplina applicabile, scongiurando allo stesso tempo la balcanizzazione di un complesso normativo già intrinsecamente e fortemente frammentato. Sul punto, il testo della direttiva non offre indicazioni dirimenti. Sarebbe d'altra parte anacronistico per il legislatore predeterminare nel testo della direttiva le soluzioni ad eventuali inadempimenti a livello statale. Ciò sia per l'opportunità di scongiurare un (seppur indiretto) riconoscimento di siffatte situazioni, sia perché la complessa stratificazione di atti UE e la parcellizzazione degli ordinamenti processuali nazionali richiederebbero approcci differenziati da Stato a Stato, anche in ossequio al margine di discrezionalità connaturato alla struttura stessa delle direttive.

Occorre dunque fare riferimento alla disciplina delle direttive ed ai principi generali del diritto dell'Unione, così come modellati dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Sebbene in via ordinaria l'entrata in vigore delle direttive segua alla pubblicazione in Gazzetta ufficiale ed alla vacatio legis, l'apposizione di un termine perentorio di recepimento dilaziona nel tempo la piena esplicazione degli effetti di questi atti. L'entrata in vigore determina principalmente l'insorgenza dell'obbligo di trasposizione in capo allo Stato, unitamente al dovere di stand-still (sentenza 18 dicembre 1997, causa C-129/96, Inter-Environnement Wallonie). L'attuazione a livello nazionale, anche ove anticipata rispetto al termine di recepimento, è invece coessenziale all'operatività della disciplina introdotta dalla direttiva. Anche per questa ragione, in effetti, il tempestivo rispetto dell'obbligo di trasposizione è presidiato con particolare rigore. Parimenti, come noto, l'infruttuoso decorso del termine di attuazione determina la possibilità di ricorrere all'interpretazione conforme o di intraprendere la più tortuosa strada dell'efficacia diretta, al fine di rimediare, seppur spesso solo parzialmente, a tale situazione patologica.

Questa impostazione non può che regolare anche il funzionamento delle direttive che riformano atti previgenti e rispetto alle quali occorre dunque definire il momento in cui l'evoluzione normativa ha compimento. In simili situazioni, pertanto, la data che la direttiva di riforma individua in via astratta ai fini della successione di norme nel tempo deve necessariamente superare la "prova del nove" della trasposizione in sede nazionale. Nel caso in esame, in definitiva, la sostituzione degli atti previgenti fissata dalla direttiva 2014/41/UE non opera per quegli Stati membri che non abbiano tempestivamente adottato norme interne di recepimento. Si pone dunque l'esigenza di comprendere quale regime debba trovare applicazione, nell'attesa che il processo di trasposizione si perfezioni.

Il principale interrogativo verte sulla possibilità che la convenzione di assistenza giudiziaria fra gli Stati membri del 2000 continui ad operare in toto. Sul punto, l'art. 34 della direttiva, con una formula molto frequente negli atti adottati nel settore della cooperazione in materia penale, fa salva l'applicazione dei soli accordi preesistenti o conclusi ex novo che "consentano di rafforzare ulteriormente gli obiettivi della presente direttiva e contribuiscano a semplificare o agevolare ulteriormente le procedure di acquisizione delle prove". La convenzione di assistenza giudiziaria tra gli Stati membri, tuttavia, non può rientrare nella nozione di accordo preesistente ai fini di tale previsione. La Corte di giustizia, infatti, ha già escluso in passato che accordi che un intervento normativo intende sostituire siano considerati idonei a migliorare e velocizzare la cooperazione fra autorità nazionali (sentenza 12 agosto 2008, causa C-296/08 PPU, Goicoechea, punti 55 e 56). La clausola in questione, dunque, non opera nella fase di transizione tra i due regimi normativi, bensì è volta a chiarire la sorte degli accordi nuovi o preesistenti a seguito del recepimento dell'atto di riforma (sentenza Goicoechea, punto 59). Ciò si desume anche dal fatto che gli Stati membri sono tenuti a notificare alla Commissione europea, usualmente entro il termine di trasposizione, gli accordi dei quali vogliano protrarre l'applicazione (nel caso della direttiva 2014/41/UE, cfr. art. 34, par. 4). La convenzione di assistenza giudiziaria o altri atti analoghi costituiscono parte integrante dell'acquis dell'Unione europea, di talché un simile adempimento non avrebbe fondamento logico, prima ancora che giuridico (conclusioni dell'avvocato generale Kokott del 6 agosto 2008, causa C-296/08, Goicoechea, punto 77).

Questa argomentazione, a prima vista, porterebbe a precludere l'operatività della convenzione. Nondimeno, una simile soluzione sarebbe irragionevole, in quanto apertamente contraria agli obiettivi di rafforzamento e semplificazione della cooperazione giudiziaria sottesi alla direttiva sull'ordine di indagine (cfr. i considerando 6-8). Essa determinerebbe un vuoto normativo solo parzialmente colmato dalla convenzione di assistenza giudiziaria del Consiglio d'Europa del 1959 e porterebbe, quanto meno, ad un pur temporaneo stallo della cooperazione in materia di atti di indagine (sentenza Goicoechea, punto 65).

Si deve dunque ritenere, in primo luogo, che la convenzione del 2000 possa trovare applicazione in rapporto alle richieste di assistenza che coinvolgano uno o più Stati inadempienti all'obbligo di recepire la direttiva 2014/41/UE (in senso analogo, mutatis mutandis, v. la comunicazione della Commissione COM(2014) 57 def. del 16 aprile 2014, relazione sull'attuazione da parte degli Stati membri delle decisioni quadro 2008/909/GAI, 2008/947/GAI e 2009/829/GAI, nella quale la Commissione ha evidenziato l'esigenza di applicare le convenzioni formalmente sostituite da tali decisioni quadro per i molti Stati ancora inadempienti). In secondo luogo, gli Stati in questione risultano comunque gravati dall'obbligo di orientare progressivamente il loro ordinamento verso un modello di cooperazione giudiziaria più efficiente, in particolare attraverso l'interpretazione del diritto nazionale in senso conforme alla direttiva non trasposta, ove questa operazione ermeneutica sia utilmente e legittimamente praticabile.

 

5. Occorre peraltro verificare se l'eventuale portata retroattiva della normativa di recepimento possa sopperire ex post all'incoerenza sistematica causata dalla mancata trasposizione. Da questo punto di vista, la giurisprudenza ha talora riconosciuto che, in caso di tardiva adozione di provvedimenti di attuazione, l'entrata in vigore simultanea della direttiva in tutti gli Stati membri possa essere assicurata dalla retroattività della normativa interna (sentenza 8 marzo 1988, causa 80/87, Dik, punto 13). Tale eventualità appare persino auspicabile laddove la direttiva in questione garantisca un diritto per l'individuo: in questa circostanza, le autorità nazionali dovrebbero adoperarsi affinché tali posizioni giuridiche siano tutelate sin dalla scadenza del termine di attuazione (sentenza 24 febbraio 1994, causa C-343/92, Roks). In questa prospettiva, l'applicazione ex tunc della disciplina nazionale è stata altresì ritenuta idonea a porre rimedio alle conseguenze negative dell'inadempimento, ad esempio ai fini della tutela risarcitoria (sentenza 10 luglio 1997, cause riunite C-94/95 e C-95/95, Bonifaci; nelle conclusioni, ai punti 56-59, l'avvocato generale Cosmas aveva ritenuto che la retroattività della normativa interna di recepimento assurgesse al rango di obbligo in capo allo Stato in principio inadempiente).

Allo stesso tempo, questo argomento incontra due criticità fondamentali. Anzitutto, i principi di legalità e certezza del diritto impongono di limitare ad ipotesi eccezionali i casi di operatività retroattiva di disposizioni di legge. Il diritto dell'Unione non può certamente imporre agli Stati membri l'obbligo di adottare misure che contrastino con tali principi generali, a meno che ciò non sia giustificato da uno specifico beneficio in capo agli individui coinvolti. Inoltre, nella prassi, alle norme di recepimento è raramente riconosciuta natura retroattiva e la Commissione stessa di rado avvia o prosegue procedure di infrazione avverso Stati che, a seguito di recepimento tardivo, non la prevedano (S. Prechal, Directives in EC Law, Oxford, 2005, pp. 23-28).

D'altra parte, nel caso in esame, la natura processuale delle disposizioni della direttiva sull'ordine europeo di indagine penale consente di richiamare il principio tempus regit actum, riconosciuto anche da consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenza 9 marzo 2006, causa C-293/04, Beemsterboer Coldstore Services, punto 21 e, con riferimento alla cooperazione giudiziaria in materia penale, sentenza 28 giugno 2007, causa C-467/05, Dell'Orto, punto 48). In forza di tale principio, il nuovo regime dovrebbe trovare applicazione nell'ambito dei procedimenti penali avviati prima dell'entrata in vigore della normativa interna di attuazione. Il passaggio al nuovo regime potrebbe risultare difficilmente praticabile in relazione alle richieste di assistenza già in atto, a motivo delle differenze strutturali fra i due meccanismi. In tali ipotesi, sarà compito delle autorità nazionali coinvolte avviare approfondite consultazioni, sollecitate a più riprese dalla direttiva, al fine di decidere, alla luce delle peculiarità di ciascun caso, se concordare il passaggio al nuovo regime o completare la procedura secondo gli schemi della convenzione del 2000.

 

6. Un ultimo profilo che occorre considerare riguarda la composizione del quadro normativo che si assesterà allorquando tutti gli Stati membri avranno completato l'iter di recepimento della direttiva sull'ordine europeo di indagine penale.

Nella prassi, la successione di norme di pari rango nell'ordinamento UE segue percorsi alquanto variegati, a seconda della natura e degli effetti degli atti considerati, nonché della portata sostanziale dell'intervento riformatore. Si evidenzia così il ricorso a tecniche che spaziano dalla modifica mediante emendamenti incorporati nel testo originario - il quale verrà aggiornato attraverso la predisposizione di una versione consolidata - all'abrogazione tout court (v. ad esempio la decisione quadro n. 2002/584/GAI del Consiglio del 13 giugno 2002, relativa al mandato d'arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, che è stata emendata dalla decisione quadro n. 2009/299/GAI del Consiglio del 26 febbraio 2009, che modifica le decisioni quadro 2002/584/GAI, 2005/214/GAI, 2006/783/GAI, 2008/909/GAI e 2008/947/GAI, rafforzando i diritti processuali delle persone e promuovendo l’applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle decisioni pronunciate in assenza dell’interessato al processo).

Al netto di questi due poli, si verificano situazioni di maggiore complessità, nelle quali uno o più atti previgenti sono oggetto di modifiche o integrazioni parziali. Operando un tentativo di sistematizzazione di questa casistica, limitatamente agli atti adottati nell'ambito della cooperazione in materia penale, è possibile individuare alcune modalità ricorrenti. Non mancano anzitutto situazioni in cui l'incidenza sull'acquis dell'Unione è espressamente esclusa, poiché l'atto introduce un nuovo istituto complementare al quadro normativo vigente, con il quale va coordinato (cfr. la direttiva n. 2011/99/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 dicembre 2011, sull'ordine protezione europeo, art. 20; v. altresì la decisione n. 2007/845/GAI del Consiglio del 6 dicembre 2007, concernente la cooperazione tra gli uffici degli Stati membri per il recupero dei beni nel settore del reperimento e dell’identificazione dei proventi di reato o altri beni connessi, art. 7). Talora, al contrario, un atto sostituisce in toto la disciplina previgente, senza però abrogarla, in quanto la geometria variabile della partecipazione allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia può richiedere che essa conservi i propri effetti, limitatamente agli Stati che abbiano esercitato un opt-out (v. da ultimo la direttiva n. 2017/541/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 marzo 2017, sulla lotta contro il terrorismo e che sostituisce la decisione quadro 2002/475/GAI del Consiglio e che modifica la decisione 2005/671/GAI del Consiglio). La successione di norme può anche perfezionarsi in un momento futuro indefinito nel quale si verifichi una determinata condizione. Il caso elettivo in materia è la decisione quadro 2002/465/GAI sulle squadre investigative comuni: ai sensi dell'art. 5, essa cesserà di esercitare i propri effetti dal momento in cui la convenzione di assistenza giudiziaria del 2000 entrerà in vigore in tutti gli Stati membri (decisione quadro n. 2002/465/GAI del Consiglio del 13 giugno 2002, relativa alle squadre investigative comuni). In altri casi, la sostituzione opera rispetto a specifiche disposizioni preesistenti, puntualmente indicate nell'atto di riforma, sempre in relazione ai soli Stati che ne siano vincolati e che, allo stesso tempo, partecipino alla direttiva di nuova adozione (v. ad esempio la decisione quadro 2009/315/GAI del Consiglio del 26 febbraio 2009, relativa all'organizzazione ed al contenuto degli scambi fra gli Stati membri di informazioni estratte dal casellario giudiziale, che sostituisce le disposizioni dell'art. 22 della convenzione di assistenza giudiziaria del 1959, così come completate dall'art. 4 del protocollo addizionale del 1978; v. altresì la decisione quadro 2006/960/GAI del Consiglio, del 18 dicembre 2006, relativa alla semplificazione dello scambio di informazioni e intelligence tra le autorità degli Stati membri dell'Unione europea incaricate dell'applicazione della legge, il cui art. 12 dispone la sostituzione di specifiche previsioni della convenzione di applicazione dell'accordo di Schengen, puntualmente enumerate). La successione, in definitiva, non si risolve in una reductio ad unum, bensì determina l'esigenza di coordinare più atti che, ora sovrapponendosi, ora risultando reciprocamente complementari, disciplinano settori affini di una medesima materia.

Ne consegue un ulteriore fattore di complessità e stratificazione delle norme che disciplinano i meccanismi di cooperazione giudiziaria. Ciò appare ancor più evidente in relazione ad un'ultima tecnica di successione fra norme, la quale accomuna gli atti che sostituiscono "le corrispondenti disposizioni" di altre fonti, senza che tale legame di corrispondenza sia più precisamente dettagliato dal legislatore europeo. Il caso emblematico è rappresentato dalla decisione quadro 2002/584/GAI in tema di mandato d'arresto europeo, il cui art. 31, par. 1, opera un generico riferimento alle corrispondenti disposizioni di alcune convenzioni in materia di estradizione, fra le quali la convenzione del Consiglio d'Europa del 1957 e la convenzione del 1996 relativa all'estradizione fra gli Stati membri. Una formula di tal fatta si ritrova anche all'art. 23, par. 1, della decisione quadro 2008/947/GAI del Consiglio del 27 novembre 2008, relativa all'applicazione del principio del reciproco riconoscimento alle sentenze e alle decisioni di sospensione condizionale in vista della sorveglianza delle misure di sospensione condizionale e delle sanzioni sostitutive, in rapporto alla convenzione del Consiglio d'Europa del 1964 sulla sorveglianza delle persone condannate o liberate con la condizionale. Analogamente, la decisione 2008/615 sul potenziamento della cooperazione transfrontaliera, soprattutto nella lotta al terrorismo e alla criminalità transfrontaliera, stabilisce all'art. 35, par. 1, che "le pertinenti disposizioni della presente decisione prevalgono sulle corrispondenti disposizioni del trattato di Prüm". Questa peculiare tecnica normativa è particolarmente rilevante per la presente analisi, in quanto l'art. 34, par. 1, della direttiva sull'ordine europeo di indagine penale condivide la medesima impostazione, in rapporto alla convenzione di assistenza giudiziaria del Consiglio d'Europa, alla convenzione di assistenza giudiziaria tra gli Stati membri ed alla convenzione di applicazione dell'accordo di Schengen.

Sorge dunque la necessità di comprendere con maggiore chiarezza cosa debba intendersi per disposizione "corrispondente", poiché il significato di tale formula è essenziale allo scopo di definire il contesto normativo modellato dalla direttiva 2014/41/UE. Sul punto, il dato testuale è sostanzialmente coincidente in tutte le principali versioni linguistiche, la cui comparazione non fornisce pertanto utili elementi interpretativi (la versione inglese è "corresponding provisions", sostanzialmente sovrapponibile alla formula francese "dispositions corrispondantes", a quella spagnola "las disposiciones correspondientes" ed a quella tedesca "einschlägigen Bestimmungen").

Al contempo, la portata letterale dell'espressione in esame sembra indirizzare l'interprete verso due principali letture: la corrispondenza formale e la corrispondenza sostanziale. Nel primo caso, la successione fra norme sarebbe limitata alle sole disposizioni le cui formulazioni siano identiche o che, quanto meno, presentino significative analogie. Nella seconda eventualità, sarebbe invece sufficiente che le formulazioni interessate disciplinino in concreto lo stesso istituto, a prescindere dalla sovrapponibilità testuale.

Evidenti ragioni di necessaria flessibilità dell'operato del legislatore e di inevitabile ammodernamento di una disciplina strettamente legata all'utilizzo di tecnologie in costante e rapida evoluzione inducono a propugnare la seconda e più ampia interpretazione. La preferenza per l'approccio sostanziale ha ulteriore riscontro alla luce dell'interpretazione teleologica della formula in parola. Essa risulta infatti maggiormente in linea con la ratio sottesa alla direttiva 2014/41/UE, che mira a semplificare, velocizzare e rafforzare la cooperazione fra autorità nazionali in ambito probatorio. Il conseguimento di una 'ever closer judicial cooperation' sarebbe minato in radice da una lettura formalistica del rapporto tra la direttiva sull'ordine europeo di indagine penale e le convenzioni preesistenti, animate da un'impostazione intergovernativa e sotto molti profili superate dal progresso della tecnologia a fini investigativi.

Pur confidando nelle solide argomentazioni di sistema a supporto di questa impostazione, merita ricercare eventuali riscontri esterni. Come noto, la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, all'art. 52, par. 3, prevede una clausola di equivalenza secondo la quale "i diritti corrispondenti" a quelli garantiti dalla CEDU - protocolli inclusi - devono avere significato e portata uguali a quelli assicurati da tale Convenzione, fatta salva la possibilità di conferire una protezione più estesa. Le implicazioni del richiamo ai "diritti corrispondenti" sono chiarite puntualmente nelle spiegazioni che accompagnano la Carta, le quali, benché prive di valore vincolante, rappresentano un autorevole ed efficace strumento interpretativo.

Sul punto, le spiegazioni propongono anzitutto un dettagliato elenco di disposizioni considerate identiche agli articoli corrispondenti della CEDU. A tale lista segue l'enumerazione delle previsioni della Carta il cui significato è identico al disposto della Convenzione, ma che si caratterizzano per una portata più ampia.

Benché talune disposizioni della Carta siano testualmente in toto sovrapponibili ad articoli della CEDU (v., ad esempio, l'art. 4 della Carta ed all'art. 3 CEDU, sul divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti) o ad una loro specifica disposizione (v., ad esempio, l'art. 6 della Carta, che, nel consacrare il diritto alla libertà ed alla sicurezza, riprende le parole inaugurali dell'art. 5 CEDU), in entrambi gli elenchi non mancano rilevanti esempi di diritti formulati in maniera sensibilmente diversa, ma che ciononostante condividono la sostanza della protezione che mirano ad assicurare (v. l'art. 48 della Carta e l'art. 6, par. 2 e 3, CEDU, in tema di giusto processo, presunzione di innocenza e diritto di difesa).

La stessa Corte di giustizia, allorché chiamata a statuire sul livello di protezione dei diritti sanciti dalla Carta  in raffronto al sistema della Convenzione, ha sino ad oggi operato costanti richiami alle spiegazioni (v. ad esempio la sentenza 9 novembre 2010, cause riunite C-92/09 e C-93/09, Volker e Schecke). In questo contesto, la Corte di Lussemburgo ha usualmente fatto proprie le indicazioni ivi contenute in ordine alla corrispondenza fra disposizioni dei due strumenti, rilevando come l'identità lessicale costituisca un criterio importante - ma non esclusivo - per verificare tale nesso (sentenza 5 ottobre 2010, causa C-400/10, McB).

Le spiegazioni precisano inoltre che la portata ed il significato dei diritti consacrati nella Carta e nella CEDU non possono essere desunti solo dal testo di questi strumenti, poiché occorre prendere in considerazione anche l'elaborazione giurisprudenziale della Corte europea dei diritti umani e della Corte di giustizia dell'UE. In secondo luogo, l'elencazione dei diritti che "possono essere considerati corrispondenti" è anticipata dalla precisazione che si tratta di una lista redatta alla luce dello 'stato dell'arte', sicché non possono essere esclusi futuri cambiamenti di rotta dovuti "[al]l' evoluzione del diritto, della legislazione e dei trattati". Queste puntualizzazioni concorrono a liberare il rapporto di corrispondenza fra disposizioni della Carta e della CEDU dai vincoli di una lettura formalistica, che, ancorando tale nozione al dato testuale, comporterebbe un fatale irrigidimento del sistema di protezione dei diritti fondamentali, a discapito della sua coerenza complessiva e della tensione verso il più elevato grado di tutela configurabile.

7. Se dunque il concetto di "disposizioni corrispondenti" richiede una valutazione sostanziale, nel caso in esame si tratta di selezionare le previsioni della direttiva 2014/41/UE il cui oggetto incida sulle convenzioni preesistenti menzionate all'art. 34. Questa operazione sconta una difficoltà di partenza: se le implicazioni della clausola di equivalenza di cui all'art. 52, par. 3, della Carta sono precisate nelle spiegazioni, l'interprete e l'operatore del diritto non trovano analogo conforto nel contesto della direttiva. Il legislatore europeo non ha infatti corredato la disciplina dell'ordine europeo di indagine penale di notazioni utili in tal senso. Parimenti, simili indicazioni non possono essere chiaramente desunte né dall'iniziativa degli Stati membri che ha dato avvio alla procedura legislativa, né dagli ulteriori atti che hanno caratterizzato le fasi intermedie dell'iter di adozione (v. il documento del Consiglio 18225/1/11 del 9 dicembre 2011, iniziativa del Regno del Belgio, della Repubblica di Bulgaria, della Repubblica di Estonia, del Regno di Spagna, della Repubblica d'Austria, della Repubblica di Slovenia e del Regno di Svezia per una direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa all'ordine europeo di indagine penale).

Considerata la sensibilità della materia e la decisa accelerazione della cooperazione rispetto alle procedure di assistenza giudiziaria, sono state a più riprese sollecitate delucidazioni in materia. In particolare, Eurojust ha evidenziato l'esigenza di scongiurare che il chiarimento della nozione in parola avvenga esclusivamente per via di prassi, poiché ne deriverebbero inevitabili incoerenze e conseguenti ostacoli alla piena ed efficace messa a regime del nuovo impianto normativo (v. ad esempio il parere ripreso nel documento del Consiglio 6814/11 del 4 marzo 2011 o il documento del Consiglio 12393/16 del 2 settembre 2016, recante le conclusioni dell'incontro del forum consultivo dei procuratori generali degli Stati membri).

Tali auspici non sono stati colti, ad oggi, cosicché occorre tentare una sistematizzazione teorica del corpus normativo derivante dall'intreccio fra convenzioni previgenti e direttiva 2014/41/UE. D'altra parte, questa operazione è agevolata dal fatto che rilevanti profili della direttiva sono destinati ad ammodernare la disciplina convenzionale, la quale soffre del mancato aggiornamento ai progressi della tecnologia. Esempi emblematici riguardano la regolamentazione dell'audizione mediante videoconferenza, teleconferenza o altra trasmissione audiovisiva dell'indagato o dell'imputato, del testimone e del perito (artt. 24 e 25 della direttiva/artt. 10 e 11 della convenzione del 2000) e la disciplina delle intercettazioni di telecomunicazioni (artt. 30 e 31 della direttiva/artt. 17-22 della convenzione del 2000. Per più approfondite notazioni sull'evoluzione delle tecnologie investigative e la conseguente esigenza di aggiornare la regolamentazione delle intercettazioni, profilo non considerato ai fini della presente analisi, v. la relazione illustrativa della Camera di Deputati dello schema di decreto legislativo di attuazione della direttiva 2014/41/UE, pp. 12-14).

Analogo rapporto di 'necessaria corrispondenza' interessa le disposizioni della direttiva in tema di tutela della riservatezza dei dati personali (artt. 19 e 20 della direttiva/art. 23 della convenzione del 2000), di responsabilità penale e civile dei funzionari coinvolti (artt. 17 e 18 della direttiva/artt. 15 e 16 della convenzione dl 2000) e di ripartizione degli oneri finanziari tra le autorità nazionali (art. 21 della direttiva, che disciplina in via generale la questione, mentre l'art. 21 della convenzione del 2000 si sofferma sui soli oneri derivanti dalle operazioni di intercettazione di telecomunicazioni).

Si ritengono analogamente assorbite dalla disciplina di riforma le disposizioni della convenzione che regolano presupposti, formalità e funzionamento del meccanismo di assistenza giudiziaria (art. 4: formalità e procedure inerenti alle richieste di assistenza giudiziaria; art. 6: trasmissione di richieste di assistenza giudiziaria). Lo stesso si dica per le norme che delineano l'ambito di applicazione dei due strumenti, che sono peraltro in parte testualmente identiche (art. 4 della direttiva/art. 3 della convenzione del 2000; entrambi gli articoli fanno riferimento ai procedimenti avviati da autorità amministrative, ove la statuizione su tali controversie possa dare luogo ad un procedimento davanti ad un organo giurisdizionale competente in materia penale. Al riguardo, la relazione illustrativa della Camera dei Deputati allo schema di decreto legislativo di attuazione della direttiva, a p. 2, prospetta la possibilità di continuare ad applicare la convenzione del 2000 nei rapporti fra autorità amministrative. Tale elemento ha riscontro nell'art. 2 della direttiva, che circoscrive alle sole autorità di natura penale il novero dei soggetti protagonisti delle procedure di cooperazione).

Per quanto riguarda le forme specifiche di assistenza giudiziaria previste dalla convenzione del 2000, il trasferimento temporaneo a fini di indagine di persone detenute di cui all'art. 9 ha preciso riscontro negli artt. 22 (trasferimento nello Stato di emissione) e 23 (trasferimento nello Stato di esecuzione) della direttiva, mentre le consegne sorvegliate ex art. 12 vengono ora denominate consegne controllate e seguono il regime generale dell'ordine di indagine, fatte salve le disposizioni specifiche e le ulteriori garanzie previste all'art. 28 della direttiva. Anche le operazioni di infiltrazione ex art. 14 della convenzione sono previste dalla direttiva, all'art. 29, che ne sostituisce dunque la disciplina. Parimenti, gli artt. 25 e 26 della direttiva, in materia di informazioni relative ad operazioni e conti bancari e finanziari, incidono sulle previsioni del protocollo addizionale.

Nel genus delle forme specifiche di assistenza giudiziaria annoverate nella convenzione rientrano altresì le squadre investigative comuni, disciplinate all'art. 13. La direttiva esclude espressamente tale istituto dal proprio ambito di applicazione, in quanto al riguardo opera la decisione quadro 2002/465/GAI, strumento cui è attualmente affidata la regolamentazione della materia. Come già ricordato, tuttavia, l'art. 5 della decisione quadro prevede espressamente che l'efficacia di tale strumento verrà meno quando la convenzione di assistenza giudiziaria del 2000 sarà ratificata da tutti gli Stati membri. Occorrerà dunque verificare se, in futuro, la questione sarà oggetto di ulteriore intervento riformatore.

Un caso particolare riguarda poi il combinato disposto degli artt. 8 della convenzione e 12 del protocollo addizionale, sulla restituzione ai legittimi proprietari dei beni ottenuti attraverso reati. La direttiva non dispone alcunché al riguardo, ma il diritto alla restituzione è espressamente sancito all'art. 15 della direttiva 2012/29/UE sui diritti delle vittime di reato. Tuttavia, quest'ultima previsione si limita ad enunciare tale diritto, rimandando in toto la definizione delle modalità necessarie a garantirne l'esercizio agli ordinamenti nazionali. Inoltre, la direttiva 2012/29/UE non prevede alcuna norma di coordinamento con atti preesistenti, se non con la decisione quadro 2001/220/GAI, che essa ha sostituito. L'art. 8 della convenzione è dunque senza dubbio escluso dalle "disposizione corrispondenti" ai sensi della direttiva 2014/41/UE e, considerato il suo specifico ambito operativo, dovrebbe essere ritenuto ancora operativo. Spetta invece alle autorità nazionali definire un quadro normativo interno coerente ed orientato ad assicurare l'effettività del diritto alla restituzione del bene conseguito tramite reato, secondo gli auspici della direttiva del 2012.

Appaiono parimenti esenti da vincolo di corrispondenza gli artt. 5 e 7 della convenzione di assistenza giudiziaria del 2000. Il primo riguarda le notificazioni degli atti del procedimento alle persone che ne sono destinatarie. Questo profilo non è considerato nella direttiva. Peraltro, esso si intreccia con la disciplina introdotta dalla direttiva 2013/13/UE sull'informazione nei procedimenti penali, che, senza prevedere norme di coordinamento con atti preesistenti, stabilisce all'art. 7 il diritto all'accesso alle informazioni relative alle indagini. Si tratta tuttavia di una disposizione circoscritta alle sole persone arrestate o detenute, che lascia nuovamente agli Stati membri l'incombenza di definire le modalità operative affinché tale diritto possa essere effettivamente esercitato, in quanto propedeutico al pieno godimento di ulteriori garanzie del giusto processo. Anche in questo caso, pertanto, la convenzione conserva inalterati i propri effetti. L'articolo 7 della convenzione disciplina invece lo scambio spontaneo di informazioni, che può essere azionato anche in assenza di espressa richiesta da parte delle autorità di un altro Stato membro. Questo profilo non è considerato dalla direttiva 2014/41/UE, la quale, pur ribadendo a più riprese la necessità di costanti e trasparenti comunicazioni e consultazioni fra le autorità coinvolte, riconduce sempre tale dialogo ad un ordine di indagine formalmente trasmesso, del quale occorre assicurare la rapida esecuzione.

Infine, il considerando 9 esclude che la direttiva estenda il proprio ambito operativo alle osservazioni transfrontaliere di cui agli artt. 40 e 41 della convenzione di applicazione dell'accordo di Schengen. Parimenti, appare escluso dalla portata della disciplina di riforma il disposto dell'art. 39 di tale convenzione, riguardante l'acquisizione di elementi di prova nel contesto della cooperazione di polizia. Il par. 2 di tale articolo subordina l'uso a fini probatori di tali elementi solo previo consenso delle autorità giudiziarie della Parte contraente richiesta. A conferma di ciò, l'art. 1, par. 4 della menzionata decisione quadro 2006/960/GAI esclude alcun obbligo per gli Stati membri di fornire informazioni e intelligence da utilizzare come prove dinanzi ad un'autorità giudiziaria, a meno che lo Stato membro che ha fornito le informazioni o l'intelligence non presti il proprio consenso.

 

8. L'analisi sinora svolta consente di tratteggiare alcune riflessioni conclusive di sintesi. La razionalizzazione della disciplina probatoria promossa dalla direttiva 2014/41/UE attraverso l'applicazione del principio del mutuo riconoscimento appare solo in parte raggiunta. Un primo elemento di frammentazione deriva anzitutto dall'attuale carente attuazione della nuova normativa europea negli ordinamenti nazionali. Ciò comporta l'esigenza di conservare inalterati gli effetti del regime preesistente, in relazione agli Stati che non abbiano adempiuto all'obbligo di trasposizione. Auspicabilmente, peraltro, questa criticità dovrebbe essere superata nel medio periodo, in considerazione del fatto che la maggior parte degli Stati membri ha quanto meno avviato le procedure interne volte a perfezionare il recepimento. Sembra inoltre particolarmente promettente il ricorso allo strumento dell'interpretazione conforme dell'ordinamento interno al disposto della direttiva. Quest'ultima, infatti, introduce un atteso ammodernamento della disciplina di alcune forme peculiari di assistenza giudiziaria - in primis le intercettazioni di telecomunicazioni o le audizioni in videoconferenza e conferenza telefonica - rispetto alle quali il progresso tecnologico ha sancito l'inevitabile desuetudine del regime convenzionale. Da questo punto di vista, un adeguamento per via ermeneutica della disciplina statale è pressoché 'obbligato', anche alla luce della necessità di garantire la praticabilità della cooperazione fra autorità giudiziarie.

Il secondo fattore di frammentazione deriva dal testo della direttiva stessa, poiché, come visto, l'art. 34 si limita a sostituire le "disposizioni corrispondenti" delle convenzioni dell'ex terzo pilastro rilevanti nella materia in esame. Ne consegue, a fortiori in ragione dell'attuale assenza di chiarimenti da parte delle istituzioni europee, l'esigenza di identificare le disposizioni per le quali tale effetto di sostituzione opera. Al riguardo, si è tentato di argomentare la predilezione per una lettura sostanziale e flessibile del requisito della corrispondenza.

Si aggiunge, infine, la complessità strutturale derivante dagli strumenti di integrazione differenziata, che consentono ad alcuni Stati di modulare la propria partecipazione agli atti dell'Unione a seconda delle preferenze o strategie definite in sede nazionale.

Se dunque la direttiva sull'ordine europeo di indagine penale risulterà senza dubbio un efficace strumento di rafforzamento della cooperazione giudiziaria, finanche in termini quantitativi, persiste un panorama normativo stratificato e di difficile ricostruzione. Questa circostanza può determinare un disincentivo all'avvio di richieste di cooperazione o, ancora peggio, incertezza sul regime applicabile, con il conseguente rischio di prassi non conformi alle procedure imposte dal diritto UE.

Nell'ordinamento italiano, la recente ratifica della convenzione del 2000 e l'imminente recepimento della direttiva 2014/41/UE consentono di limitare le possibili discrasie derivanti dalla successione dei due regimi normativi. In ogni caso, la normativa di attuazione richiederà un periodo di assestamento fisiologico, in ragione del fatto che il considerevole ritardo nel dare seguito alla firma della convenzione del 2000 ha precluso per anni il ricorso agli istituti di assistenza giudiziaria ivi previsti.