argomento: Osservatorio
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di GRAZIA VITALE
Sommario: 1. Delimitazione del campo di indagine e premessa argomentativa. – 2. La Corte di giustizia e il “doppio binario sanzionatorio”: la “natura” penale della sanzione. - 3. Le limitazioni al divieto di cumulo. - 4. Il criterio prevalente: la proporzionalità della risposta sanzionatoria. - 4. Brevissime conclusioni.
1. Con sentenza n. 2245 del 20 gennaio 2022, la Terza Sezione della Corte di Cassazione ha affrontato ancora una volta il delicato e complesso tema del rapporto che intercorre tra il sistema nazionale del doppio binario sanzionatorio e la garanzia di cui al divieto di bis in idem.
La normativa sostanziale di riferimento nel caso di specie era riconducibile, sul piano nazionale, al reato di dichiarazione infedele di cui all'art. 4 del decreto legislativo 74/2000 e all'illecito amministrativo previsto dagli articoli 1 e 5 del decreto legislativo 471/97, rispettivamente in materia di imposta sui redditi e IVA. La normativa sovranazionale richiamata, invece, era rinvenibile nella CEDU e nella Carta di Nizza, con particolare riguardo al divieto di bis in idem contemplato da entrambe le Carte citate. La questione di diritto in rilievo atteneva, in buona sostanza, al rapporto di compatibilità o meno, rispetto alle disposizioni sovranazionali richiamate, del sistema nazionale del cosiddetto “doppio binario sanzionatorio”, penale e amministrativo. La presentazione di dichiarazione infedele, infatti, costituiva un unico fatto materiale che violava due diverse disposizioni, tra loro diversamente sanzionate, analogamente a quando un'unica condotta integra due distinti reati in concorso tra di loro.
Orbene, proprio traendo spunto da questa recentissima pronuncia, e utilizzandone l'incedere argomentativo quale schema logico-giuridico di riferimento, l'obiettivo del presente lavoro sarà quello di offrire una ricostruzione critica del modo di atteggiarsi del principio del ne bis in idem nell'ordinamento giuridico dell'Unione, tenendo presente che, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, e la riorganizzazione del sistema normativo che ne è derivata, il riferimento immediato al principio in parola si rintraccia nell'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea [1]. Si tratta di una norma di valore giuridico vincolante, avente rango di diritto primario, nonché dotata dell'idoneità alla diretta applicabilità, per espressa definizione della Corte di giustizia [2]. Essa sancisce espressamente il divieto di perseguire o di condannare una persona per una fattispecie di reato per la quale la stessa sia stata già assolta o condannata, con sentenza passata in giudicato, nel territorio di uno degli Stati membri dell’Unione. Come è noto, la norma in gran parte ripropone il disposto di cui all’art. 4 del Protocollo n. 7 CEDU, rispetto al quale l’art. 50, tuttavia, pare assicurare una protezione più estesa, atteso che trova applicazione non solo all’interno di un medesimo ordinamento nazionale, come l’art. 4 del Protocollo sopra citato, ma anche nei rapporti tra Stati membri [3] purché, ovviamente, la fattispecie di riferimento ricada nel campo di applicazione del diritto dell’Unione secondo quanto disposto dall’art. 51 della Carta [4].
Preme prospettare a questo punto, con ciò circoscrivendo già da subito il campo dell’indagine e anticipandone la struttura argomentativa, una precisazione. L’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali sarà analizzato in questa sede nella sola dimensione interna[5] e tentandone una ricostruzione che parta dalla preziosissima giurisprudenza di Lussemburgo, che tanta parte ha avuto ai fini dell’evoluzione dei termini di interpretazione ed applicazione dell’art. 50.
Ora, la recente pronuncia della Cassazione è risultata di particolare interesse per una serie di motivazioni.
La prima.
Essa prova, una volta di più, che quello del ne bis in idem è un tema che continua a dare luogo ad un dibattito scientifico molto vivace, nutrito certamente dall’evoluzione (non sempre lineare) della giurisprudenza delle corti interne e di quelle sovranazionali, che hanno fatto applicazione delle Carte dei diritti fondamentali, ciascuna nel proprio ambito di competenza.
La seconda.
La Cassazione, nella sua recente pronuncia, pur facendo un ellittico richiamo iniziale all'art. 50 della Carta, omette poi stranamente qualsivoglia riferimento alla giurisprudenza della Corte di giustizia che lo ha avuto ad oggetto, ancorché la fattispecie dedotta alla sua attenzione ricadesse con certezza nel campo di applicazione del diritto dell'Unione e, quindi, della Carta stessa. L'intera decisione si basa quindi sulla valorizzazione della CEDU e dei principi elaborati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nella sua copiosa giurisprudenza in tema di divieto di bis in idem.
Ora, poste queste precisazioni, che hanno determinato la circoscrizione del campo dell'indagine, corre l'obbligo di rilevare che il presente contributo si propone due obiettivi argomentativi, tra di loro interconnessi e dei quali pare opportuno fornire, fin d’ora, una rapida presentazione.
Il primo è quello di verificare le conseguenze, se ce ne sono, di una motivazione in seno alla quale la Cassazione non ha ritenuto di dovere fare riferimento alla giurisprudenza di Lussemburgo. A tal fine sarà necessario verificare se, e in che misura, le limitazioni all'operatività del divieto di bis in idem, che esistono e che sono facilmente rinvenibili anche nella giurisprudenza della Corte di giustizia, siano fondate su criteri non coincidenti o addirittura, come la Corte stessa pretende, nemmeno tanto velatamente, di prospettare, più garantisti rispetto a quelli rinvenibili nelle pronunce di Strasburgo.
Il secondo, poi, è quello di individuare quali tra questi criteri siano prevalenti e quali recessivi nella ricostruzione offerta dalla giurisprudenza interna e da quella europea. Come sopra anticipato, si tratta di un obiettivo argomentativo molto legato al precedente, perché può essere perseguito solo valorizzando la circolarità del rapporto tra Carta dei diritti fondamentali e Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come anche tra Corte di giustizia e Corte di Strasburgo, entrambe chiamate a garantire lo standard più elevato possibile di tutela del diritto fondamentale a non essere perseguiti o puniti due volte per la medesima fattispecie criminosa.
Sullo sfondo di questi ragionamenti rimane la pronuncia della Cassazione che, lo si ripete, si limita a citare l'art. 50 della Carta senza prospettare il minimo accenno alla copiosa e significativa giurisprudenza di Lussemburgo in argomento, ma concentrandosi piuttosto solo su quella di Strasburgo. È come se la Cassazione avesse dimenticato che le due Corti, pur se nell'ottica del perseguimento delle medesime finalità, si siano piuttosto distinte negli ultimi anni per un diverso approccio dogmatico e logico – argomentativo.
2. Per tracciare il nostro ragionamento, è necessario concentrarsi sulla declinazione che il principio del ne bis in idem - con particolare attenzione alla definizione che dello stesso è rinvenibile nell’art. 50 della Carta – trova nella giurisprudenza di Lussemburgo in tema di “doppio binario sanzionatorio”, penale e amministrativo [6].
Nonostante non più recentissime, le tre sentenze del 20 marzo 2018, pronunciate rispettivamente nei casi Menci, Garlsson e Di Puma e Zecca [7], rappresentano ancora ad oggi i riferimenti più idonei ai fini di una lucida comprensione del modo in cui si atteggia il principio del ne bis in idem nella giurisprudenza dell’Unione [8].
In tutti e tre i casi sopra citati era stata infatti sottoposta all’attenzione della Corte la questione della compatibilità con l’art. 50 della Carta del sistema del cosiddetto “doppio binario sanzionatorio”, penale e amministrativo, previsto dall’ordinamento nazionale. La disciplina materiale di riferimento era differente nei tre casi citati – trattandosi nel primo della materia dei reati tributari, nel secondo dell’abuso di informazioni privilegiate e nel terzo della manipolazione del mercato –, ma identico era il problema che veniva sottoposto all’attenzione dei giudici di Lussemburgo, in quanto connesso al divieto di cumulo di procedimenti e sanzioni di natura penale per gli stessi fatti e nei confronti della stessa persona.
Nei tre casi considerati la Corte esordiva precisando che, perché sia integrato un bis in idem, sia innanzitutto necessario accertare che i procedimenti in rilievo e le sanzioni che ne conseguono, siano tutti di natura penale [9]. Sul punto la Corte di giustizia ha accolto nel tempo una qualificazione sostanzialistica della natura penale del procedimento e della sanzione. Ciò significa, in altri termini, che al di là della qualificazione formale di una determinata sanzione, come operata dal singolo ordinamento nazionale, ciò che rileva ai fini della delimitazione del campo di applicazione della garanzia di cui si discute è la sua natura sostanziale, riconducibile in quanto tale al suo carattere afflittivo [10].
Ora, la Corte di giustizia ha avuto modo di precisare che, ai fini della valutazione della natura penale di procedimenti e sanzioni, dovrebbero essere tenuti in considerazione tre criteri. Il primo sarebbe quello relativo al modo in cui l’ordinamento nazionale qualifica sul piano giuridico l’illecito perseguito; il secondo sarebbe relativo alla natura dell’illecito; il terzo atterrebbe al grado di severità della sanzione alla quale il soggetto va potenzialmente incontro [11].
E’ evidente come tali criteri, attraverso i quali la Corte di giustizia definisce come di natura “sostanzialmente” penale una sanzione che l’ordinamento interno non qualifichi invece come tale, siano riconducibili alla giurisprudenza Engel della Corte europea dei diritti dell’uomo[12]. Quest’ultima, più in particolare, chiamata a pronunciarsi in tema di sanzioni militari di carattere detentivo, sebbene qualificate come disciplinari dal legislatore interno, ne aveva riconosciuto il carattere penale sulla base di tre criteri, uno dei quali di portata squisitamente formale e due ulteriori di natura sostanziale. Il criterio formale concerneva la qualificazione giuridica che una determinata sanzione riceveva nell’ordinamento nazionale; i criteri sostanziali attenevano alla “natura” della sanzione, rinvenibile nello scopo punitivo, deterrente e repressivo che eventualmente la accompagni; nonché al grado di severità della stessa, con particolare riferimento al massimo edittale.
E’ interessante notare che nonostante la Corte di giustizia confermi nelle sue pronunce il ricorso ai criteri di cui alla sentenza Engel, non li citi espressamente, né si riferisca chiaramente alla giurisprudenza di Strasburgo che, anche in altri casi, si era pronunciata in argomento. Essa richiama, piuttosto, i suoi stessi precedenti, in particolare i casi Bonda e Fransson. La causa di questo mancato richiamo potrebbe probabilmente risiedere in un primo tentativo di prendere le distanze da una Corte il cui complessivo sostrato interpretativo, come vedremo oltre, appariva già ai giudici di Lussemburgo quanto meno opinabile su altri profili.
Diverso appare invece l'approccio della Cassazione sul punto.
Nella fattispecie controversa da cui è poi scaturita la pronuncia, veniva in rilievo la posizione di un soggetto che, in relazione allo stesso fatto per il quale veniva sottoposto a giudizio penale ex art. 4 d.lgs. 74/2000 subiva, nelle more del processo, una sanzione amministrativa pecuniaria di ingente entità. A fronte, quindi, di una medesima condotta illecita contestata, ad uno stesso soggetto potevano essere irrogate potenzialmente due distinte sanzioni - quella penale/detentiva e quella amministrativo/pecuniaria conseguente alla pronuncia della CTR - da parte di due distinte autorità, ancorché appartenenti allo stesso Stato membro. E sebbene si palesasse la violazione tanto dell’art. 4 Protocollo 7 CEDU, quanto dell’art. 50 CFDUE, la Cassazione sanciva espressamente, e senza esitazione alcuna, che “ai fini del divieto di ‘bis in idem’ di cui all’art. 4, § 1, Protocollo n. 7 alla Convenzione EDU, la natura (sostanzialmente) penale della sanzione qualificata come amministrativa dall’ordinamento interno deve essere valutata applicando i c.d. Engel criteria”. È su questa base, infatti, che secondo la Cassazione la sanzione prevista dagli artt. 1, comma 2, e 5, comma 4, del d.lgs. n. 471 del 1997 poteva assumere natura sostanzialmente penale. Ciò in ragione “della sanzione minacciata e della sua evidente funzione dissuasiva (già in sede di previsione astratta), non essendo finalizzata al mero risarcimento/indennizzo del danno cagionato dal contribuente”. I nostri giudici di legittimità, quindi, di fronte ad una sanzione di portata repressiva e di funzione deterrente, non esitano a qualificarla come di natura penale, invocando a tal fine a supporto la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani.
E tuttavia, non pare rilevante il mancato richiamo alla giurisprudenza della Corte di giustizia in argomento, atteso che sul punto della qualificazione della natura penale del procedimento e della sanzione la ricostruzione delle due Corti sovranazionali è fondamentalmente coincidente. Così, è ormai pacifico nella giurisprudenza di entrambe le Corti che, sebbene spetti al giudice interno il compito di valutare le caratteristiche dei casi concreti fino all’eventuale qualificazione delle sanzioni formalmente amministrative come sostanzialmente penali, una sanzione spiccatamente repressiva - per funzione e per capacità afflittiva - sia senz’altro da ritenersi di natura penale, al di là del nomen iuris utilizzato per designarla e delle diverse considerazioni che sul punto possano essere prospettate dalle autorità giudiziarie nazionali.
3. Una volta verificata la sussistenza dei presupposti di base, e con ciò la duplicazione di procedimenti “sostanzialmente” penali a danno della medesima persona e per il medesimo fatto, verrebbe ad integrarsi un bis in idem, come tale vietato dal sistema. E tuttavia la Corte di giustizia non esclude la legittimità di un cumulo sanzionatorio allorquando le sanzioni (penale e amministrativa di natura penale), siano nel loro complesso contenute entro limiti generali di ragionevole proporzionalità e dissuasività della risposta punitiva [13].
Invero, già a partire dalla sentenza Spasic [14], e anche nelle successive pronunce di cui poco sopra si è detto, la Corte di giustizia aveva avuto modo di precisare che eventuali limitazioni al principio del ne bis in idem sancito dall’art. 50 della Carta potessero essere ammesse sulla base dell’art. 52 della stessa. Tali limitazioni, secondo quanto espressamente previsto dalla norma, potrebbero essere giustificabili a condizione però che siano previste dalla legge; che rispettino il contenuto essenziale dei diritti e delle libertà della cui limitazione si tratti; che siano “necessarie”, in quanto rispondenti effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute come tali dall’Unione ovvero all’esigenza di garantire la protezione e il rispetto di diritti e libertà altrui [15]; e, soprattutto, che siano “proporzionate” rispetto alla gravità del fatto.
A questo punto vi è da chiedersi se, attraverso un richiamo espresso all’art. 52 della Carta, la Corte di giustizia in verità abbia inteso riprendere, pur senza citarli espressamente, gli ultimi approdi della giurisprudenza di Strasburgo in materia di ne bis in idem; o se abbia invece voluto espressamente discostarsene, nel tentativo di elaborare meccanismi di definizione della fattispecie più garantisti rispetto alla tutela del diritto di cui all’art. 50. Il riferimento è, chiaramente, alle determinazioni di cui alla sentenza A. e B. c. Norvegia, laddove la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva avuto modo di precisare che, allorquando i procedimenti di riferimento si trovino in stretta connessione temporale e materiale, non vi sarebbe violazione del ne bis in idem. Volendo sintetizzare il contenuto di una giurisprudenza invero complessa ed articolata, può senz’altro dirsi che secondo la Corte EDU si ha connessione temporale quando tra i due procedimenti vi sia un nesso di natura cronologica sufficientemente stretto, ciò non comportando necessariamente che essi debbano essersi svolti simultaneamente dall’inizio alla fine. La connessione sostanziale tra i due procedimenti verrebbe integrata, invece, in presenza di ulteriori requisiti: essi devono perseguire scopi differenti e avere ad oggetto profili diversi e complementari della medesima condotta illegittima; il doppio procedimento deve essere per il singolo una conseguenza prevedibile della sua condotta; deve sussistere un adeguato collegamento tra i due procedimenti anche sul piano istruttorio, attinente alla raccolta e alla valutazione delle prove; le sanzioni complessivamente irrogate devono infine essere proporzionate, ossia atte ad evitare che il soggetto interessato sia gravato da un onere sanzionatorio eccessivo.
L’interrogativo di cui sopra non sorge a caso, ma piuttosto perché, nell’elaborazione dei criteri di cui si discute, tratti direttamente dal testo dell’art. 52, la Corte di giustizia prende chiaramente le distanze dall'approccio della Corte EDU, discostandosi dalla ricostruzione dalla stessa offerta e pretendendo di presentarne l’utilizzo come foriero di un meccanismo più garantista del livello di tutela del ne bis in idem rispetto a quello riconducibile alla giurisprudenza di Strasburgo. La Corte di giustizia giunge ad affermare che la mancata adesione dell’Unione alla CEDU fa sì che quest’ultima non costituisca ad oggi un atto formalmente integrato nell’ordinamento giuridico dell’Unione. Ciò significa, in altri termini, che pur se debba essere certamente assicurata la coerenza tra Carta e CEDU, valore prioritario assume, nel ragionamento della Corte di giustizia, l’autonomia del diritto dell’Unione e dell’interpretazione ed applicazione dalla stessa offertane [16].
Tentiamo dunque di prospettare una risposta al superiore interrogativo.
Certo, non è difficile individuare la diversa impostazione dogmatica seguita dalle due Corti.
La Corte europea dei diritti dell’uomo sembra ritenere, in buona sostanza, che i criteri di cui alla stretta connessione temporale e materiale tra i procedimenti servano ad escludere la stessa sussistenza di un bis in idem. Allorquando i due procedimenti siano sostanzialmente e temporalmente collegati non si verrebbe a configurare, in altri di termini, la violazione di una regola, tuttavia ammessa in via di eccezione dal sistema in quanto funzionale al perseguimento di ulteriori e prevalenti interessi; si tratterebbe piuttosto di una situazione nell’ambito della quale i due procedimenti apparirebbero come legati in un’esperienza giuridica unica, che precluderebbe ipso iure la possibilità di integrare una duplicazione, per ciò stesso vietata dall’ordinamento. Non ci sarebbe proprio, cioè, un bis in idem!
L’approccio dogmatico dei giudici dell’Unione è diverso. I criteri contemplati dall’art. 52 della Carta si presentano come giustificazioni alla limitazione del diritto fondamentale di cui all’art. 50. In presenza di determinati presupposti, quindi, il bis in idem risulterebbe integrato, ma l’operatività del divieto verrebbe “limitata” da ulteriori criteri con cui bilanciare la garanzia di cui trattasi.
E tuttavia, ciò che si vuole a questo punto sottolineare è che, al di là di pretese posizioni di autonomia dei giudici di Lussemburgo rispetto a un’impostazione argomentativa consolidata nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, e al di là della differente impostazione dogmatica rinvenibile nella giurisprudenza delle due Corti, i criteri che presiedono al meccanismo di ammissibilità o meno del cumulo delle sanzioni, ancorché variamente declinati e descritti, sono sostanzialmente coincidenti nella giurisprudenza delle stesse, rispondenti ad una ratio di analoga portata e volti a produrre, infine, le medesime conseguenze pratiche sul piano della tenuta del sistema di duplicazione sanzionatoria, quanto meno in materia tributaria e di abusi di mercato.
Entrambe le Corti, infatti, ritengono che il doppio binario sanzionatorio debba essere previsto dalla legge o, come sostiene la Corte EDU, prevedibile da parte dell’interessato. Entrambe le Corti rilevano che, perché si integri una limitazione al divieto di bis in idem, è necessario che i due procedimenti e le due eventuali sanzioni con le quali essi si concludano, riguardino aspetti diversi e complementari di contrasto ad un medesimo fenomeno criminoso. Entrambe le Corti prospettano la necessità di un coordinamento tra i due procedimenti, che la Corte di giustizia si limita invero ad enunciare, mentre la Corte di Strasburgo declina più precisamente, riferendosi alla possibile acquisizione delle risultanze istruttorie di un procedimento da parte dell'altro. Entrambe le Corti, infine, ritengono che la compatibilità del sistema del doppio binario sanzionatorio rispetto al principio del ne bis in idem sia subordinata alla circostanza che gli oneri gravanti sul soggetto interessato siano ridotti al minimo indispensabile, e che le sanzioni complessivamente irrogate siano di portata proporzionata rispetto alla gravità dei fatti commessi.
Sulla base di questi rilievi, il fatto che la Cassazione imposti il suo argomento giuridico sui dicta della Corte europea dei diritti dell'uomo e non su quelli della Corte di giustizia, pare sul piano pratico privo di conseguenze e di rilievo. Essendo ormai pacifico che entrambe le Corti sono allineate tanto sul piano dell'individuazione dei criteri che presiedono alla qualificazione della sanzione in termini di sanzione penale, quanto sul piano della definizione delle ipotesi in cui il doppio binario sanzionatorio sia ammesso dal sistema perché compatibile con le fonti normative sovranazionali[17], la statuizione della Cassazione non avrebbe di certo avuto un contenuto diverso se si fosse ispirata alla giurisprudenza di Lussemburgo.
Il problema che emerge, piuttosto, è un altro.
La pronuncia dei nostri giudici di legittimità mette in evidenza una significativa sovrapposizione normativa tra fonti di diversa derivazione ma di pressoché analogo contenuto sostanziale, che interagiscono tra di loro secondo dinamiche complesse e non sempre lineari, con ciò creando talvolta confusione o, comunque, mettendo spesso in difficoltà l'interprete. Le maggiori difficoltà gravano, peraltro, proprio sul giudice nazionale che, nella sua qualità di giudice comune del diritto dell'Unione, è chiamato a dare la prima e immediata applicazione alla suddetta garanzia.
4. Ma veniamo adesso al secondo obiettivo argomentativo di cui si è detto in premessa, ossia quello relativo all'individuazione, tra i criteri che presiedono alla definizione delle eccezioni al divieto di cumulo, di quelli recessivi e di quelli prevalenti nella giurisprudenza di riferimento.
Quello della stretta connessione temporale è un criterio che in verità meriterebbe un discorso a parte, quanto meno per le implicazioni di natura processuale che reca con sé; discorso che in questa sede, per ragioni di economia della trattazione, non è possibile sviluppare. Si tratta, comunque, di un criterio che assume scarso peso nella giurisprudenza della Corte di giustizia che lo ritiene, se non del tutto irrilevante, quanto meno recessivo rispetto agli altri.
E direi condivisibilmente.
Si tratta, infatti, di un criterio aleatorio e contingente, forse più ancora degli altri, che se serve a descrivere che la risposta sanzionatoria consegue, con una discreta contiguità temporale, allo stesso fatto, con ciò configurandosi come unitaria, non può per ciò solo essere elevato a criterio sintomatico della connessione procedimentale che determina la delimitazione del divieto di bis in idem. Non a caso la stessa Corte di Cassazione italiana, nella recente pronuncia di cui si è detto, rinvia ad esso in termini piuttosto rapidi e, probabilmente, solo poiché la particolare contiguità temporale tra i procedimenti in rilievo ne rendeva quasi scontata la verifica.
Ciò che pare emergere con lapalissiana evidenza dall’analisi della giurisprudenza citata, tanto quella nazionale quanto quella sovranazionale, è piuttosto la marcata valorizzazione del criterio della “proporzionalità” della sanzione. Il che, d’altra parte, non sorprende affatto, attesa la rilevanza che il principio di proporzionalità assume nell'ambito del ragionamento penalistico.
Ciò significa, in altri termini, che una volta appurata la funzione repressiva e la capacità afflittiva di una sanzione, qualificabile pertanto come di natura penale, l’obiettivo ultimo diviene quello di garantire che il doppio binario conduca ad una risposta sanzionatoria che sia efficace e dissuasiva ma, soprattutto, proporzionata. Ne consegue che il meccanismo del doppio binario sanzionatorio (penale e amministrativo) può ritenersi compatibile con l’art. 50 della Carta solo nel momento e nella misura in cui il cumulo sanzionatorio possa essere contenuto nei limiti necessari al perseguimento delle suddette finalità, ossia solo quando l’onere risultante dal cumulo dei procedimenti e delle sanzioni non sia eccessivo, nella valutazione offertane da parte degli organi giurisdizionali nazionali, rispetto alla gravità del fatto di reato di cui si discute.
La circostanza che il cumulo dei procedimenti e delle sanzioni previsto dalla normativa interna non debba superare i limiti di quanto sia strettamente idoneo e necessario al conseguimento degli scopi legittimi perseguiti dalla normativa di cui trattasi comporta quindi che, qualora sia possibile la scelta tra più misure, si debba ricorrere a quella meno restrittiva [18].
È su questa base che nel caso Menci la Corte ha ritenuto che non eccedesse quanto strettamente necessario al perseguimento dell’obiettivo proposto un meccanismo in cui un procedimento penale fosse stato instaurato sebbene si fosse già concluso con una sanzione pecuniaria un procedimento amministrativo relativo ai medesimi fatti [19]. Ed è sempre sulla base dello stesso ragionamento che la Corte di giustizia ha ritenuto invece sproporzionata, eccessiva e quindi in contrasto con il diritto dell’Unione una normativa interna che consentiva l’instaurazione di un procedimento amministrativo dopo la celebrazione di un processo penale conclusosi con sentenza, di condanna [20] o di assoluzione [21] che fosse. Analogo è il risultato cui giunge la Cassazione allorquando precisa che nei casi, come quello in esame, in cui la sanzione amministrativa prevista ed applicata per il reato commesso abbia natura sostanzialmente penale, “deve essere garantito un meccanismo di compensazione che consenta di tener conto, in sede di irrogazione della seconda sanzione, degli effetti della prima così da evitare che la sanzione complessivamente irrogata sia sproporzionata”.
Ma quali sono le conseguenze pratiche, in termini di vantaggi e svantaggi, di un’impostazione concettuale che valorizza così marcatamente il criterio della proporzionalità della sanzione, facendolo diventare la chiave di volta del sistema delle possibili limitazioni al divieto di bis in idem?
La valorizzazione del criterio della proporzionalità della risposta sanzionatoria pare condivisibile, ad esempio, dalla prospettiva del diritto interno.
Il suddetto criterio, infatti, è certamente coerente con il principio di “offensività” che deve presiedere la disciplina della materia penale, rivolgendosi in prima battuta al legislatore, in sede di definizione formale della fattispecie incriminatrice e di determinazione della sanzione; e poi anche al giudice, in sede applicativa e di regolamentazione del caso concreto. E ciò non solo nelle ipotesi nelle quali il giudice interno sarà chiamato a chiudere il procedimento per violazione dell’art. 50 della Carta; ma anche in quelle in cui venga in campo il giudice civile, adito in sede di opposizione al provvedimento amministrativo sanzionatorio irrogato dall’amministrazione competente.
Correlativamente, l’utilizzo con valore prioritario del criterio della proporzionalità pare altresì coerente con il principio di tassatività della previsione sanzionatoria, che vige nel nostro sistema giuspenalistico vincolando l’azione del giudice; nonché con quello, ancor più generale, di legalità, in ottemperanza al quale deve agire anche la Pubblica Amministrazione, allorquando sia essa ad essere chiamata in gioco per seconda.
Quello della proporzionalità, tuttavia, è un criterio dall’applicazione del quale scaturiscono anche alcuni “problemi” sul piano pratico. Quello di attribuire al giudice, ad esempio, una eccessiva discrezionalità di valutazione nel ridisegnare la sanzione [22].
Questo perché, ovviamente, la verifica della proporzionalità delle sanzioni può addirittura condurre alla disapplicazione delle norme interne relative al trattamento sanzionatorio dell’illecito oggetto del secondo procedimento, o integralmente, allorquando la sanzione irrogata per prima sia in grado di assorbire interamente, nella valutazione del giudice, il disvalore del fatto; o piuttosto, e più di frequente, derogando in mitius al minimo edittale. E nonostante la giurisprudenza sia chiara nel precisare che l'intera operazione si debba svolgere nel pieno rispetto del limite insuperabile di cui all’art. 23 c.p., è evidente come la stessa cornice edittale di riferimento tenda ad annacquarsi, consegnando al giudice un raggio sanzionatorio fin troppo ampio nell'ambito del quale muoversi.
Un ulteriore problema pratico attiene all’individuazione dei criteri che il giudice penale, qualora si pronunci successivamente all’irrogazione di una sanzione formalmente amministrativa, ma sostanzialmente penale, deve utilizzare in sede di commisurazione della pena onde garantire la proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio.
La Cassazione, nella pronuncia del gennaio di quest'anno di cui più volte si è detto nel corso di questo lavoro, ha ad esempio precisato che, in materia “penal-tributaria”, il giudice debba commisurare la pena tenendo conto di quella già irrogata, che potremmo qualificare in senso atecnico come un “pre-sofferto” sostanziale; utilizzando, poi, il criterio di ragguaglio previsto dall’art. 135 c.p.; applicando, se del caso, le circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis c.p.; e valutando altresì le condizioni economiche del reo, ex art. 133 bis c.p.
Si tratta di un'operazione non semplice, attesa la sussistenza di una congerie di criteri, che il giudice deve combinare tra di loro tenendo altresì conto delle complesse dinamiche dei singoli casi concreti e del necessario bilanciamento, non sempre facile da realizzare, tra sanzioni tra loro profondamente diverse per tipologia, per provenienza e per finalità.
5. Tentiamo adesso di sintetizzare il senso di quanto fino a questo momento esplicitato, tracciando altresì una rapida conclusione.
Attraverso la pronuncia recente emessa dalla Suprema Corte di Cassazione in materia penal-tributaria, è stato possibile ripercorrere i termini della giurisprudenza sovranazionale, quella di Strasburgo e quella di Lussemburgo, in riferimento alla compatibilità dei sistemi nazionali improntati al doppio binario sanzionatorio con il divieto generale di bis in idem.
Dall'analisi così condotta è emerso come, al netto di un approccio dogmatico in parte diverso, le due Corti si muovano secondo criteri di delimitazione del campo di applicazione del divieto di bis in idem in buona parte sovrapponibili.
Invero la Corte di giustizia si preoccupa di richiamare in tale contesto un criterio, espressamente previsto dall'art. 52 della Carta, che sembra non emergere dalla giurisprudenza di Strasburgo, ossia quello della tutela dell'interesse generale dell'Unione. Ciò significa, in buona sostanza, che il doppio binario sanzionatorio è ammesso, ed è ritenuto compatibile con il diritto dell'Unione, allorquando il suo mantenimento sia finalizzato al perseguimento di interessi generali dell'Unione stessa, ritenuti prevalenti in un'ottica di bilanciamento di valori. Il che si rintraccia nel caso di specie, laddove è innegabile la necessità di garantire la tutela degli interessi finanziari dell'Unione, potenzialmente lesi da comportamenti elusivi delle norme esistenti in materia tributaria; e si rintraccia, in verità, quasi sempre laddove vengano in rilievo fattispecie, come anche quella che ci occupa, ricadenti nel campo di applicazione del diritto dell'Unione e, quindi, della Carta.
L'eventuale richiamo, da parte della Cassazione, anche a questa giurisprudenza e a questo ulteriore criterio, quindi, non avrebbe condotto a conseguenze diverse rispetto a quelle rinvenibili nell'attuale statuizione.
Né i nostri giudici di legittimità hanno in alcun modo veicolato o tentato di veicolare, dietro il manto formale di una motivazione pedissequamente riproduttiva dei principi di Strasburgo, una diversa ricostruzione del divieto di bis in idem e dei limiti alla sua operatività rispetto a quella rinvenibile, indirettamente e implicitamente, anche nelle pronunce della Corte di giustizia.
Ciò che potrebbe, al più, rilevarsi, è che la Corte di Cassazione avrebbe dovuto dare atto anche di tale giurisprudenza.
Più in particolare, avrebbe innanzitutto potuto rilevare che la fattispecie dedotta alla sua attenzione presentava tutte le caratteristiche tali da potersi ritenere rientrante nel campo di applicazione del diritto dell'Unione. Infatti, in materia di IVA è opportuno ricordare da un lato gli articoli 2, 250, paragrafo 1, e 273 della direttiva 2006/112/CE, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto; dall'altro, l’art. 325 TFUE, che obbliga gli Stati membri a lottare contro le attività illecite lesive degli interessi finanziari dell’Unione con misure dissuasive ed effettive. Così, come ha avuto modo di precisare la Corte di giustizia, “poiché le risorse proprie dell’Unione comprendono in particolare [...] le entrate provenienti dall’applicazione di un’aliquota uniforme agli imponibili IVA armonizzati determinati secondo regole dell’Unione, sussiste quindi un nesso diretto tra la riscossione del gettito dell’IVA nell’osservanza del diritto dell’Unione applicabile e la messa a disposizione del bilancio dell’Unione delle corrispondenti risorse IVA, poiché qualsiasi lacuna nella riscossione del primo determina potenzialmente una riduzione delle seconde” [23].
Ne risulta che procedimenti penali per frode fiscale, del tipo di quello che ha interessato l’imputato nel procedimento principale a causa dell’inesattezza delle informazioni fornite in materia di IVA, costituiscono un’attuazione degli articoli 2, 250, paragrafo 1, e 273 della direttiva 2006/112 e dell’art. 325 TFUE e, pertanto, del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 51, paragrafo 1, della Carta. A ciò si aggiunga che “il fatto che le normative nazionali che fungono da base a tali sovrattasse e procedimenti penali non siano state adottate per trasporre la direttiva 2006/112 non può essere tale da rimettere in discussione detta conclusione, dal momento che la loro applicazione mira a sanzionare una violazione delle disposizioni della direttiva summenzionata e pertanto ad attuare l’obbligo, imposto dal Trattato agli Stati membri, di sanzionare in modo effettivo i comportamenti lesivi degli interessi finanziari dell’Unione” [24].
Ciò premesso, la Cassazione avrebbe potuto poi prospettare il generale problema giuridico relativo alla compatibilità o meno del sistema nazionale del doppio binario sanzionatorio con il divieto di bis in idem, previsto tanto dal sistema convenzionale, quanto dalla Carta di Nizza; e avrebbe infine potuto concludere nel senso che i criteri previsti sia dalla Corte EDU che dalla Corte di giustizia come limiti all'operatività in concreto del divieto di bis in idem fossero certamente sussistenti nel caso di specie e senz'altro idonei a giustificare il cumulo.
E a questo punto sarebbe entrato in gioco, come in effetti è accaduto, il criterio più importante, ossia quello della proporzionalità della complessiva risposta sanzionatoria, solo nel rispetto del quale può ammettersi l'eccezione al divieto di cumulo. Non può negarsi, infatti, che pur se con tutti i suoi limiti - quelli di cui si è poco sopra detto, e molti altri che non c’è il modo di valorizzare - il criterio della proporzionalità della sanzione sia certamente il più funzionale ad assicurare, in concreto, cioè in termini di equilibrio e tenuta del sistema, il soddisfacimento degli interessi sottesi alle posizioni individuali connesse all’art. 50 della Carta.
Anzi, si potrebbe anche dire che la condivisibile valorizzazione del criterio della proporzionalità abbia finito con il determinare una metamorfosi, in termini di completamento e di miglioramento, della garanzia generale del ne bis in idem. Questa garanzia verrebbe così oggi a trasformarsi da semplice garanzia di natura processuale, contro l’arbitraria proliferazione dei procedimenti, in garanzia di natura sostanziale attinente alla proporzione sanzionatoria. Garanzia, quest'ultima, espressamente prevista da un'altra norma della Carta dei diritti fondamentali, ossia dall’art. 49, e non a caso esplicitamente citata dalla Corte di giustizia nella sua giurisprudenza in argomento. Garanzia, inoltre, volta piuttosto opportunamente a potenziare, anche in ambito sostanziale, la proporzione del complessivo carico sanzionatorio rispetto ai fatti commessi.
[1] Per un commento all’art. 50, fra gli altri C. Amalfitano, R. D’Ambrosio, Art. 50 - Diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato, in R. Mastroianni, O. Pollicino, S. Allegrezza, F. Pappalardo, O. Razzolini (a cura di), Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Milano, 2017, p. 1026 ss.; A. Oriolo, Il diritto di non essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato nell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, in A. Di Stasi (a cura di), Tutela dei diritti fondamentali e spazio europeo di giustizia, Napoli, 2019, p. 335 ss.; B. Van Bockel, Ne Bis in Idem in EU Law, Cambridge, 2016; E. Bindi, Divieto di bis in idem e doppio binario sanzionatorio nel dialogo tra giudici nazionali e sovranazionali, in Federalismi, n. 17/2018, p. 1 ss.
[2] Si veda sul punto Corte giust. 20 marzo 2018, C-537/16, Garlsson.
[3] Sulla delimitazione del campo di applicazione di Carta e CEDU si veda B. Nascimbene, Ne bis in idem, diritto internazionale e diritto europeo, in Diritto penale contemporaneo, 2018, p. 1 ss.
[4] Un inquadramento chiaro dell’ambito di applicazione della Carta si rintraccia in Corte giust. 15 aprile 2015, C-497/14, Burzio. Sull’art. 51 si veda, inoltre, J. Ziller, in R. Mastroianni, O. Pollicino, S. Allegrezza, F. Pappalardo, O. Razzolini (a cura di), Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Milano, 2017, p. 1042 ss.
[5] Per la dimensione transnazionale del principio N. Recchia, Il principio europeo del ne bis in idem tra dimensione interna e internazionale, in Diritto penale Contemporaneo, 2015, p. 71 ss.; M. Bose, The Transnational Dimension of the Ne Bis in Idem Principle and the Notion of Res Iudicata in the European Union, in Justice without Borders. Essays in Honour of Wolfgang Schomburg, Leiden-Boston, 2018, p. 49 ss.; V. Felisatti, Il principio del ne bis in idem transnazionale nel dialogo tra la Corte di giustizia e i giudici nazionali, in La Legislazione Penale, 2017, p. 1 ss. Si ricorda in argomento la recente Corte giust. 12 maggio 2021, C-505/19, WS.
[6] In verità meccanismi di irrogazione di sanzioni penali e di sanzioni amministrative per i medesimi fatti si rintracciano in vari ordinamenti giuridici nazionali, al punto tale che nelle Conclusioni presentate nel caso Fransson, l’Avvocato generale giunge addirittura ad annoverare il sistema del doppio binario sanzionatorio tra le tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri (Conclusioni Villalón, presentate il 12 giugno 2012, in causa C-617/10, punto 88). Conclusione forse un po’ eccessiva, ma sulla quale comunque c’è stato modo di riflettere. Sul punto si veda G. De Amicis, Ne bis in idem e “doppio binario” sanzionatorio: prime riflessioni sugli effetti della sentenza “Grande Stevens” nell’ordinamento italiano, in Diritto penale contemporaneo, 2014, fasc.3, p. 207 ss.
[7] Corte giust., Grande Sezione, 20 marzo 2018, cause C-524/15 (Menci), C-537/16 (Garlsson), C-596 e 597/16 (Di Puma e Zecca). Per alcuni commenti N. Recchia, Note minime sulle tre recenti sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea in tema di ne bis in idem, in Eurojus, 2018; A. Galluccio, La Grande Sezione della Corte di giustizia si pronuncia sulle attese questioni pregiudiziali in materia di ne bis in idem, in Dir. pen. cont., 21 marzo 2018; E. Bindi, Divieto di bis in idem e doppio binario sanzionatorio nel dialogo tra giudici nazionali e sovranazionali, in Federalismi.it, 2018; G. Lo Schiavo, The principle of ne bis in idem and the application of criminal sanctions: of scope and restrictions, in Europ. Const. Law Review, 2018, p. 644 ss.; B. Varesano, Il diritto al ne bis in idem e il doppio binario sanzionatorio: alcune riflessioni a margine della sentenza Garlsson Real Estate, in Dir. umani e dir. int., 2018, p. 711 ss.; E. Basile, Il doppio binario sanzionatorio degli abusi di mercato in Italia e la trasfigurazione del ne bis in idem europeo, in Giur. com., 2019, p. 129 ss.; M. Luchtman, The ECJ’s Recent Case Law on Ne Bis in Idem, in Common Market Law Review, 2018, p. 1717 ss.; Z. Burić, Ne Bis in Idem in European Criminal Law– Moving in Circles?, in EU and Comparative Law Issues and Challenges Series, 2019, p. 507 ss.; B. Peeters, The Ne Bis in Idem Rule: Do the EUCJ and the ECtHR Follow the Same Track?, in EC Tax Review, 2018, p. 182 ss.; C. Serneels, “Unionisation” of the European Court of Human Rights ne bis in idem jurisprudence: the Case of Mihalache v Romania, in New Journal of European Criminal Law, 2020, p. 232 ss.; M. Vetzo, The Past, Present and Future of the Ne Bis in Idem Dialogue Between the Court of Justice of the European Union and the European Court of Human Rights: The Cases of Menci, Garlsson and Di Puma, in REALaw, 2018, p. 70 ss.
[8] Si segnalano due recentissime pronunce emesse il 22 marzo 2022 in materia di concorrenza, con le quali la Grande Sezione della Corte di giustizia è ritornata sulla portata e sui limiti al divieto di doppia incriminazione, riproponendo nella sostanza i dicta precedenti e adattandoli al peculiare settore di cui alle fattispecie in esame. Il riferimento è a C-117/20, bpost; e a C-151/20, Nordzucker.
[9] Per completezza, si segnala brevemente che, secondo la giurisprudenza, ai fini dell’integrazione del requisito del ne bis in idem occorre anche che i due procedimenti, entrambi di natura sostanzialmente penale, riguardino lo stesso soggetto e anche lo stesso “fatto”. Non ci si soffermerà invero in questa sede su tali due ulteriori requisiti, atteso che essi non presentano ad oggi particolari criticità né nella giurisprudenza della Corte di giustizia, né in quella di Strasburgo, fondamentalmente allineate attorno all’idea che il “fatto” di cui trattasi debba essere inteso non già in senso tecnico-giuridico, ossia come “crimen”, bensì in senso storico-naturalistico. Così, ad esempio, Corte giust. 18 luglio 2007, C-367/05, Kraaijenbrink; Corte giust. 9 marzo 2006, C-436/04, Van Esbroeck; Corte giust. 28 settembre 2006, C-467/04, Gasparini. Conforme anche la nostra giurisprudenza penale prevalente (cfr. ad es. Cassazione penale sez. I - 10/01/2020, n. 11664), secondo cui la nozione di “stessi fatti", utile ai fini del divieto del bis in idem europeo, prescinde dalla loro qualificazione giuridica.
[10] È evidente che l’avere accolto una accezione sostanzialistica e non formalistica della natura della sanzione, ha inevitabilmente inciso anche sulle modalità di articolazione del doppio binario sanzionatorio che, in linea di principio, si basa proprio sulla distinzione squisitamente formale tra sanzioni amministrative e sanzioni penali. Il divieto di bis in idem, infatti, non impedisce ad uno Stato membro di cumulare in capo ad una stessa persona tanto una sanzione penale quanto una sanzione amministrativa, purché quest’ultima non sia di natura penale.
[11] In tal senso, Corte giust. 5 giugno 2012, C-489/10, Bonda, punto 37; Corte giust. 26 febbraio 2013, C-617/10, Fransson, punto 35.
[12] Come ha affermato la Corte EDU, a partire dalla sent. 8 giugno 1976, Engel e a. c. Paesi Bassi, la qualificazione giuridica formale ai sensi dell’ordinamento nazionale non è sufficiente per negare l’applicabilità delle garanzie del giusto processo ex art. 6 CEDU.
[13] Diversa sul punto era la posizione dell'Avvocato Generale secondo il quale, in sostanza, due procedimenti, sia paralleli che successivi, che conducano all'irrogazione di due sanzioni di natura sostanzialmente penale in riferimento agli stessi fatti, sono “due (bis) e non uno”.
[14] Corte giust. 27 maggio 2014, C-129/14 PPU, Spasic, punti 55 e 56.
[15] Sull’art. 52 della Carta si veda il commento di F. Ferraro, N. Lazzerini, in R. Mastroianni, O. Pollicino, S. Allegrezza, F. Pappalardo, O. Razzolini (a cura di), La Carta, cit., p. 1061 ss.
[16] La Corte si esprime in questi termini nella sentenza Menci, cit., punti 22-23, che richiama la sentenza Fransson, punto 44. Si vedano, inoltre, le sentenze Corte giust. 15 febbraio 2016, C-601/15 PPU, N., punto 45; Corte giust. 14 settembre 2017, C-18/16, K., punto 50.
[17] Conferma di questa idea si rintraccia da ultimo nella pronuncia della Grande Sezione C-117/20, punti 50 e 53, ove si cita espressamente la causa A. e B. c. Norvegia.
[18] Cfr. Corte giust. 25 febbraio 2010, C-562/08, Müller Fleisch, punto 43; Corte giust. 9 marzo 2010, C-379/08 e C-380/08, ERG e a., punto 86; Corte giust. 19 ottobre 2016, C-501/14, EL-EM-2001, punti 37 e 39, nonché giurisprudenza ivi citata.
[19] Cfr. Menci, punti 63 e 64.
[20] Cfr. Garlsson, punti 61-63.
[21] Cfr. Di Puma e Zecca, punti 44-46.
[22] Non è mancato chi ha sostenuto che la valorizzazione del criterio della proporzionalità mantenga in capo al giudice nazionale un margine di valutazione forse troppo ampio, che potrebbe essere in qualche modo ridimensionato a mezzo della prospettazione, da parte della Corte di giustizia, di criteri precisi che lo guidino nella sua attività di interpretazione. Sul punto si veda B. Nascimbene, Ne bis in idem, diritto internazionale e diritto europeo, cit., p. 101-102.
[23] Corte giust. 15 novembre 2011, C-539/09, Commissione c. Germania, punto 72.
[24] Corte giust. 26 febbraio 2013, C-617/10, Fransson, punto 28.