argomento: Giurisprudenza - Unione Europea
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Nelle sue conclusioni, presentate il 31 maggio 2016 nel caso Achbita (causa C-157/15), relativo ad un rinvio pregiudiziale operato dalla Corte di cassazione belga, l’Avvocato generale Kokott suggerisce alla Corte di giustizia di dichiarare che il divieto posto ad una lavoratrice di fede musulmana di indossare un velo islamico sul luogo di lavoro non costituisce una discriminazione diretta fondata sulla religione, ai sensi della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, se tale divieto si fonda su una disposizione aziendale generale intesa a vietare sul posto di lavoro segni politici, filosofici e religiosi visibili, e non poggia su stereotipi o pregiudizi nei confronti di una o più religioni determinate oppure nei confronti di convinzioni religiose in generale.
Detto divieto, però, può costituire una discriminazione indiretta fondata sulla religione ai sensi della suddetta direttiva. Tuttavia, una siffatta discriminazione può essere giustificata al fine di attuare una politica di neutralità religiosa ed ideologica perseguita dal datore di lavoro nella rispettiva azienda, sempreché il principio di proporzionalità venga rispettato. A tal riguardo occorre prendere in considerazione, in particolare: le dimensioni e la vistosità del segno religioso; il tipo di attività della lavoratrice; il contesto in cui ella è tenuta a svolgere tale attività; nonché l’identità nazionale dello Stato membro interessato.
Va segnalato che, sullo stesso tema (ossia, sulla compatibilità con il diritto dell’Unione del divieto di porto del velo islamico sul luogo di lavoro), è attualmente pendente dinanzi alla Corte un’altra causa: si tratta, segnatamente, del caso Bougnaoui e ADDH (causa C-188/15), che origina da un rinvio della Cour de cassation francese.