argomento: Osservatorio
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di PATRIZIA DE PASQUALE
Immunità degli Stati dalla giurisdizione civile e diritto dell’Unione europea: le conclusioni dell’avvocato generale nel caso RINA
Patrizia De Pasquale
1. Il rapporto tra l’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile e l’ambito di applicazione del regolamento 44/2001, del 22 dicembre 2000, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (già Convenzione di Bruxelles I) è una tematica di grande interesse e merita di certo di essere esaminata in modo sistematico, così come ha fatto l’avvocato generale Maciej Szpunar, nelle conclusioni presentate il 14 gennaio 2020, C- 641/18, nel caso LG c. Rina SpA e Ente Registro Italiano Navale (d’ora in poi RINA).
È utile precisare subito che lo stesso Tribunale, in una causa gemella (Abdel Naby Hussein Mabouk Aly e altri c. Rina S.p.a.), resa l’8 marzo 2012, ha riconosciuto l’immunità di RINA dalla giurisdizione italiana quanto alle attività realizzate – direttamente dallo stesso RINA o indirettamente tramite RINA ENTE – successivamente all’assunzione della bandiera panamense da parte della nave Al Salam Boccaccio 98 e in qualità di Recognized Organization (RO) di Panama. Tale sentenza è stata poi confermata dalla Corte di appello di Genova, con sentenza n. 534/2017, del 26 aprile 2017, che ha pure escluso l’ammissibilità del quesito pregiudiziale da proporre alla Corte dell’Unione, giacché, rileva il giudice, «non si discute qui di una pretesa incompatibilità tra una norma di diritto italiano e una di diritto comunitario, e che, comunque, il profilo che gli appellanti vorrebbero sottoporre alla Corte ha già trovato soluzione nella sentenza Lechuoritou in cui la Corte di Giustizia aveva affermato che il Reg. 44/2001 (come prima la Conv. di Bruxelles del 1968) non era applicabile, perché l’eccezione di immunità presuppone la sussistenza di un atto iure imperii, come tale fuori dal campo della materia civile e commerciale proprie, invece, del Reg. 44/2001. Nel caso in esame, avendo questa Corte ritenuto la sussistenza di un atto iure imperii, per di più riferibile ad un soggetto neppure facente parte della UE, palese è l’inammissibilità della questione». Era stata rilevata cioè l’immunità del convenuto e, la conseguente impossibilità di instaurare un processo a suo carico nel foro dello Stato italiano. Infatti, è ben evidente, e non potrebbe essere altrimenti, che l’applicazione della regola dell’immunità si traduce in un’impossibilità obiettiva di esercizio della giurisdizione per via dell’estraneità del rapporto dedotto, o astrattamente deducibile in giudizio, rispetto all’ordinamento giuridico considerato, da cui discende l’inconoscibilità assoluta da parte dei giudici nazionali (art. 37 c.p.c.).
Nondimeno, quantunque, la fattispecie in esame non presenti profili diversi rispetto a quelli sui quali il giudice del rinvio era già stato chiamato a pronunciarsi e quantunque la disciplina relativa alle attività di certificazione e classificazione delle navi non sembra alimentare dubbi ragionevoli, il giudice di Genova ha ritenuto necessario interrogare la Corte di giustizia per definire il contenuto e la portata della nozione di materia civile e commerciale in rapporto alle attività in parola, in modo da stabilire con maggior grado di precisione se esse costituiscano espressione della sovranità statale e, quindi, esulino dal campo di applicazione del reg. 44/2001 e se, conseguentemente, tale regolamento sia applicabile ai fini dell’individuazione dell’autorità giurisdizionale competente a decidere su un’azione di responsabilità extracontrattuale intentata contro simili organismi per ottenere il risarcimento dei danni derivanti dal naufragio di un traghetto.
L’avvocato generale attraverso un iter argomentativo molto approfondito ha escluso che le attività di certificazione e classificazione delle navi siano da qualificare come acta iure imperii.
2. Al fine di meglio chiarire i motivi per cui le conclusioni dell’avvocato generale non appaiono convincenti è necessario, innanzitutto, ricordare che all’origine della questione in esame vi è il tragico naufragio del traghetto Al Salam Boccaccio 98, avvenuto nel febbraio 2006, che causò la morte di oltre mille persone. Una parte dei congiunti delle vittime ha citato RINA SpA e l’Ente Registro Italiano Navale, dinnanzi al Tribunale di Genova, chiedendo la condanna al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti. Più precisamente, è stato chiesto di accertare la responsabilità delle convenute per le attività svolte direttamente e, in qualità di cessionarie, come RO di Panama, dopo che la nave ha assunto la bandiera panamense. Difatti, secondo gli istanti, RINA SpA e l’Ente Registro Italiano Navale avrebbero rivestito un ruolo centrale nel naufragio, a causa di condotte negligenti nella classificazione e certificazione di sicurezza della nave, sia perché coinvolti nella progettazione e realizzazione della stessa e nelle modifiche successivamente apportate, sia per i poteri di controllo, sorveglianza, indirizzo, direzione ed autorizzazione diretti ad assicurare la sicurezza della navigazione e delle persone trasportate.
A seguito dell’eccezione di immunità giurisdizionale sollevata dalle convenute, il Tribunale di Genova, con ordinanza del 28 settembre 2018, ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di giustizia il seguente quesito pregiudiziale: «Se gli artt.1, [paragrafo] 1 e 2, [paragrafo] 1 del regolamento (CE) 22/12/2000 n. 44/2001, siano da interpretarsi – anche alla luce dell’articolo 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE, dell’articolo 6/1 della CEDU e del considerando n. 16 della Direttiva 2009/15/CE – nel senso di escludere che, in relazione a una controversia intentata per il risarcimento dei danni da morte e alla persona causati dal naufragio di un traghetto passeggeri e adducendo responsabilità per condotte colpose, un giudice di uno Stato membro possa negare la sussistenza della propria giurisdizione riconoscendo l’immunità giurisdizionale in favore di enti e persone giuridiche private esercenti attività di classificazione e/o di certificazione, aventi sede in tale Stato membro, e con riferimento all’esercizio di tale attività di classificazione e/o di certificazione per conto di uno Stato extracomunitario».
Come detto, nelle sue conclusioni, l’avvocato generale ha dichiarato il quesito ricevibile, in quanto ha rilevato che non è ben evidente se le operazioni di classificazione e di certificazione costituiscano atti iure imperii e se, di conseguenza, rientrino o meno nella nozione di materia civile e commerciale ai sensi dell’art. 1, par.1, del regolamento in parola. E, dopo aver analizzato dettagliatamente il problema, è giunto alla conclusione che la controversia trova disciplina nel citato regolamento, sebbene le convenute abbiano compiuto gli atti controversi su delega dello Stato di Panama e in esecuzione di obblighi internazionali. Precisamente, ha affermato che «l’articolo 1, paragrafo 1, del regolamento n. 44/2001 dev’essere interpretato nel senso che rientra nella nozione di «materia civile e commerciale», ai sensi di tale disposizione, un’azione di risarcimento danni diretta contro enti di diritto privato relativa ad attività di classificazione e di certificazione compiute da tali enti su delega di uno Stato terzo, per conto di quest’ultimo e nel suo interesse».
3. Il percorso logico seguito dall’avvocato generale si snoda lungo due direzioni: la nozione di atti iure imperii deve essere ricavata conformemente ad autonomi criteri del diritto dell’Unione e quella di «materia civile e commerciale» non coincide con l’ambito negativo dell’immunità giurisdizionale. E, in particolare, queste interpretazioni sarebbero da ricavare dalla sentenza Mahamdia (Corte giust. 19 luglio 2012, C-154/11).
In realtà, tali argomentazioni non appaiono condivisibili per vari motivi collegati alla natura ed alla portata dell’immunità dalla giurisdizione civile degli Stati, cosi come regolata dal diritto internazionale generale che l’Unione è tenuta a rispettare quando adotta un atto (Corte giust. 21 dicembre 2011, C-366/10, Air Transport Association of America e a.). Infatti, per giurisprudenza costante, «le competenze [dell’Unione] devono venir esercitate nel rispetto del diritto internazionale» (Corte giust. 24 novembre 1992, C-286/90, Poulsen e Diva Navigation). Di talché, contrariamente a quanto sostenuto dall’avvocato generale (punto 48), la determinazione degli atti iure imperii non può che essere rinvenuta nell’alveo del diritto internazionale. E, di conseguenza, la qualificazione delle attività di classificazione e di certificazione delle navi va stabilita sulla base di tale diritto, oltre che su quello nazionale.
Al riguardo, va evidenziato che le due attività, sebbe per oggetto e disciplina possano essere distinte, nella sostanza sono strumentali l’una all’altra. Invero, attraverso l’attività di classificazione viene valutata la qualità tecnica di una nave alla luce delle norme tecniche adottate dalle società di classificazione e viene attribuita una quotazione che esprime, soprattutto a beneficio delle compagnie di assicurazione e degli operatori marittimi, il grado di fiducia che la società di classificazione accorda ad una nave rispetto ad un determinato uso e per una durata determinata, con riferimento ai suoi regolamenti, alle sue norme e alle sue informazioni. La “classe” viene attribuita alla nave secondo i regolamenti ed i criteri predisposti dalla società di classificazione in conformità con i principi delineati dall’Organizzazione internazionale marittima (OIM).
L’attività di certificazione, invece, si sostanzia nel rilascio «dei “certificati statutari”, ossia dei certificati rilasciati da uno Stato di bandiera oppure per suo conto conformemente alle convenzioni internazionali», così come sancito dagli articoli 2 del regolamento 391/2009 e della direttiva 2009/15/UE (v. infra). Tale attività è diretta ad attestare la conformità ai requisiti di cui alle convenzioni internazionali, soprattutto con riguardo al rispetto delle regole in materia di sicurezza e di prevenzione dell’inquinamento (Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare del 1° novembre 1974 (SOLAS 74), Convenzione internazionale sulla linea di carico del 5 aprile 1966 e Convenzione internazionale per la prevenzione dell’inquinamento del mare causato da navi del 2 novembre 1973 (MARPOL).
Lo Stato di bandiera acconsente all’esercizio della nave (così realizzata e classificata) sotto la sua bandiera, accettando contestualmente che la società di classificazione della nave emetta, tramite le ispezioni cc.dd statutarie (“statutory surveys”), i DOC (Document of Compliance), i certificati SMC (Safety Management Certificate) e gli altri documenti statutari imposti dal Codice ISM (l’International Management Code for the Safe Operation of Ships and for Pollution Prevention), adottato dalla International Maritime Organization (IMO) e divenuto parte del Capitolo IX della convenzione «SOLAS».
Pertanto, vi sono due tipologie di attività certificatoria che riguardano la sicurezza di una nave, tra loro strettamente connesse: le attività di classificazione (“class surveys”) e le attività di certificazione/RO (“statutory surveys”).
L’attività di classificazione, a differenza di quella di certificazione, non implica alcuna “delega” da parte dello Stato di bandiera, ma è comunque strumentale a che si compia la seconda, nonché a “convincere” lo Stato ad attribuire la sua bandiera al naviglio. Peraltro, le due attività spesso sono svolte dalla stessa società che si trova ad operare con un doppio “cappello”: dalla sua classificazione passa l’idoneità di un’imbarcazione anzitutto a navigare e, in un secondo momento, a farlo mostrando la bandiera di uno Stato.
4. Se, dunque, tali operazioni costituiscono atti compiuti iure imperii, esse beneficiano dell’immunità dalla giurisdizione civile, in quanto, secondo la teoria dell’immunità ristretta, tale esenzione degli Stati stranieri è limitata agli atti attraverso i quali si esplica l’esercizio delle funzioni pubbliche statali e non si estende agli atti iure gestionis o iure privatorum, ossia agli atti di natura privatistica (cfr. B. Conforti, Diritto internazionale, Napoli, X ed., 2014, p. 271 ss.).
Più precisamente, la norma sull’immunità dalla giurisdizione civile – che costituisce il giusto corollario al principio di eguaglianza sovrana tra Stati, esplicitato nella massima par in parem non habet jurisdictionem – ha la funzione di proteggere da ingerenze l’esercizio del potere statale straniero, sia nella dimensione interna sia in quella esterna, e copre tanto i mezzi utilizzati per esplicitarlo quanto gli atti che ne costituiscono il risultato (R. Quadri, La giurisdizione sugli Stati stranieri, Milano, 1941, p. 95 ss.). Ciò vale a dire che l’immunità riposa sul concetto sostanziale di potere sovrano, in quanto le finalità dell’azione statale hanno sempre carattere pubblicistico, mentre la natura della sua azione può assumere rilievo privatistico.
Come noto, la norma di diritto internazionale generale relativa all’immunità ristretta è stata codificata, dapprima, nella Convenzione europea sull’immunità degli Stati (c.d. Convenzione di Basilea), adottata dal Consiglio d’Europa nel 1972 (ratificata solo da otto Stati, tra cui non figura l’Italia), e successivamente nella Convenzione sull’immunità dalla giurisdizione degli Stati e dei loro beni, adottata per consensus, il 2 dicembre 2004, dall’Organizzazione delle Nazioni Unite, ed aperta alla firma a New York il 17 gennaio 2005 (l’Italia l’ha ratificata con legge 14 gennaio 2013, n. 5). Quest’ultima Convenzione, grazie al combinato disposto degli artt. 2 e 5, stabilisce la fruizione dell’immunità solo per lo Stato, nella cui definizione, per quanto ampia, viene in rilievo il concetto di autorità.
Ed è altrettanto noto che, secondo la giurisprudenza, a costituirne la ratio del diniego di immunità sia la natura delle accuse e non il fatto che i beni lesi siano la vita o l’integrità dei danneggiati. L’esclusione dell’immunità, cioè, non può essere fondata sulla natura dei beni (vita umana) che si assumono lesi dalla condotta contestata agli agenti dello Stato straniero, ma sul grado della sua antigiuridicità (Cass., 11 marzo 2004, n. 5044, Ferrini, nonché 29 maggio 2008, n. 14201 e 20 maggio 2011, n. 11163 e Corte cost. 22 ottobre 2014, n. 238: «[…] ciò è sufficiente ad escludere che atti quali la deportazione, i lavori forzati, gli eccidi, riconosciuti come crimini contro l’umanità, possano giustificare il sacrificio totale della tutela dei diritti inviolabili delle persone vittime di quei crimini, nell’ambito dell’ordinamento interno»).
5. Va altresì osservato che l’immunità dalla giurisdizione civile copre le attività svolte dagli organi statali nell’esercizio delle loro funzioni di governo e permane anche al cessare delle stesse, giacché si tratta di attività svolte in nome e per conto dello Stato ed a questo vanno ascritte. D’altra parte, se così non fosse si potrebbe facilmente aggirare il principio della sovranità dello Stato, procedendo contro organi stranieri per attività poste in essere nell’esercizio delle loro funzioni. In sostanza, l’immunità dalla giurisdizione degli altri Stati ha un senso, logico prima ancora che giuridico, in quanto si collega – nella sostanza e non solo nella forma – con la funzione sovrana dello Stato straniero, con l’esercizio tipico della sua potestà di governo.
In tale ottica, risulta rilevante precisare che gli enti di classificazione delle navi hanno natura pubblicistica e, dunque, le loro attività di certificazione e di classificazione sono qualificabili come atti iure imperii.
Infatti, già le prime Convenzioni internazionali, dirette alla tutela di interessi generali della Comunità internazionale in relazione ad attività svolte negli spazi marittimi, chiarivano che le ispezioni e la visita delle navi devono essere effettuate dai funzionari dello Stato in cui la nave è registrata, ma che «il Governo di detto Stato può affidare l’ispezione e la visita sia a ispettori nominati a tale scopo sia a enti da esso riconosciuti. In ogni caso il Governo interessato si rende pienamente garante della completezza ed efficacia della ispezione e della visita» (regola n. 6 della Convenzione SOLAS 1914).
È pertanto ben evidente che sono gli Stati, attraverso appositi organismi espressamente autorizzati, ad essere responsabili delle operazioni di ispezione, di controllo delle navi e di rilascio dei certificati statutari, nonché dei certificati di esenzione a norma delle convenzioni internazionali. Tali funzioni, di natura pubblicistica, possono essere cioè legittimamente delegate alle società di classificazione, prevalentemente costituite come persone giuridiche di diritto privato.
Ne consegue che il carattere pubblicistico dei RO si sostanzia sia sotto il profilo soggettivo, in quanto la titolarità degli obblighi internazionali, nonostante ne sia delegata l’esecuzione, è in capo agli Stati contraenti le singole convenzioni, sia sotto il profilo oggettivo, posto che gli strumenti normativi internazionali, dai quali derivano le obbligazioni di ispezione e certificazione, mirano a garantire la sicurezza marittima e la sicurezza della navigazione.
In realtà, la facoltà di “delegare”, secondo differenti forme di autorizzazione e affidamento, è largamente utilizzata dagli Stati. Infatti, la maggior parte dei 170 Stati membri delle convenzioni IMO ha delegato le proprie attività di controllo ad organismi riconosciuti. In proposito, la Panama Maritime Authority, dove è registrata la più ampia flotta mondiale, prevede la delega completa, sia per ispezioni che per emissione di certificati, verso 32 Recognized Organizations (Panama Maritime Authority, Merchant Marine Circular 136).
Sulla natura giuridica degli enti di classificazione è intervenuta altresì l’Unione europea che ha emanato talune direttive (94/57/CE; 2001/105/CE; 2009/15/UE) volte a dettare norme comuni per gli organismi che effettuano le ispezioni e le visite di controllo delle navi e per le pertinenti attività delle amministrazioni marittime e finanche un regolamento (391/2009) per fissare e applicare uniformemente le norme professionali necessarie per le loro attività. In linea generale, tali norme affidano allo Stato di bandiera il controllo della conformità delle navi alle norme internazionali uniformi in materia di sicurezza e di prevenzione dell’inquinamento in mare e stabiliscono che tale Stato possa decidere di autorizzare determinati organismi ad eseguire, tutte o in parte, le ispezioni e i controlli relativi ai certificati statutari (ad es. considerando 5, art. 3, parr. 1 e 2 della direttiva 2009/15/UE).
Le attività dell’ente certificatore sono, dunque, una vera e propria manifestazione della potestà o capacità pubblicistica di un’amministrazione statuale straniera. Soprattutto perché soddisfano il primario interesse dello Stato di bandiera di assicurare alla comunità internazionale la sicurezza delle proprie navi, attraverso il rilascio di certificazioni di sicurezza.
6. Alla luce di quanto finora detto ne consegue che atti come quelli che si trovano all’origine del danno lamentato dai ricorrenti e, quindi, del ricorso volto ad ottenere il risarcimento dei danni da questi presentato dinanzi ai giudici italiani derivano da una manifestazione di pubblico imperio da parte dello Stato interessato (Repubblica di Panama) nel momento in cui tali atti sono stati perpetrati.
In forza dell’accordo siglato, il 20 gennaio 1998, tra RINA e il Ministero delle Finanze e del Tesoro di Panama, il primo (organismo riconosciuto secondo la normativa internazionale ed europea) ha svolto attività di ispezione e certificazione in nome e nell’interesse dello Stato di Panama. E così anche le attività svolte sulla nave Al Salam Boccaccio 98 si iscrivono nel quadro del citato accordo e, quindi, sono manifestazione della potestà pubblica dell’amministrazione statuale panamense che rimane l’unica responsabile della sicurezza delle proprie navi e risponde dell’eventuale inaffidabilità degli organismi cui abbia inteso delegare le proprie prerogative di controllo e certificazione. In altri termini, considerando la natura pubblicista di RINA Spa e dell’Ente Registro Italiano Navale e l’attività puramente pubblicistica (di certificazione) che svolgono e che assorbe quella di natura più propriamente privatistica (di classificazione), non vi è dubbio che entrambe le attività vadano iscritte automaticamente tra gli acta iure imperi e siano coperte da immunità dalla giurisdizione civile. Peraltro, seppure si volesse inquadrare la fattispecie nella concezione atomistica e separare le varie fasi dell’attività si giungerebbe alla medesima conclusione, dal momento che l’attività rilevante nella causa de qua è quella di certificazione meramente pubblicistica svolta in seguito alla delega di funzioni da parte dello Stato di Panama che, ai sensi dell’art. 92 della Convenzione di Montego Bay, in qualità di Stato bandiera ha il potere esclusivo sulla nave.
È per tale ragione che, nella causa de qua, non può trovare applicazione il regolamento 44/2001. D’altronde, la Corte di giustizia ha già avuto modo di dichiarare che «il fatto che l’attore agisca sulla base di una pretesa che trova la sua origine in un atto di pubblico imperio è sufficiente perché la sua azione, a prescindere dalla natura del procedimento che gli è offerto in questo senso dal diritto nazionale, sia considerata esclusa dall’ambito di applicazione della Convenzione di Bruxelles (v. sentenza Rüffer, [16 dicembre 1980, causa 814/79] punti 13 e 15). La circostanza che il ricorso promosso dinanzi al giudice del rinvio sia presentato come ricorso di natura civile in quanto volto ad ottenere il risarcimento pecuniario del danno materiale e morale cagionato ai ricorrenti nella causa principale è conseguentemente priva di qualsiasi pertinenza» (Corte giust. 15 febbraio 2007, C-292/05, Lechouritou, punto 41).
Invero, benché gli acta iure imperii non siano espressamente esclusi dal campo di applicazione di tale regolamento, la Corte di giustizia ha più volte stabilito che, nella materia civile e commerciale, non possono essere incluse controversie che vedono convenute entità statali per atti espressione di potestà di imperio (Corte giust. 14 ottobre 1976, 29/76, LTU). In particolare, i giudici di Lussemburgo hanno affermato che «sebbene talune decisioni emesse in controversie fra pubblica autorità e privati possano rientrare nella sfera d’applicazione della Convenzione, diversa è la situazione quando la pubblica autorità abbia agito nell’esercizio della sua potestà d’imperio» (Corte giust. 16 dicembre 1980, 814/79, Paesi Bassi c. Reinhold Rüffer, punto 8). Ed altresì che esulano dall’ambito d’applicazione della Convenzione di Bruxelles (e per ciò stesso dal regolamento 44/01) le cause tra una pubblica autorità e un soggetto di diritto privato, qualora tale autorità agisca nell’esercizio della sua potestà d’imperio (v. Corte giust. 21 aprile 1993, C-172/91, Sonntag; 1° ottobre 2002, C-167/00, Henkel; 14 novembre 2002, C-271/00, Baten; 15 maggio 2003, C-266/01, Préservatricefoncière TIARD). Di talché l’atto di imperio è sufficiente a far sì che l’azione, «indipendentemente dalla natura del mezzo che gli offra all’uopo il diritto nazionale, sia considerata esulare dall’ambito di applicazione della Convenzione di Bruxelles» (Corte giust. 28 luglio 2016, C-102/15, Siemens Aktiengesellschaft Österreich, punto 40).
Anche con riferimento specifico alla materia amministrativa, quale “nocciolo duro” dell’esercizio della potestà d’imperio, nella citata sentenza Lechouritou, la Corte ha ribadito che, qualora la pubblica amministrazione agisca nell’esercizio della sua potestà d’imperio, la natura degli atti discende direttamente da una manifestazione di prerogative di pubblici poteri «che esorbitano dalla sfera delle norme di diritto comune applicabili ai rapporti tra privati» (punto 34). Ed ancora che l’immunità è riconosciuta nell’ipotesi in cui la controversia riguardi «atti rientranti nel potere di sovranità, esercitati iure imperii» (Mahamdia, sopra citata, punto 55). In sostanza, nello statuire in merito all’ambito di applicazione della Convenzione di Bruxelles, la Corte di giustizia lo esclude, accordando rilevanza soltanto ed esclusivamente alla natura degli atti di pubblico imperio che costituiscono il fondamento dell’azione principale, ma non alla materia in cui rientrano.
Tale giurisprudenza trova poi conferma nell’art. 1, par. 1, del regolamento di refusione 1215/2012 che espressamente stabilisce: «Esso non si estende, in particolare, alla materia fiscale, doganale e amministrativa né alla responsabilità dello Stato per atti o omissioni nell’esercizio di pubblici poteri (acta iure imperii)» (v. anche reg. 805/2004 e reg. 1896/2006).
Per tutti questi motivi le conclusioni dell’avvocato generale suscitano più di una perplessità, soprattutto laddove afferma che «Neppure il fatto che le operazioni di classificazione e di certificazione siano state effettuate per conto e nell’interesse di uno Stato delegante è di per sé decisivo per qualificare tali operazioni come compiute nell’esercizio di pubblici poteri ai sensi della giurisprudenza relativa all’articolo 1, paragrafo 1, del regolamento n. 44/2001. Vero è che la lettura della pertinente giurisprudenza della Corte potrebbe indurre a pensare che l’esercizio di talune funzioni nell’interesse perseguito dallo Stato escluda una controversia dalla materia civile e commerciale» (punti 71 e 72).
È chiaro, invece, che l’obiettivo generale di un atto, dedotto dal contesto nel quale quest’ultimo è intervenuto, basti di per sé per dichiarare che detto atto costituisca una manifestazione di potestà d’imperio.
7. Infine, non va dimenticato – e lo stesso avvocato generale lo sottolinea (punti 145-151) – l’immunità giurisdizionale non è in contrasto con l’art. 47 della Carta e l’art. 6, par. 1, della CEDU, che sanciscono il diritto ad un giudice imparziale precostituito e ad un equo processo. Difatti, riconoscere l’immunità dello Stato estero non costituisce una restrizione ingiustificata del diritto di adire una Corte (Corte EDU, 14 gennaio 2014, Jones ed altri c. Regno Unito, ricc n. 34356/06 e 40528/06).
L’immunità dalla giurisdizione del giudice italiano (in quanto giudice straniero) con tutta evidenza non comporta l’immunità dalla giurisdizione del giudice panamense. Altrimenti detto, il riconoscimento dell’immunità giurisdizionale non impedisce all’attore di avviare un procedimento dinanzi ai tribunali dello Stato di Panama, in quanto questi ultimi sono competenti a conoscere di un’azione diretta contro tale Stato.
A tal proposito va osservato – seppure in senso più generale – che, sebbene la Corte internazionale di giustizia abbia affermato che il diritto all’immunità giurisdizionale non dipenda dall’esistenza di altri strumenti effettivi che permettano di ottenere la riparazione e, cioè, dall’esistenza di un altro foro disponibile (sentenza del 3 febbraio 2012, Germania c. Italia, punto 101), essa non può comportare il sacrificio totale del diritto alla tutela giurisdizionale dei diritti fondamentali della persona.
Invero, anche la nostra Corte costituzionale ha precisato che «in una prospettiva di realizzazione dell’obiettivo del mantenimento di buoni rapporti internazionali, ispirati ai principi di pace e giustizia, in vista dei quali l’Italia consente a limitazioni di sovranità (art. 11 Cost.), il limite che segna l’apertura dell’ordinamento italiano all’ordinamento internazionale e sovranazionale (artt. 10 e 11 Cost.) è costituito […] dal rispetto dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili dell’uomo, elementi identificativi dell’ordinamento costituzionale» (Corte cost. 22 ottobre 2014, sopra citata, punto 3.4. V. altresì Corte EDU, Jones e altri c. Regno Unito).
In tale ottica vanno lette le osservazioni dell’avvocato generale (punti 138-144) sulla necessità che gli obblighi di diritto internazionale, pattizi o consuetudinari, non devono porre in discussione la struttura costituzionale ed i valori sui quali l’Unione si fonda, tra i quali il diritto ad una tutela giurisdizionale effettiva. Tutela che nel caso in esame può essere assicurata dal giudice di Panama.
La parola passa ora alla Corte. Essa dovrà far chiarezza sul delicato tema della qualificazione delle attività di classificazione e/o di certificazione di una nave, svolte per conto di uno Stato extracomunitario, cercando di coordinare la tutela della sovranità e il perseguimento di interessi condivisi dalla comunità internazionale nel suo insieme con la Convenzione di Bruxelles I e gli interessi degli Stati membri nello specifico settore della cooperazione in materia civile e commerciale.