Le opinioni espresse sono personali. Il presente scritto riprende, estendendolo ed aggiornandolo, P. IANNUCCELLI, L’articolo 344 TFUE e l’autonomia del sistema giurisdizionale dell’Unione europea: la Corte di giustizia verso un vicolo cieco, in K. LENAERTS (a cura di), Liber Amicorum Antonio Tizzano. De la Cour CECA à la Cour de l’Union: le long parcours de la justice européenne, Torino, 2018, p. 397.
Partendo dall’interpretazione dottrinale della disposizione ora contenuta nell’art. 344 TFUE, il presente articolo esamina la giurisprudenza che si è occupata di tale disposizione per dimostrare come la Corte di giustizia ne abbia estrapolato il principio di autonomia dell’Unione e del suo diritto. Tale principio, seppur non definito dalla Corte, è stato da questa applicato in svariati contesti e interpretato sotto angolature diverse allo scopo di difendere le specificità e la natura propria dell’ordinamento dell’Unione. Questo approccio difensivo trova recente conferma nella sentenza Achmea la quale, pur convincente nel suo risultato di escludere la possibilità che due Stati membri sottraggano al sistema giurisdizionale dell’Unione, composto dalla Corte e dai giudici nazionali, controversie riguardanti l’interpretazione o l’applicazione del diritto dell’Unione, apre interrogativi sulle conseguenze della decisione adottata dalla Corte tanto sull’autonomia interna dell’Unione che, soprattutto, su quella esterna. Benché la Corte stessa abbia rassicurato sulla portata del dictum in quella sentenza su tali conseguenze, in chiusura l’articolo rileva le difficoltà che la Corte dovrà sormontare per distinguere la causa che ha dato luogo alla menzionata sentenza e quella avente ad oggetto il pendente procedimento di parere sul CETA.
After a brief overview of the scholar interpretation of what is now Art. 344 TFEU, this article analyses the case law dealing with that provision and tries to demonstrate how the Court of justice extracted form it the principle of autonomy of the Union and of its legal order. Without clearly defining that principle, the Court applied it to different contexts and construed it under different viewpoints in order to defend the specificities and the very nature of the Union legal order. This defensive approach has been recently confirmed in the Achmea judgement. In that case the Court persuasively found that Member States are not entitled to enter into an agreement between themselves in order to remove from the system of judicial remedies of the Union – comprising both the Court of justice and national judges – disputes which may concern the application or interpretation of EU law. Nevertheless, that decision casts doubts on its consequences on the internal autonomy of the Union and, particularly, on the external autonomy. Even if the Court itself tried to contain such consequences, the article points at the difficulties that the Court will have to overcome when it will be called to distinguish the case Achmea from the case under scrutiny in the opinion procedure concerning the CETA.
KEYWORDS
Court of justice – Judicial system of the European Union – Autonomy principle – External relations – Arbitral clauses
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I. Introduzione. - II. Cenni sull’origine e l’interpretazione tradizionale dell’art. 344 TFUE in dottrina. - III. L’applicazione giurisprudenziale: l’art. 344 TFUE come espressione di un principio generale di tutela dell’autonomia dell’ordinamento. - IV. Le conseguenze della chiusura del sistema - V. Conclusione. - NOTE
Molteplici sono le specificità che fanno dell’Unione europea un ordinamento giuridico di nuovo genere[1] e l’organizzazione del potere giudiziario ne è senz’altro una delle più rilevanti. In effetti, la struttura dell’ordinamento e le caratteristiche del suo diritto sono alla base di un’architettura giurisdizionale particolarmente sofisticata che riflette le relazioni complesse tra l’ordinamento dell’Unione e quelli degli Stati membri. La sofisticazione di tale architettura era per lo più implicita nelle disposizioni dei trattati originari, tanto che solo pochi all’epoca ne colsero quelle potenzialità che la giurisprudenza successiva della Corte avrebbe esplicitato e perfezionato. Da ultimo, i redattori dei trattati hanno preso atto di tali sviluppi con la disposizione dell’art. 19 TUE, autentico capolavoro di sintesi e condensazione che, peraltro proprio per questo, ha permesso alla Corte di perfezionare ulteriormente la sua idea dell’organizzazione del potere giudiziario nell’ambito dell’Unione. L’assemblea plenaria della Corte ha così riassunto nelle sue considerazioni preliminari della parte motiva del parere 2/13 [2] cinquant’anni di giurisprudenza e lo ha fatto prendendo le mosse proprio dalle peculiarità strutturali dell’ordinamento dell’Unione e del suo diritto per sottolineare, con enfasi forse inedita ma ribadendo un’impostazione ben consolidata [3], il rispettivo ruolo della Corte di giustizia e delle giurisdizioni nazionali. In sostanza, il carattere esclusivo della giurisdizione della Corte si stempera [4] a vantaggio della giurisdizione diffusa del giudice nazionale e resta quindi limitato alle sole azioni che la Corte è, appunto, esclusivamente competente a conoscere, senza tuttavia esaurire la missione dell’interpretazione e applicazione del diritto dell’Unione che è invece condivisa con le giurisdizioni nazionali. Il ruolo complementare di queste ultime si riflette nella chiave di volta [5] che sorregge il sistema, ovvero il dialogo tra le une e l’altra nell’ambito del rinvio pregiudiziale previsto dall’art. 267 TFUE. Alla luce di questa visione del sistema nel suo complesso, può assumere una rinnovata rilevanza l’art. 344 TFUE, disposizione [continua ..]
L’art. 344 TFUE, che sostituisce l’art. 292 CE, il quale, a sua volta, aveva preso il posto dell’art. 219 CEE, contiene una norma che è rimasta invariata fin dai trattati originari. La sua interpretazione tradizionale in dottrina ricollegava il divieto imposto agli Stati membri all’esigenza di creare un sistema “chiuso” e “autosufficiente” il quale doveva essere protetto, sul piano normativo, dall’interferenza di fenomeni esterni all’allora Comunità[9]. In un’ottica pertanto squisitamente internazionalistica, alla disposizione si riconosceva un ruolo di protezione del sistema dalla possibilità che gli Stati membri si rivolgessero a terzi estranei ad esso per risolvere delle controversie aventi ad oggetto l’interpretazione o l’applicazione del trattato [10]. Peraltro, il divieto era considerato assoluto, nel senso che esso non escludeva che la controversia restasse irrisolta se non poteva essere composta nei modi previsti dai trattati [11]. Da ciò, l’interpretazione prevalente della disposizione era quella di considerarla una clausola di giurisdizione esclusiva a favore della Corte [12]; e questo anche se, in realtà, i modi di risoluzione delle controversie previsti dai trattati non si esaurivano con le competenze giurisdizionali della Corte [13], ma potevano, ad esempio, includere anche quelli di carattere non giurisdizionale previsti sempre dal trattato o dal diritto derivato [14]. Nell’interpretazione prevalente, poi, la disposizione in parola riguardava solo le controversie tra Stati membri [15]. Per molto tempo, la Corte non ha avuto occasione di interpretare la disposizione di cui si tratta e così la lettura che ne è stata data in dottrina è rimasta per lo più univoca ed invariata nel tempo [16], caratterizzandosi, in sostanza, per una visione internazionalista (che all’epoca era perfettamente giustificata) e quindi piuttosto restrittiva nella misura in cui ne riduceva il contenuto nel senso di perfezionare un’endiadi con l’art. 170 CEE (227 CE e 259 TFUE) rendendo cioè obbligatorio il ricorso alla procedura di infrazione da questo prevista nel caso di controversia tra Stati membri. Per la verità, tuttavia, pur mantenendo la disposizione nell’alveo dei conflitti interstatali, vi [continua ..]
In effetti, fin dal suo citato parere 1/91, la Corte ha letto la disposizione in parola da una prospettiva generale, non prescindendo certo dal testo letterale, ma inserendola nel sistema; ciò le ha permesso di considerare che essa sarebbe stata violata se gli Stati membri avessero concluso un accordo in virtù del quale un organo giurisdizionale, esterno alla Comunità e creato da tale accordo, avesse potuto pronunciarsi sulle competenze rispettive della Comunità e dei suoi Stati membri per le materie disciplinate da tale accordo, così violando la competenza esclusiva della Corte [18]. E successivamente, nella sentenza detta dello stabilimento MOX la Corte ha aggiunto che è del pari contrario a tale disposizione il comportamento di uno Stato membro che sottopone una controversia sull’interpretazione di un accordo internazionale ad un organo creato da tale accordo che regola una materia da considerarsi di competenza della Comunità, dal momento che questa l’ha esercitata aderendo all’accordo stesso, il quale è così diventato parte integrante dell’ordinamento giuridico comunitario [19]. In tale giurisprudenza la Corte fa quindi leva sulla disposizione in parola per sottolineare sì il carattere esclusivo della sua giurisdizione, ma solo in quanto espressione dell’autonomia dell’ordinamento giuridico comunitario rispetto agli Stati membri, la quale sembra diventare essa stessa l’oggetto della tutela predisposta con tale disposizione piuttosto che l’esclusività della giurisdizione della Corte. L’ancoraggio ad una siffatta interpretazione estensiva della disposizione in parola risiede nel principio di leale cooperazione. La Corte, sempre nella sentenza dello stabilimento MOX [20], precisa, infatti, che l’art. 292 CE impone agli Stati membri l’obbligo di ricorrere al sistema giurisdizionale comunitario proprio in quanto manifestazione specifica del dovere generale di lealtà. Certo, nell’ipotesi di una controversia tra Stati membri, come quella oggetto di tale causa, ciò implica il rispetto della competenza esclusiva della Corte che di quel sistema costituisce un tratto fondamentale. Tuttavia, la portata dell’art. 292 CE sembra qui essere, almeno in parte, svincolata dal mero testo letterale e collegata, appunto, ad un più ampio principio di [continua ..]
Se un tale approccio è senz’altro giustificato sia per la logica del sistema sia per l’esigenza di preservare un ordinamento specifico come quello dell’Unione la cui autonomia è sottoposta a possibili interferenze non solo esterne da parte di soggetti terzi, ma anche interne, da parte degli Stati membri[29], esso potrebbe anche rivelarsi di eccessiva chiusura [30]. E le conseguenze potrebbero essere particolarmente rilevanti, per quanto riguarda tanto l’autonomia interna che quella esterna. a) Per quanto riguarda l’autonomia interna, quella cioè intesa a preservare l’Unione dalle ingerenze degli Stati membri, la questione si risolve, in fondo, nel grado di libertà che il diritto dell’Unione ancora riconosce agli Stati membri nel prevedere modi alternativi di composizione delle controversie riguardanti l’interpretazione o l’applicazione dei trattati. Ebbene, l’art. 344 TFUE non potrebbe essere più chiaro: tale grado di libertà è nullo. Ma questo è vero, ovviamente, solo fintantoché la controversia in questione rientri nell’ambito di applicazione di tale disposizione o, quantomeno, del principio di autonomia di cui questa è manifestazione. Il che dipende dal suo oggetto e dalle parti che essa oppone. In merito all’oggetto, va rilevato che l’ambito di applicazione dell’art. 344 TFUE è piuttosto esteso, senz’altro più di quello dell’art. 273 TFUE, il quale fa riferimento alle controversie «in connessione con l’oggetto dei trattati». Pertanto, ne sono senz’altro escluse solo quelle controversie che riguardano l’applicazione e l’interpretazione di un accordo internazionale [31]. Invece, rientrano nell’art. 344 TFUE tutte le controversie che riguardino non solo l’applicazione in via diretta del diritto dell’Unione [32], ma anche la mera interpretazione di tale diritto, eventualmente ai fini dell’applicazione del diritto internazionale, cioè di un accordo tra Stati membri. È quanto la Corte ha precisato nella sentenza Achmea, la quale, come detto, riguardava le controversie instaurate davanti ad un tribunale arbitrale da un privato contro uno Stato membro ed aventi ad oggetto l’applicazione di un trattato bilaterale d’investimento tra due Stati membri. Secondo la [continua ..]
Nella sua semplicità l’art. 344 TFUE positivizza un principio generale inerente al sistema e di portata costituzionale. La linea di giurisprudenza che ha interpretato e applicato quella disposizione si è così ben presto affrancata dal suo tenore letterale per attingere direttamente alla sua radice che affonda, appunto, nel principio di autonomia. Una volta liberatasi dai lacci di una disposizione la cui lettera non riusciva ad assorbire nella sua interezza il contenuto di quel principio, la Corte si è ben guardata dal fornire, dell’autonomia, una definizione precisa, preferendo invece preservarne la plasticità e la malleabilità. E così, con un procedimento autopoietico [63], ha dato vita e plasmato una materia in continuo divenire che si nutre, oltre che di un ingrediente dal valore quasi taumaturgico come l’autonomia, anche della leale cooperazione e dell’effettività. Si potrebbe anzi affermare che questi tre ingredienti compongono la materia prima costituzionale dell’ordinamento dell’Unione che, sapientemente lavorata dalla Corte, ha dato vita agli elementi caratterizzanti del diritto dell’Unione stessa, e, in primis, al primato e all’effetto diretto di questo, i quali, senza quelli, non troverebbero giustificazione alcuna. A onor del vero, tuttavia, benché la Corte abbia effettivamente declinato l’autonomia in svariati modelli, tutti sono riconducibili alla semplice etimologia della parola stessa che si riferisce alla facoltà di governarsi da sé, con proprie leggi, e di agire indipendentemente da determinazioni esterne. In effetti, la nozione di ordinamento sui generis su cui si basano già le sentenze Van Gend en Loos [64] e Costa c. ENEL [65] già conteneva l’idea di autonomia strutturale tanto dal diritto internazionale quanto dagli Stati membri, idea confermata e sviluppata decenni dopo nel parere 2/13, in cui la Corte, basandosi sulla sua giurisprudenza, esige che sia autonoma non solo la struttura dell’Unione, ma anche il suo contenuto e, pertanto, il sistema giurisdizionale chiamato ad interpretarne il diritto, in particolare i diritti fondamentali i quali partecipano della struttura costituzionale stessa del sistema che, senza un’adeguata protezione di questi, si snaturerebbe. La protezione dell’autonomia quindi trascende in [continua ..]