argomento: Osservatorio - Unione Europea
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di Fabio Ferraro
1. Il tema dell’iniziativa dei cittadini europei (ICE) ha conquistato negli ultimi anni una notevole attenzione e suscitato un acceso dibattito dottrinale, culturale e politico (cfr., ex multis, anche per gli ulteriori riferimenti bibliografici, R. Mastroianni - A. Maffeo (a cura di), L’iniziativa dei cittadini europei, Napoli, 2015; v. inoltre la Risoluzione del Parlamento europeo del 28 ottobre 2015 sull'iniziativa dei cittadini europei, consultabile sul sito http://www.europarl.europa.eu), che appare in netto contrasto con il diffuso pessimismo dell’opinione pubblica rispetto al processo di integrazione europea e con il dilagare dei movimenti di ispirazione sovranista.
Questo interesse è cresciuto sensibilmente con l’approvazione del Regolamento (UE) n. 211/2011 del Parlamento europeo e del Consiglio, che ha dato concreta attuazione agli artt. 11, par. 4, TUE e 24, comma 1, TFUE e fornito all’ICE una più precisa fisionomia. L’elevato numero di iniziative presentate dall’adozione di questo Regolamento ad oggi dimostra che i cittadini europei ripongono molte aspettative in questo strumento di democrazia partecipativa (v. http://ec.europa.eu/citizens-initiative/public/), il quale rappresenta una novità di assoluto rilievo che non trova riscontro negli omologhi istituti nazionali.
Nondimeno, le criticità emerse nell’applicazione pratica del nuovo istituto e la progressiva diminuzione, in termini percentuali, del numero delle iniziative presentate nell’ultimo periodo rischiano di ridimensionarne la portata e di fargli perdere appeal. Le preoccupazioni si accentuano se si considera che finora nessuna iniziativa si è tradotta in una vera e propria proposta legislativa da parte della Commissione europea (sul punto, si permetta di rinviare a F. Ferraro, L’iniziativa dei cittadini europei alla prova dei fatti, in R. Mastroianni - A. Maffeo, cit., p. 57). Nonostante quest’ultima abbia riconosciuto alcune lacune nel funzionamento dell’ICE e si sia impegnata ad apportare dei correttivi, avviando anche una consultazione pubblica per raccogliere suggerimenti (v. http://ec.europa.eu/info/consultations/public-consultation-european-citizens-initiative_it), sono spesso emerse, del resto, differenze di vedute rispetto alla gestione delle proposte di ICE tra la Commissione e i comitati dei cittadini, le quali hanno dato origine a un ampio contenzioso dinanzi al Tribunale dell’Unione.
In particolare, il giudice dell’Unione ha recentemente accolto il ricorso introdotto da un comitato promotore contro il rifiuto della Commissione di registrare un’iniziativa denominata “Stop TTIP” (sentenza del 10 maggio 2017, causa T-754/14, Efler c. Commissione). La sentenza, che segue a breve distanza un’analoga pronuncia dello stesso Tribunale (sentenza del 3 febbraio 2017, causa T-646/13, Minority SafePack – one million signatures for diversity in Europe c. Commissione), segnando così una nuova “sconfitta” della Commissione, fissa principi che vanno ben oltre la risoluzione del caso concreto e che meritano qualche riflessione. Per poterne cogliere appieno le sfumature occorre preliminarmente fornire dei cenni sugli elementi salienti dell’ICE.
2. Il Regolamento n. 211/2011 disciplina un procedimento amministrativo “su misura” per l’ICE, che riflette la sua natura complessa e sui generis. Tale procedimento può essere convenzionalmente suddiviso in diverse fasi: 1) avvio dell’iniziativa e costituzione del comitato dei cittadini; 2) registrazione formale dell'iniziativa; 3) raccolta delle dichiarazioni di sostegno (ed eventuale certificazione del sistema di raccolta on-line); 4) verifica delle dichiarazioni di sostegno; 5) presentazione della proposta; 6) esame e risposta da parte della Commissione.
Da un punto di vista generale, le disposizioni del Regolamento e, conseguentemente, del relativo procedimento sono fortemente influenzate dalla concezione tradizionale dell’equilibrio istituzionale dell’Unione che attribuisce alla Commissione la competenza esclusiva di determinare l’oggetto, le finalità e il contenuto delle proposte legislative, in quanto portatrice dell’interesse generale dell’Unione, «salvo che i Trattati non dispongano diversamente» (art. 17, par. 2, TUE). L’orientamento espresso dalla Corte di giustizia in ordine all’equilibrio istituzionale dell’Unione conferma questo monopolio – o quasi monopolio - dell’iniziativa legislativa della Commissione, là dove riconosce a tale istituzione la prerogativa generale di ritirare le sue proposte fintantoché il Consiglio non abbia deliberato (sentenza del 14 aprile 2015, causa C-409/13, Consiglio dell’Unione europea c. Commissione europea; cfr. R. Adam, Il potere d’iniziativa della Commissione e il processo decisionale: il difficile equilibrio tra ritiro della proposta e potere decisionale, in A. Tizzano (a cura di), Verso i 60 anni dai Trattati di Roma, Stato e prospettive dell’Unione europea, 2016, p. 21).
In questo quadro generale si colloca l'ICE, che non costituisce un’eccezione a quel monopolio, ma va accomunata agli altri analoghi strumenti dell’Unione previsti dagli artt. 225 e 241 TUE in favore del Parlamento europeo e del Consiglio, che vengono definiti di “preiniziativa legislativa” ovvero di “iniziativa dell’iniziativa" (cfr. V. Cuesta Lopez, The Lisbon Treaty’s Provisions on Democratic Principles: A Legal Framework for Participatory Democracy, in EPL, 2010, p. 123, p. 137; M. Morelli, La democrazia partecipativa nella governance dell’Unione europea, Milano, 2011, p. 49; D. Szeligowska - E. Mincheva, The European Citizens’ Initiative–Empowering European Citizens within the Institutional Triangle: A Political and Legal Analysis, in Perspectives on European Politics and Society, 2012, p. 65). In pratica, il Parlamento europeo, il Consiglio e i cittadini dell’Unione (attraverso l’ICE) non possono direttamente proporre l’adozione di un atto giuridico dell’Unione, ma sono soltanto legittimati a chiedere alla Commissione di presentare eventualmente una proposta.
Al di là dell'esatta qualificazione giuridica dell'ICE, le stringenti condizioni previste nel Regolamento rendono particolarmente difficile che un'iniziativa possa essere realizzata dal basso senza il coinvolgimento di gruppi di interesse organizzati, lobbies o associazioni. Invero, l’iniziativa di invitare la Commissione a presentare una proposta è subordinata non solo al sostegno di un milione di cittadini provenienti da almeno sette Stati membri e di un numero di firme minime in ogni Stato membro, ma anche al rispetto di ulteriori e stringenti obblighi stabiliti nel Regolamento.
In particolare, prima di iniziare la raccolta delle dichiarazioni di sostegno dei firmatari per un’ICE, il comitato è tenuto a presentare una specifica richiesta di registrazione alla Commissione europea in una delle lingue ufficiali dell’Unione, nonché a fornire alcune informazioni fondamentali (riguardanti il titolo dell’iniziativa, la descrizione dell’oggetto, gli obiettivi, i dati necessari per contattare i membri del Comitato e le forme di finanziamento dell’iniziativa).
La Commissione deve registrare l’iniziativa entro due mesi dalla data di ricevimento delle informazioni, a meno che non decida di rifiutarla perché non sono rispettate le seguenti condizioni preliminari, previste dall’art. 4, par. 2, del Regolamento 211/2011: il comitato dei cittadini è stato costituito e le persone di contatto sono state designate; l’iniziativa non esula manifestamente dalla competenza della Commissione di presentare una proposta di atto legislativo dell’Unione ai fini dell’applicazione dei Trattati; l’iniziativa non è manifestamente ingiuriosa, futile o vessatoria; e l’iniziativa non è manifestamente contraria ai valori dell’Unione quali enunciati nell’art. 2 TUE. In pratica, è stato creato un filtro che consiste nel devolvere alla Commissione il compito di adottare una decisione preliminare sull’ammissibilità dell’iniziativa, in modo da evitare che l’istituto sia utilizzato illegittimamente o al solo fine di ottenere una visibilità pubblica. Vero è, però, che la Commissione ha rigettato diverse iniziative in base a un’interpretazione del Regolamento eccessivamente restrittiva, che vanifica di fatto lo sforzo partecipativo di molti cittadini dell’Unione. Un esempio paradigmatico di tale orientamento risulta dal fatto che la Commissione si rifiuta finanche di dichiarare l’iniziativa parzialmente ammissibile. A ben vedere, tuttavia, le responsabilità di questa istituzione vanno condivise con gli stessi organizzatori, che hanno spesso presentato iniziative lacunose, poco comprensibili e non correttamente motivate.
Ciò premesso, una volta superato lo scoglio della registrazione, gli organizzatori possono cominciare a raccogliere su carta e/o online le dichiarazioni di sostegno dei cittadini entro 12 mesi, secondo modalità che variano da Paese a Paese. Dopo aver raccolto tali dichiarazioni, gli organizzatori devono chiedere alle autorità nazionali competenti di ogni Stato membro di certificare il numero delle dichiarazioni valide per quel paese.
Il passaggio successivo è costituito dalla presentazione dell'iniziativa alla Commissione, insieme alle informazioni sul valore del sostegno e dei finanziamenti ricevuti per l'iniziativa. In quest’ultima fase, la Commissione pubblica la proposta dei cittadini, riceve gli organizzatori per consentire loro di presentare la loro iniziativa ed entro tre mesi espone in una comunicazione motivata le conclusioni raggiunte e le azioni che eventualmente intende intraprendere (art. 10, par. 1). Gli organizzatori hanno l’opportunità di presentare la loro iniziativa mediante un’audizione pubblica presso il Parlamento europeo, se del caso con la presenza – oltre che della Commissione – delle altre istituzioni e degli organismi interessati a parteciparvi. L'eventuale audizione può rappresentare uno dei passaggi più significativi del procedimento, fermo restando che tale discussione pubblica attenua, ma non risolve, i dubbi espressi in merito al doppio ruolo esercitato dalla Commissione, prima nella valutazione dell'ammissibilità dell'iniziativa e successivamente sul seguito da dare alla stessa (P. Ponzano, L'initiative citoyenne européenne: la démocratie participative à l'épreuve, in RDE, 4, 2012, p. 622).
3. Delineato per sommi capi il quadro generale dell'ICE, passiamo ora ad esaminare nel merito le questioni che hanno dato origine al contenzioso che ha portato alla sentenza Efler. E va subito detto che questo ha riguardato essenzialmente la fase del procedimento dell’ICE in relazione alla quale si sono finora manifestati i maggiori conflitti tra organizzatori e Commissione, ossia la registrazione delle iniziative. Avvalendosi delle sue competenze, infatti, la Commissione europea, con decisione del 10 settembre 2014, aveva negato l’ammissibilità della proposta di ICE “Stop TTIP”.
E’ il caso di ricordare che l’iniziativa in questione è nata con l’intento di ostacolare il negoziato e la conclusione del TTIP (Transatlantic Trade and Investiment Partnership) e del CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement), facendo leva sul fatto che i temi negoziali conterrebbero vari aspetti critici, quali procedure di risoluzione delle controversie tra investitori e Stati e disposizioni sulla cooperazione normativa, che, a detta dei promotori, costituirebbero una minaccia per la democrazia e lo Stato di diritto. Correlativamente, tale iniziativa è finalizzata ad evitare sia che negoziati poco trasparenti conducano ad un indebolimento delle norme sulla tutela del lavoro, dell’ambiente e della vita privata, e sulla protezione sociale e dei consumatori, sia che i servizi pubblici e la cultura siano deregolamentati. Infine, la proposta di ICE intende sostenere la necessità di una differente politica commerciale e di investimenti nell’Unione europea, ponendo a fondamento generale del suo potere d’impulso gli artt. 207 e 218 TFUE, che disciplinano, rispettivamente, la politica commerciale comune e la procedura unificata per la conclusione di accordi internazionali.
Ebbene, ella sua decisione di rigetto del settembre 2014 la Commissione europea ha segnatamente affermato che la revoca di un mandato negoziale non può essere considerata un atto giuridico dell’Unione, bensì un atto interistituzionale meramente preparatorio. Secondo la Commissione, infatti, tale revoca produrrebbe effetti giuridici unicamente tra le istituzioni interessate, senza modificare il diritto dell’Unione, diversamente da quanto avviene nel caso della decisione di firmare e concludere un determinato accordo, decisione che potrebbe costituire invece l’oggetto di un’ICE. Pertanto, la Commissione è arrivata alla conclusione che l’iniziativa in questione esuli dalle sue competenze a presentare una proposta di atto giuridico ai fini dell’attuazione dei Trattati.
Nel loro ricorso al Tribunale dell’Unione per l’annullamento di tale decisione i promotori del Comitato “Stop TTIP” hanno sostanzialmente dedotto due motivi di ricorso: la violazione dell’art. 11, par. 4, TUE e del regolamento 211/2011 (artt. 2, par. 1, e 4, par. 2, lett. b), e quella del principio della parità di trattamento.
4. Con la sentenza in commento, il Tribunale ha accolto il primo di questi motivi, non pronunciandosi invece sul secondo. Il percorso argomentativo della pronuncia conduce all’affermazione di una nozione di atto giuridico, ai sensi dell’art. 11, par. 4, TFUE, dell’art. 2, par. 1, del regolamento n. 211/2011 e dell’art. 4, par. 2, lettera b), del medesimo regolamento, che non può essere intesa, in assenza di qualsiasi indicazione in senso contrario, come limitata ai soli atti giuridici dell’Unione a carattere definitivo e che producono effetti giuridici nei confronti di terzi.
Il Tribunale ha infatti definito in modo estensivo e non formale gli atti giuridici idonei ad essere proposti attraverso lo strumento dell’ICE, ricomprendendo in questo ambito la decisione di avvio di negoziati finalizzati alla conclusione di un accordo internazionale. Incidentalmente, si noti che il Tribunale accoglie un'interpretazione di atti giuridici più ampia di quella fornita dalla Corte di Lussemburgo in relazione agli atti impugnabili ai sensi dell'art. 263 TFUE, che comprende invece soltanto gli atti definitivi emanati dalle istituzioni nell'esercizio del loro potere d'imperio e produttivi di effetti obbligatori nei confronti dei terzi. Da ciò sembra discendere un’asimmetria tra gli atti che possono essere oggetto di un’ICE e gli atti che possono essere oggetto di un’azione di annullamento.
Al tempo stesso, il Tribunale ha evidenziato a chiare lettere che i c.d. atti «distruttivi», tra i quali rientrano le decisioni del Consiglio di non firmare o di non concludere il TTIP e il CETA, contribuiscono all’attuazione dei Trattati in quanto volti a modificare l’ordinamento dell’Unione. In tal modo, il Tribunale non ha condiviso la tesi della Commissione secondo cui tali atti non potrebbero costituire l’oggetto di una ICE, accogliendo invece l’argomento dei ricorrenti secondo il quale l’obiettivo della partecipazione alla vita democratica dell’Unione include la facoltà di chiedere la modifica di atti giuridici in vigore o la loro revoca, totale o parziale.
Sotto il profilo più strettamente politico, il Tribunale ha contribuito a ristabilire la giusta rilevanza del principio della democrazia partecipativa, che sarebbe risultato sensibilmente limitato dall’interpretazione restrittiva fornita dalla Commissione. E non si può che condividere l'enfasi da esso posta sul principio generale di democrazia che costituisce uno dei valori fondamentali e identitari dell’Unione, richiamato nel preambolo e nell’art. 2 del TUE, nonché nel preambolo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Queste affermazioni di principio si legano, nella sostanza, alla constatazione della sentenza che non è «giustificata l’esclusione dal dibattito democratico di atti giuridici volti alla revoca di una decisione che autorizza l’avvio di negoziati finalizzati alla conclusione di un accordo internazionale, così come di atti volti ad impedire la firma e la conclusione di tale accordo» (punto 43). Nel contempo, il Tribunale non ha ritenuto invece sufficiente la legittimazione democratica indirettamente esercitata dal Consiglio e dalla Commissione, giacché queste istituzioni svolgono un ruolo autonomo e distinto rispetto a quello dei cittadini nella partecipazione all’attività legislativa. In effetti, gli interessi dei cittadini europei non possono essere tutelati in modo esauriente dalle istituzioni che rappresentano gli interessi generali dell’Unione (Commissione) e degli Stati (Consiglio). Il ruolo dei cittadini, unitamente a quello del Parlamento europeo, andrebbe valorizzato piuttosto che ridimensionato se l'obiettivo è quello di far avanzare di pari passo il processo di integrazione europea e legittimazione democratica.
5. Leggendo in filigrana la sentenza, non tutte le argomentazioni ivi contenute vanno tuttavia nella direzione auspicata dai sostenitori dell’ICE. Specificatamente, la sentenza sembra fare un passo indietro allorquando evidenzia l’ampia discrezionalità della Commissione nel decidere se dare o meno seguito ad un’ICE (punto 46), sia pure per riconoscere il diritto dei cittadini di ottenere la registrazione di una proposta di atto che intende impedire la conclusione del TTIP e del CETA.
Si tratta di una delle motivazioni più significative della sentenza che, pur passando quasi inosservata, prende espressa posizione sulla delicata e controversa questione del potere della Commissione europea di rigettare un’iniziativa. Invero, la sentenza statuisce che proprio la discrezionalità di tale istituzione nella presentazione della proposta consentirebbe di evitare un’ingerenza dell’ICE nello svolgimento della procedura legislativa in corso, sicché la registrazione dell’iniziativa non comprometterebbe l’equilibrio istituzionale voluto dai Trattati (punto 47).
Tale orientamento restrittivo non pare condivisibile, perché non vi è alcuna certezza che la proposta della Commissione che recepisce l’iniziativa dei cittadini sia successivamente approvata dal legislatore dell’Unione (Consiglio o Consiglio e Parlamento europeo). E peraltro, se il condizionamento della Commissione europea fosse confinato in una dimensione meramente politica, l’iniziativa europea rischierebbe di diventare assai poco incisiva rispetto ad altri istituti di democrazia partecipativa che si rivelano sicuramente più agevoli da utilizzare, quale ad es. una semplice petizione al Parlamento europeo. Vale a dire che la sovrapposizione del nuovo istituto con altre forme di partecipazione finirebbe inevitabilmente per avvantaggiare queste ultime (B. De Witte, A.H. Trechsel, D. Damjanovi, E. Hellquist, J. Hien, P. Ponzano, Legislating after Lisbon. New Opportunities for the European Parliament, Firenze, 2010, p. 19). Ma la preoccupazione maggiore consiste nel fatto che l’ampia discrezionalità riconosciuta alla Commissione nel rigettare un’iniziativa popolare può avere un impatto negativo sull’opinione pubblica e far aumentare la sfiducia dei cittadini europei verso il sistema istituzionale dell’Unione e la sua legittimità democratica.
Va da sé che la Corte di giustizia, ove adita in sede di gravame, potrebbe discostarsi dall’obiter dictum del Tribunale e approdare a una soluzione che, quanto meno, delimiti la discrezionalità della Commissione, con la prospettiva di rafforzare il binomio cittadinanza europea-democrazia partecipativa.
In realtà, dubbi permangono anche sulla questione connessa dell’ammissibilità di un’impugnazione della decisione finale e sui suoi confini, in mancanza di un’espressa previsione del Regolamento 211/2011, il quale si limita a riconoscere la possibilità di esperire un’azione giudiziaria avverso la decisione preliminare sull’ammissibilità. Lo dimostra in modo eloquente il giudizio pendente dinanzi al Tribunale che ha ad oggetto l’impugnabilità della decisione della Commissione di non presentare la proposta relativa all’iniziativa dei cittadini europei denominata “One of us” (causa T-561/14).
Ad avvalorare la sindacabilità sul piano giurisdizionale dell’operato della Commissione soccorre, in verità, l’art. 10, par. 1, lett. c), del Regolamento, il quale prevede l’obbligo di motivazione della Commissione, in linea con quanto prescritto nell’ipotesi in cui venga rifiutata la proposta richiesta dal Consiglio e dal Parlamento europeo. L’introduzione di quest’obbligo dovrebbe giustificare un’azione in carenza in presenza di una mera inattività della Commissione, mentre un espresso diniego di agire non sorretto da alcuna motivazione ovvero accompagnato da una motivazione insufficiente dovrebbe aprire la strada a un ricorso di annullamento dell’atto di rigetto. Beninteso, occorre distinguere tra la violazione di questo obbligo di motivazione in quanto formalità sostanziale, che può essere sollevata «nel quadro di un motivo che metta in discussione l’insufficienza o il difetto di motivazione della decisione della Commissione», e il controllo della fondatezza della motivazione, «il quale rientra nell’ambito del controllo di legittimità di merito dell’atto e presuppone che il giudice verifichi se i motivi su cui l’atto è basato siano o meno inficiati da errore» (sentenza del 19 aprile 2016, causa T-44/14, Costantini c. Commissione, p.to 65). Nondimeno, ai fini di una tutela giurisdizionale effettiva dei cittadini europei, il sindacato della Corte dovrebbe essere esteso al merito della fondatezza della motivazione contenuta nella decisione negativa della Commissione, anziché essere circoscritto all’accertamento formale del rispetto dell’obbligo di motivazione. A ciò si aggiunga che la Commissione nel motivare la propria decisione di rifiuto deve tenere conto della sua incidenza sull’esercizio effettivo del diritto di iniziativa dei cittadini europei sancito dal diritto primario (sentenza 30 settembre 2015, causa T-450/12, Anagnostakis c. Commissione, p.to 26; cfr. M. C. Pietrini, L’iniziativa dei cittadini europei al vaglio del tribunale dell’Unione Europea: spunti critici e prospettive, in federalismi.it, n. 13/2016, p. 2).
Peraltro, per dimostrare la correttezza dell’impostazione seguita dalla Commissione in ordine al carattere non vincolante dell’iniziativa e al suo potere discrezionale nel presentare la proposta, si è sostenuto che soltanto questa istituzione sarebbe obbligata a tener conto degli interessi di tutti gli Stati membri, a valutare l’impatto economico, sociale e ambientale dell’ICE e a garantire il rispetto del principio di sussidiarietà (P. Ponzano, Un milione di cittadini potranno chiedere una legge europea: un diritto di iniziativa “sui generis”, in La cittadinanza europea, 2011, p. 115). Si tratta certamente di esigenze meritevoli di considerazione, ma che non sembrano affatto risolutive giacché non legittimano l’eccessiva discrezionalità della Commissione e l’insindacabilità sul piano giurisdizionale della decisione finale di rigetto dell’iniziativa. Più in generale, questo potere forte attribuito alla Commissione trovava in origine il suo fondamento nell’esigenza di controbilanciare il potere del Consiglio, nelle cui mani era essenzialmente concentrato il potere legislativo, in quanto rappresentante degli interessi degli Stati. Tuttavia, a differenza di quanto sostenuto dal Tribunale nella sentenza Efler, questa impostazione non sembra oggi più giustificata, visto il diverso equilibrio istituzionale che ha iniziato a manifestarsi già prima del Trattato di Lisbona, con la crescita in senso esponenziale del ruolo del Parlamento europeo e, più in generale, con l’aumento del tasso di democraticità del sistema dell’Unione europea.
In conclusione, si può affermare che è ormai generalmente condivisa l'esigenza di rivedere difetti e limiti strutturali dell'ICE, ma ci sono opinioni discordanti in merito ad alcune modifiche fondamentali da apportare al suo funzionamento, che finiscono per essere influenzate dalla concezione del sistema istituzionale dell'Unione e dalle sue prospettive evolutive. A mio modo di vedere, il futuro dell’ICE si gioca soprattutto sulla realizzazione di un corretto equilibrio tra i poteri di iniziativa della Commissione e quelli dei cittadini europei, e sulla conseguente esigenza di rafforzare i profili democratici e partecipativi in questa fase di avvio delle procedure normative dell’Unione.