argomento: Osservatorio - Unione Europea
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di GIUSEPPE LICASTRO
Il piano d’azione della Commissione teso a sostenere il nostro Paese dalla forte pressione dei flussi migratori provenienti dalla rotta del Mediterraneo centrale, piano che contempla diverse misure, è stato discusso al vertice informale Giustizia e Affari interni di Tallinn.
Il nostro ministro dell’Interno ha dichiarato, al termine della riunione (di “indirizzo politico”), di godere di un sostegno quasi unanime sulle misure contemplate dal piano d’azione della Commissione, in particolare, «sull’attività in Libia, sul codice di condotta per le ONG e sul rafforzamento dei rimpatri». Ha altresì dichiarato (ivi), con riferimento all’operazione TRITON, che la discussione sulla «regionalizzazione» di tale operazione, che ha registrato «posizioni contrastanti», sarà nuovamente affrontata presso la sede naturale deputata a tal fine: l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera.
Il ministro Minniti, il giorno seguente, ha avuto modo di precisare che in quella sede, il nostro Paese «continuerà a difendere la sua posizione, perché, […], non si può pensare a una missione che sia internazionale per il salvataggio e poi che abbia un solo Paese per l’accoglienza» (l’Italia, appunto). Da non trascurare, sempre secondo l’avviso del ministro, il «sì al codice di condotta», per le ONG, «dopo l’indagine sulle ong condotta dalla commissione Difesa del Senato della Repubblica»: un dettaglio, questo, importante.
In effetti, la questione della regionalizzazione dell’operazione TRITON è stata oggetto di ulteriori discussioni svoltesi presso la sede centrale dell’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, situata a Varsavia. In quella sede il nostro Paese ha fondamentalmente ribadito l’opportunità di definire più luoghi di sbarco delle persone soccorse; richiesta che ha trovato una sostanziale condivisione, poiché è stato concordato, tra l’altro, di costituire un gruppo di lavoro incaricato di predisporre proprio un nuovo piano operativo dell’operazione TRITON, operazione concepita all’epoca (anno 2014) da FRONTEX per fronteggiare i flussi migratori irregolari, nonché per contrastare la criminalità transfrontaliera (v., in modo particolare, p. 10 ss.).
Il nuovo piano operativo potrebbe prevedere più luoghi di sbarco delle persone soccorse, quindi, più Stati membri da “associare” naturalmente al nostro Paese (già luogo di sbarco), sulla base del fondamentale Regolamento (UE) n. 656/2014 che contempla infatti la possibilità di includere, nel piano operativo, «dettagli adattati alle circostanze dell’operazione marittima interessata» (v. art. 10, Sbarco, nonché art. 9, Situazioni di ricerca e soccorso). Gli Stati membri partecipanti all’operazione marittima potrebbero però manifestare la loro contrarietà alla possibilità di essere “associati” nel corso delle consultazioni previste. Il nostro Paese potrebbe in tal caso giocare una “carta” forse decisiva: far pesare il ruolo basilare di Stato membro ospitante l’operazione TRITON, nonché di Paese che ospita il centro internazionale di coordinamento di TRITON, situato presso la base di Pratica di Mare (v. la definizione dell’International Coordination Centre all’art. 2, punto n. 6 del Regolamento (UE) n. 656/2014; v. altresì Contrammiraglio N. CARLONE, audizione del 3 maggio 2017 presso il Comitato parlamentare Schengen, Europol e immigrazione, p. 54, relazione ivi allegata).
Per quanto concerne invece la predisposizione del codice di condotta per le ONG, il riferimento al documento conclusivo approvato il 16 maggio 2017 dalla Commissione Difesa del Senato (v. appunto supra), relativo proprio all’«indagine conoscitiva sul contributo dei militari italiani al controllo dei flussi migratori nel Mediterraneo e l’impatto delle attività delle organizzazioni non governative», appare, prima facie, un riferimento piuttosto strategico. Il punto 4 del capitolo 3 di tale documento dedicato alle conclusioni e proposte, e specificamente la parte finale di detto punto, considera infatti l’opportunità di un «coordinamento permanente curato dalla Guardia costiera», una sorta di mandato alquanto ampio da affidare ovviamente alla nostra Guardia costiera, tale da impartire alle ONG «istruzioni anche su tempi e modalità di svolgimento del servizio, oltre che sull’area nella quale posizionarsi».
È da tenere presente che la comunicazione congiunta (doc. JOIN(2017) 4 final del 25 gennaio 2017) della Commissione e dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, sulla gestione dei flussi di migranti e sulla salvaguardia di vite umane nel Mediterraneo centrale, ha, in un certo qual modo, posto all’attenzione l’attività di Search and Rescue delle ONG nel Mediterraneo centrale, proprio con riferimento all’area operativa: attività di ricerca e soccorso condotta dalle ONG in prossimità delle coste libiche (cfr. p. 6). Tale documento ha altresì posto l’attenzione su un aspetto che proprio in tale contesto assume una valenza significativa (anche in chiave ricostruttiva). La Commissione e l’Alto rappresentante hanno sostanzialmente manifestato una perplessità verosimilmente da correlare alle attività delle ONG: «Conseguenza diretta dello spostamento graduale delle attività di pattugliamento, incluso il sostegno alle operazioni di ricerca e soccorso, dalle acque in prossimità del territorio italiano a quelle più vicine alla Libia, è stato un cambiamento del modus operandi dei trafficanti. Questi ultimi imbarcano sempre più spesso i migranti irregolari e i rifugiati su gommoni a buon mercato, del tutto inadatti alla navigazione e con i quali non vi è alcuna speranza di poter raggiungere le coste italiane, dando per scontato che essi verranno soccorsi in prossimità o all’interno delle acque territoriali libiche» (ivi, ancora p. 6, corsivo aggiunto).
Appare plausibile ipotizzare quindi la predisposizione di un codice di condotta ONG teso a circoscrivere la zona operativa delle ONG, e dunque a limitare l’operatività alle acque internazionali, allo scopo, verosimilmente, di poter al contempo “portare avanti” l’intendimento di costruire adeguate capacità della Guardia costiera libica attraverso l’ausilio della nostra Guardia costiera, appoggio teso alla definizione dell’area SAR libica nonché all’istituzione del centro nazionale di coordinamento libico del soccorso in mare (riguardo tale intendimento v. ancora ivi, p. 8). Appare altresì ipotizzabile, in tal senso, la volontà di contribuire alla costruzione di adeguate capacità della Guardia costiera libica al fine di consentire al corpo libico di intervenire sempre di più (anche) nelle acque territoriali libiche, dunque, di legittimare tali interventi…
Un noto quotidiano nazionale (La Stampa.it del 6 luglio 2017) ha ottenuto l’esclusiva sul codice di condotta ONG, illustrato dal ministro Minniti nel corso del vertice informale di Tallinn. Ha quindi pubblicato una versione non ufficiale del codice. Ebbene, dalla lettura del documento, in particolare, del primo “precetto” ivi contenuto, ossia il divieto assoluto delle ONG di entrare nelle acque territoriali libiche, salvo il caso di evidenti situazioni di pericolo per le persone in mare, l’ipotesi (supra) avanzata, non pare contestabile, anche perché il codice contempla un successivo quinto precetto plausibilmente da correlare al primo: l’imposizione di «non ostacolare le operazioni» di ricerca e soccorso della Guardia costiera libica, «con l’evidente intento di lasciare il controllo di quelle acque alla responsabilità delle autorità territorialmente preposte» (corsivo aggiunto).
Il codice contiene anche taluni precetti tesi al contrasto alle attività criminali dei trafficanti: appare significativo richiamare proprio l’obbligo previsto per le ONG di accogliere a bordo delle navi ufficiali di polizia giudiziaria. Una misura che, secondo l’avviso della Direzione Nazionale Antimafia, costituisce un «punto di equilibrio tra salvezza dei migranti in pericolo e accertamento delle responsabilità dei trafficanti» proprio grazie alla presenza a bordo di polizia giudiziaria deputata all’accertamento delle responsabilità dei trafficanti, naturalmente, senza intralciare l’esecuzione delle operazioni (delle ONG) di soccorso in mare (Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo F. ROBERTI, audizione del 31 maggio 2017 presso il Comitato parlamentare Schengen, Europol e immigrazione, pp. 1112). Peraltro, tale accertamento della polizia giudiziaria dovrebbe plausibilmente considerare, in qualche misura, le proposte operative emanate e successivamente integrate, nel corso del tempo, dalla Direzione Nazionale Antimafia per contrastare le attività criminali dei trafficanti poste in essere in alto mare (v. Diritto penale contemporaneo). Si tratta di linee guida riguardanti la soluzione di delicate e complesse questioni attinenti alla giurisdizione penale nazionale e di intervento cautelare (adozione di misure coercitive) in caso di attraversamento delle acque internazionali, che contemplano (anche) l’opportunità di utilizzare al meglio i dati emersi dalla fase investigativa, attraverso, ad esempio, le dichiarazioni dei migranti raccolte proprio dalla polizia giudiziaria (v. le prime linee guida del 9 gennaio 2014, pp. 28-29, lettera c, in Diritto penale contemporaneo).
Secondo il parere espresso dall’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione in un documento che discute proprio di talune questioni giuridiche concernenti tale codice, l’obbligo previsto per le ONG di ammettere a bordo delle navi ufficiali di polizia giudiziaria, costituisce (però) un obbligo che lede i diritti dello Stato di bandiera, posto che in alto mare una nave risulta soggetta alla giurisdizione riservata dello Stato di bandiera ai sensi dell’art. 92 par. 1 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS). Peraltro, questa posizione sembra riprendere, in un certo qual modo, l’argomentazione sostenuta da Trevisanut, con riferimento (però) all’«impossibilità per le navi di altri Stati di interferire o intervenire nella navigazione delle navi» che battono la bandiera di uno Stato terzo, per esplicitare la portata del principio della giurisdizione esclusiva dello Stato di bandiera (cfr. S. TREVISANUT, Immigrazione irregolare via mare: diritto internazionale e diritto dell’Unione europea, Napoli, 2012, pp. 114-115). Del resto, Trevisanut ha dato il suo contributo, unitamente a Pitea, nelle fasi di elaborazione e stesura del documento. Appare peraltro interessante notare, per incidens, un dettaglio che attiene al profilo della giurisdizione: tanto la Direzione Nazionale Antimafia (rectius Procuratore Nazionale Antimafia ed Antiterrorismo) che l’ASGI considerano tale profilo da punti di vista molto diversi.
È opportuno dare conto anche del fatto che la mancata sottoscrizione
o la mancata osservanza di tutti i precetti contemplati dal codice comporta il rifiuto di concedere l’autorizzazione all’ingresso nei porti italiani. Tale rifiuto potrebbe (tra l’altro) disattendere talune disposizioni della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nonché ledere il principio di non-respingimento contemplato dalla Convenzione di Ginevra del 1951 (in argomento, v. anche V. MORENO-LAX, “Nonsensical”, “Dishonest”, “Illegal”: the ‘Code of Conduct’, july 2017, in Sea-Watch.org; circa «the legal concept of non-refoulement» v. l’interessante nonché attuale contributo di M. DEN HEIJER, The Practice of Shared Responsibility in relation to Refoulement, Shares Research paper 84 (2016)).
È opportuno precisare, però, che la versione verosimilmente definitiva del codice, alla data del 7 agosto scorso, ha apportato talune modifiche alla versione presentata nel corso del vertice di Tallinn (v. supra). Appare quindi significativo richiamare il primo impegno previsto che comprende per di più il quinto “precetto” della versione di Tallinn, l’impegno, appunto, di non entrare nelle acque territoriali libiche, salvo il caso di evidenti situazioni di pericolo per le persone in mare, e (l’impegno) di «non ostacolare le operazioni» di ricerca e soccorso della Guardia costiera libica, allo scopo, sostanzialmente, di “non disturbare” il controllo delle acque territoriali da parte delle autorità libiche preposte: doppio sic! (v. supra). Appare anche significativo richiamare il precetto di accogliere a bordo delle navi la polizia giudiziaria: il testo verosimilmente definitivo del codice impegna (ovviamente le ONG) a prendere a bordo, «eventualmente e per il tempo strettamente necessario, su richiesta delle Autorità italiane competenti, funzionari di polizia giudiziaria […]» però con la successiva esplicitazione che sono «fatte salve la giurisdizione esclusiva dello Stato di bandiera della nave in base all’UNCLOS e le altre norme di diritto internazionale applicabili, […]». Appare altrettanto significativo “menzionare”, altresì, che la mancata sottoscrizione o la mancata osservanza di tutti gli impegni previsti da questa versione, repetita iuvant, verosimilmente definitiva del codice, «può comportare l’adozione di misure da parte delle Autorità italiane nei confronti delle relative navi […]»: una formula che, prima facie, sembra una formula ambigua, tale da non escludere il rifiuto di concedere l’autorizzazione all’ingresso nei porti italiani.
Occorrerebbe tenere ben presente in questo quadro, il contenuto di un recente report delle Nazioni Unite concernente la Guardia costiera libica. Tale report chiarisce che «after interception at sea, migrants are ‘often beaten, robbed and taken to detention centres or private houses and farms where they are subjected to forced labour, rape and other sexual violence’»; addirittura, i c.d. smugglers di migranti, «as well as the Department to Counter Illegal Migration and the coastguard, are directly involved in such grave human rights violations» (i passi citati, nonché ulteriori passi selezionati del corposo United Nations report, figurano in Migrants at Sea).
Occorrerebbe altresì tenere ben presente, sempre in questo quadro, l’opinione manifestata di recente da due autorevoli United Nations Human Rights experts, González Morales e Melzer (il primo Special Rapporteur on the human rights of migrants; il secondo Special Rapporteur on torture): «The EU’s proposed new action plan, including a code of conduct for organizations operating rescue boats, threatens life and breaches international standards by condemning people to face further human rights violations in Libya».