argomento: Osservatorio - Unione Europea
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di CRISTINA SCHEPISI
1. Come è noto, è da pochi mesi in vigore il d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 3, che ha attuato la direttiva 104/2014 sul risarcimento del danno per violazione del diritto sulla concorrenza (direttiva 2014/104/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 novembre 2014, relativa a determinate norme che regolano le azioni per il risarcimento del danno ai sensi del diritto nazionale per violazioni delle disposizioni del diritto della concorrenza degli Stati membri e dell’Unione europea). Si tratta certamente di un tassello importante nell’ambito del private enforcement del diritto antitrust. La direttiva (e il decreto di attuazione) contengono infatti disposizioni che incidono in maniera rilevante sui sistemi processuali interni: dall’ordine, da parte del giudice nazionale, di esibizione di prove alle parti o ai terzi, all’acquisizione di prove contenute nel fascicolo di un’autorità nazionale, all’efficacia nell’ambito di un procedimento giurisdizionale delle decisioni rese dall’Autorità nazionale, ai termini di prescrizione, alla soluzione consensuale delle controversie, solo per citarne alcune.
L’oggetto della disciplina è chiaramente limitato alle azioni risarcitorie per violazione delle norme antitrust (artt. 101 e 102 TFUE e parallele norme nazionali). In sede di attuazione della direttiva non era ovviamente richiesto al legislatore nazionale di estendere l’ambito di applicazione delle nuove regole. Non sarebbe stato, tuttavia, certamente contrario ai principi del diritto dell’Unione europea se - fermo restando l’obbligo di dare completa e corretta attuazione alla direttiva - il legislatore avesse per ipotesi colto l’occasione per introdurre nuove disposizioni, o per ampliarne in qualche modo la portata anche in riferimento ad altre azioni di risarcimento del danno per condotte anticoncorrenziali (vietate da norme europee o interne). Riguardo all’ordinamento italiano, oltre all’espressa previsione delle violazioni degli artt. 2 e 3 della L. 287/90, la scelta è stata, ad esempio (e solo) quella dell’estensione della disciplina anche alle azioni collettive ex art. 141 bis del Codice del Consumo (intentate sempre per violazione degli artt. 101-102 TFUE o degli artt. 2 e 3 della L. 287/90).
Sui contenuti della direttiva vi è oramai una abbondantissima letteratura. La dottrina ha infatti iniziato ad occuparsene non appena è stata adottata in sede europea e non si vuole in questa sede offrire un ulteriore commento o analisi delle novità recentemente introdotte (v. P. Manzini (a cura di), Il risarcimento del danno nel diritto della concorrenza, Commento al d.lgs. n. 3/2017, Torino 2017). La nuova disciplina - benché limitata alle violazioni ex artt. 101 e 102 TFUE, suscita invece qualche breve riflessione sugli effetti (diretti o indiretti) che l’introduzione di regole di così certa rilevanza potrebbe (o auspicabilmente dovrebbe poter) comunque sortire anche al di fuori dello “stretto” ambito delle azioni di risarcimento. Sull’eventuale contributo quindi che talune regole possano (o debbano) utilmente offrire anche in ambiti concorrenziali diversi ma contigui, come è, ad esempio – e per quello che interessa in questa sede – il settore degli aiuti di Stato.
2. I principi che suscitano particolare interesse a tali fini sono quelli in materia di acquisizione di prove e documenti, e ai quali la direttiva dedica gli artt. 5, 6 e 7. La difficoltà nel reperire elementi probatori – ai fini in particolare della dimostrazione del nesso di causalità e del danno - costituisce infatti un evidente deterrente per l’azionabilità in giudizio di una domanda risarcitoria (a cui si aggiunge la lunghezza e l’incerta durata dei procedimenti). Come anche evidenziato nel preambolo della direttiva, «gli elementi di prova necessari per comprovare la fondatezza di una domanda di risarcimento del danno sono spesso detenuti esclusivamente dalla controparte o da terzi e non sono sufficientemente noti o accessibili all'attore. In tali circostanze, rigide disposizioni giuridiche che prevedano che gli attori debbano precisare dettagliatamente tutti i fatti relativi al proprio caso all'inizio di un'azione e presentare elementi di prova esattamente specificati possono impedire in maniera indebita l'esercizio efficace del diritto al risarcimento garantito dal TFUE» (consid. n. 14). E «poiché il contenzioso in materia di diritto della concorrenza è caratterizzato da un'asimmetria informativa, è opportuno garantire agli attori il diritto di ottenere la divulgazione delle prove rilevanti per la loro richiesta, senza che sia necessario, da parte loro, specificarne singoli elementi» (consid. n. 15).
Una delle regole introdotte dalla direttiva per far fronte a questa asimmetria è contenuta nell’art. 5. La direttiva, dopo aver ribadito il dovere di rispettare il principio di equivalenza che di effettività (art. 4) introduce infatti la previsione secondo cui «i giudici nazionali possano ordinare al convenuto o a un terzo la divulgazione delle prove rilevanti che rientrino nel controllo di tale soggetto, alle condizioni precisate nel presente capo». Analogamente i giudici possono, «su richiesta del convenuto, ingiungere all'attore o a un terzo la divulgazione delle prove rilevanti». Il considerando n. 15 della direttiva precisa inoltre che «i giudici nazionali dovrebbero anche poter ordinare la divulgazione delle prove da parte di terzi, comprese le pubbliche autorità». Potrebbe tale norma eventualmente rilevare anche nel contesto di un’azione risarcitoria in caso di concessione di aiuti illegali (ed eventualmente anche incompatibili)?
3. E’ bene sinteticamente ricordare che, analogamente al settore antitrust (artt. 101 e 102 TFUE) anche nell’ambito degli aiuti Stato, la Commissione da tempo insiste sul rafforzamento del private enforcement ed, in particolare, su una maggiore efficacia delle azioni del risarcimento del danno (Comunicazione relativa all'applicazione della normativa in materia di aiuti di Stato da parte dei giudici nazionali, 2009/C 85/01). E’ innegabile, infatti, che i terzi concorrenti, lesi da una misura di aiuto illegale (ed eventualmente anche incompatibile), troverebbero maggiore soddisfazione nel ricevere direttamente un ristoro finanziario delle perdite subite che non nel vedere recuperato l’aiuto da parte dello Stato. E vi è una ragione ulteriore: la Commissione, a differenza del settore antitrust, non ha alcun potere diretto nei confronti dei soggetti privati, non può ordinare loro di restituire l’aiuto, né sanzionarli. Inoltre, non può, neppure rivolgendosi allo Stato ordinare a quest’ultimo di restituire l’aiuto solo perché illegale (potendolo fare solo qualora accerti che l’aiuto sia anche incompatibile). In tale contesto, il giudice riveste (rectius, dovrebbe rivestire) un ruolo realmente complementare a quello della Commissione, poiché – oltre ad intervenire a tutela dei singoli, nel caso di mancata esecuzione della decisione della Commissione - è l’unico soggetto ad avere il potere di ordinare la restituzione di aiuti illegali, adottando se del caso misure cautelari (cosa che la Commissione può solo fare in caso sia prima facie convinta dell’incompatibilità, e comunque è un potere soggetto a numerosi limiti). La Commissione auspica dunque che all’efficacia dell’enforcement un contributo sempre più incisivo, anche in chiave di deterrenza nei confronti degli Stati, possa derivare dalle azioni promosse dai privati (i concorrenti) dinanzi ai giudici nazionali.
Tuttavia, come anche evidenziato dalla Comunicazione del 2009, le azioni di risarcimento del danno in tale ambito sono rarissime, ancor meno di quelle di sospensione/recupero dell’aiuto (v. per un caso recente, v. Tar Lazio n. 2922/2017, in questa rivista). Nella realtà, infatti, la maggior parte di quelle portate dinanzi ai giudici nazionali sono azioni intentate dai beneficiari che si oppongono in via giurisdizionale agli atti interni di recupero. Le ragioni dello scarso ricorso ad azioni risarcitorie (e del loro insuccesso) vanno anche in tal caso individuate nella difficoltà di dimostrare l’entità del danno subito e soprattutto il nesso di causalità tra la violazione e il danno, a causa della severità di alcune normative nazionali unitamente e di una prassi ancora limitata (a propria volta derivante dalla scarsa conoscenza di tale rimedio nella materia degli aiuti di Stato). Riguardo, inoltre, alla dimostrazione del nesso di causalità, va peraltro sottolineata, in riferimento agli aiuti di Stato, un’ulteriore e maggiore difficoltà rispetto ad un’azione di risarcimento del danno per violazione degli artt. 101 e 102 TFUE. In tale contesto, infatti, onere del ricorrente è di provare che dal comportamento dell’autore dell’illecito vi sia un nesso diretto con il danno subito. Nel settore degli aiuti di Stato, la sua dimostrazione potrebbe essere duplice ed includere i) il nesso tra l’erogazione dell’aiuto e il comportamento tenuto dal soggetto sul mercato (upstream causation) e ii) il nesso diretto tra tale comportamento e il danno subito dal concorrente (downstream causation; tali aspetti sono ben messi in luce da M. Honoré-N. E. Jensen, Damages in State Aid Cases, in Eur. St. Aid. Law Quart, 2011, pp. 265 ss.). Ed è in particolare il nesso di causalità sub i) a doversi solitamente fondare su elementi non in possesso del concorrente (come ad esempio i documenti contabili), ma necessari per provare che in assenza di un aiuto il beneficiario non avrebbe potuto tenere un dato comportamento sul mercato (ad esempio prezzi sotto costo).
Ora, com’è noto, in assenza di una disciplina a livello di Unione europea vige il principio dell’autonomia procedurale degli Stati membri temperato dai due principi di equivalenza e di effettività. Si possono ricordare - in riferimento alle azioni risarcitorie nei confronti degli Stati la nota sentenza Brasserie du pêcheur e Factortame (Corte giust., 5 marzo 1996, cause riunite C-46/93 e 48/93; 1° giugno 1999, causa C-302/97, Konle; 4 luglio 2000, causa C-424/97, Haim) ove la Corte ha precisato che le norme interne in materia di prova non debbano rendere eccessivamente difficoltosa la dimostrazione dell’esistenza di un nesso di causalità tra la violazione della norma e il danno lamentato (principio di effettività).
Nel più circoscritto ambito degli aiuti di Stato, e in riferimento alla difficoltà di reperire le prove (seppur non nel contesto di un’azione risarcitoria) la Corte si è invece espressa nel caso Laboraitores Boiron (Corte giust., 7 settembre 2006, causa C-526/04). Nella specie si discuteva dell’impossibilità per il ricorrente di dimostrare l’esistenza di una sovra compensazione a favore di un’impresa che offriva un servizio di interesse economico generale). La Corte, fondandosi sul principio di equivalenza ha ritenuto, nel caso di specie, che qualora un soggetto non sia in grado, al fine di ottenere il rimborso di una tassa facente parte di un regime di aiuti ritenuto incompatibile, di provare il vincolo di destinazione tra la tassa corrisposta e l’aiuto a terzi soggetti, il giudice sia tenuto a ricorrere a tutti i mezzi procedurali a disposizione del proprio ordinamento tra cui quello di ordinare le necessarie misure istruttorie, inclusa la produzione di un atto o di un documento ad opera di una delle parti o di un terzo.
I principi di equivalenza ed effettività sono stati poi richiamati nella citata Comunicazione del 2009. Infatti, «le modalità procedurali nazionali che si applicano alle domande di risarcimento danni [ai sensi dell’art. 108, par. 3 TFUE] non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna disciplina interna» (punto 70). E in virtù dei principi di equivalenza ed effettività, la disciplina applicabile in materia di responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione europea non deve escludere la responsabilità per il lucro cessante (punto 49) e la quantificazione del danno deve rispettare il principio di effettività (punto 51).
Ma la Comunicazione va ancora oltre, precisando che il principio di effettività può anche influire sulla raccolta di prove. Se l'onere della prova per quanto riguarda un particolare ricorso rende impossibile o eccessivamente difficile al ricorrente la produzione di prove (ad esempio, perché non sono in suo possesso i necessari elementi di prova), il giudice nazionale è tenuto a ricorrere a tutti i mezzi procedurali messi a sua disposizione dal diritto procedurale nazionale per garantire all'interessato l'accesso a dette prove, fra cui quello di ordinare le necessarie misure istruttorie, inclusa, ove sia stabilito dal diritto interno, la produzione di un atto o di un documento ad opera di una delle parti o di un terzo. Il principio espresso nel caso Laboraitores Boiron - originato da una domanda di rimborso di una tassa versata da un concorrente e da questi ritenuta illegittima in quanto diretta a sovracompensare il beneficiario - viene dunque richiamato anche nel contesto di un’azione risarcitoria.
4. Ebbene, il suddetto principio – espresso prima dalla Corte e poi ribadito nella Comunicazione - è esattamente il medesimo al quale fa riferimento proprio l’art. 5 della direttiva 104/2014 (e ulteriormente riprodotto nell’art. 3 del decreto di attuazione), nell’ulteriore – e ancora distinto - contesto di un’azione risarcitoria per violazione degli artt. 101 e 102 TFUE.
Siano allora consentite tre brevi osservazioni sul punto.
La prima è che la “codificazione” di tale principio in una norma di diritto derivato, adottata in un settore diverso (anche se contiguo), costituisce un’ulteriore evidenza del fatto che il principio de quo assume valenza generale, quanto meno per ciò che concerne il reperimento delle prove nel contesto di un procedimento giudiziale in materia di diritto della concorrenza (intesa nel senso più ampio). Il principio, dunque, non è più solo circoscritto alle azioni di rimborso di tasse versate in esecuzione di un aiuto illegale, né confinato alle azioni risarcitorie nel settore degli aiuti di Stato (per via del riferimento operato dalla Comunicazione) o, al contrario, limitato alle sole azioni risarcitorie per violazione degli artt. 101-102 TFUE.
La seconda: la trasposizione di tale principio in una disposizione ad hoc – seppur in un settore contiguo - produce certamente un impatto ulteriore ai fini degli aiuti di Stato. Nella sentenza Laboraitores Boiron la Corte sottolinea infatti la necessità «di ricorrere agli strumenti di diritto interno laddove esistenti». Trattasi dunque in prima battuta dell’applicazione del principio di equivalenza. Ebbene, anche a voler limitare gli effetti della sentenza Laboraitores Boiron solo a casi strettamente analoghi (prova di una sovracompensazione) e anche a riconoscere che la Comunicazione della Commissione – che ha esteso tale principio alle azioni risarcitorie - non è di per sé un atto dotato di efficacia vincolante – si può comunque osservare che è ulteriormente in forza del principio di equivalenza (letto anche alla luce di una sentenza e di quanto contenuto in una comunicazione) che il giudice nazionale potrebbe (o dovrebbe) far leva su una disposizione ad hoc – ora esistente nell’ordinamento interno (art. 5 della direttiva e art. 3 del decreto di attuazione) - al fine di applicare tale principio anche nel contesto delle azioni risarcitorie in materia di aiuti di Stato.
La terza considerazione, collegata alla seconda, è che l’art. 5 della direttiva circonda di una serie di cautele il potere di esibizione di prove alle parti e a terzi. Ed è ulteriormente sotto tale profilo che il principio di equivalenza assumerebbe maggior rilievo. Ragionando infatti in questi termini, ciò che renderebbe ulteriormente (e concretamente) operante tale disposizione anche nel settore di aiuti di Stato, senza limitarlo “solo” a un principio generico, è proprio l’indicazione dettagliata di tali riserve e cautele. Queste sono in particolare finalizzate a circoscrivere l’ordine di esibizione di prove e documenti a quanto necessario, a valutare la proporzionalità della richiesta e a bilanciarla con l’esigenza di tutela della riservatezza di talune informazioni. L’art. 5 prevede, infatti, che vi sia una richiesta motivata (par. 1); che la divulgazione di specifici elementi di prova o rilevanti categorie di prove siano definiti nel modo più preciso e circoscritto possibile (par. 2); che la divulgazione sia proporzionata sulla base degli interessi legittimi di tutte le parti e di tutti i terzi interessati (par. 3). I giudici devono inoltre valutare: a) in quale misura la domanda di risarcimento o gli argomenti di difesa siano corroborati da fatti e prove disponibili che giustificano la domanda di divulgazione delle prove; b) quali siano la portata e i costi della divulgazione, in particolare per i terzi interessati; e c) se le prove di cui è richiesta la divulgazione contengano informazioni riservate. Ulteriori previsioni sono infine contenute nei successivi parr. da 4 a 7 (potere di ordinare la divulgazione delle prove che contengono informazioni riservate ove ritenute rilevanti; tutela della riservatezza delle comunicazioni tra avvocati; diritto per coloro ai quali è chiesta la divulgazione di essere sentiti prima dell’ordine di divulgazione).
Da ultimo, l’art. 7 (art. 6 del decreto) rafforza ulteriormente il contenuto dell’art. 5 (e 3 del decreto) introducendo il potere del giudice nazionale di comminare sanzioni alle parti e terzi che violino le previsioni indicate (non rispettando l’ordine di esibizione delle prove, o distruggendo queste, o violando gli obblighi posti a tutela della riservatezza delle informazioni, ecc.).
5. Riflettendo sempre in termini di equivalenza, un’altra disposizione che potrebbe teoricamente rilevare, seppur forse con minore immediatezza, è l’art. 6 della direttiva (accesso al fascicolo di un’autorità garante; art. 4 del decreto di attuazione). Il caso potrebbe banalmente essere quello in cui l’azione risarcitoria si fondi su un (presunto) danno derivato dal comportamento abusivo dell’impresa (es. fissazione di prezzi predatori) reso ipoteticamente possibile dalla ricezione dell’aiuto di Stato illegale, e contestualmente sia in corso un’indagine dell’Autorità nazionale tesa a verificare se tale impresa abbia violato l’art. 102 TFUE (e/o l’art. 3 della L. 287/90).
Ci si domanda tuttavia se tale norma possa essere utilizzata anche in casi meno “ovvi”, e cioè qualora l’azione giudiziale non si fondi sul (o non includa espressamente) l’accertamento dell’abuso di posizione dominante, ma si limiti a contestare genericamente – a prescindere dunque dalla verifica della posizione dominante dell’impresa - un presunto comportamento illecito (ad es. ancora una volta la fissazione dei prezzi al di sotto dei costi medi variabili) che sarebbe direttamente indotto dalla concessione di un aiuto di Stato (v. ad esempio caso Saremar, v. Trib. Genova 11/8/2014 e Trib. Milano 22/4/2015). Si potrebbe teoricamente immaginare il caso di un’azione risarcitoria direttamente esperita nei confronti del beneficiario dell’aiuto, ai sensi dell’art. 2598 c.c. (sulla base dunque di un asserito comportamento di concorrenza sleale), senza un riferimento specifico a una violazione ex artt. 101 e102 TFUE. Nell’ipotesi in cui l’Autorità nazionale abbia aperto un procedimento per abuso di posizione dominante, nei confronti della medesima impresa (e per il medesimo comportamento), potrebbe la parte – nei limiti e alle condizioni previste dalla norma - eventualmente avvalersi dell’art. 4 del decreto (art. 6 della direttiva)?
Non sembrerebbe costituire una preclusione insormontabile, quanto meno prima facie, la previsione (art. 4, par. 3 del decreto) secondo cui «quando il giudice valuta la proporzionalità dell’ordine di esibizione considera altresì: […] b) se la parte richiede l’esibizione in relazione all’azione per il risarcimento del danno a causa di una violazione del diritto della concorrenza». Ora, è chiaro che per “diritto della concorrenza” tale norma formalmente intende gli artt. 101 o 102 TFUE. Tuttavia quello che nella sostanza - e principalmente - la norma esige è che la richiesta di esibizione sia connessa a una domanda risarcitoria (e non ad altri tipi di domande) e, ovviamente che tale domanda attenga ad una violazione oggetto di indagine anche da parte dell’Autorità (nella relazione illustrativa si legge che tale previsione è finalizzata a verificare «la sussistenza del nesso di derivazione della domanda risarcitoria per cui viene formulata la richiesta di esibizione dalla violazione del diritto alla concorrenza»).
Ebbene, nell’ipotesi innanzi prefigurata, il comportamento del beneficiario dell’aiuto illegale, censurato nel contesto di un’azione risarcitoria (es. vendita sottocosto), coinciderebbe con il comportamento/violazione oggetto di indagine dinanzi all’Autorità. In ambedue i casi si tratterebbe di accertare se l’impresa abbia posto in essere una pratica di prezzi al di sotto dei costi. L’unica differenza consisterebbe nel fatto che dinanzi all’Autorità tale comportamento sarebbe ipso iure qualificabile come “abuso” ove quest’ultima abbia anche accertato che l’impresa detenga una posizione dominante (e dunque ci sarebbe un fascicolo aperto per violazione dell’art. 102 TFUE e/o 3 L. 287/90), mentre dinanzi al giudice nazionale la norma invocata (quanto meno in sede di domanda) sarebbe tutt’altra. La differenza atterrebbe dunque alla diversa qualificazione giuridica della condotta e non alla condotta in sé.
Il fatto che l’Autorità stia ipoteticamente accertando la sussistenza di un comportamento illecito oggetto di medesima valutazione da parte del giudice nazionale, potrebbe non essere tuttavia irrilevante ai fini della possibilità, per il ricorrente, di trarre elementi utili dal fascicolo dell’Autorità per la prova del nesso di causalità tra il comportamento dell’impresa convenuta in giudizio e il danno subito. Quello su cui potrebbe eventualmente discutere è l’esigenza di una corretta motivazione da parte del richiedente ai fini della valutazione della proporzionalità della richiesta da parte del giudice di cui sopra (art. 4 del decreto). In altre parole la richiesta di accesso sarebbe probabilmente meno giustificabile se il convincimento della parte (e/o del giudice) continuasse, nel corso del procedimento giudiziale, a essere per una chiara esclusione di una qualificazione giuridica della condotta in termini di “abuso di posizione dominante”. Ci sembra tuttavia un’ipotesi peregrina poiché la parte avrebbe a quel punto tutto l’interesse a “mutare” il suo convincimento. Né si potrebbe dire che questa – qualora invocasse ex post la violazione dell’art. 102 TFUE (e/o 3 della L. 287/90) e riformulasse/precisasse la sua domanda, incorrerebbe in una mutatio libelli. Infatti, secondo orientamento costante della Corte di Cassazione, la precisazione della causa petendi non necessita che siano correttamente indicate le norme applicabili al caso e i relativi istituti giuridici, essendo invece sufficiente la chiara indicazione, in termini sostanziali, dei fatti costitutivi del diritto auto-individuato azionato (Cass. civ., n. 12258/2002). Per quanto riguarda, inoltre, il convincimento del giudice, si tenga inoltre conto che quest’ultimo avrebbe il potere (dovere), riconosciuto dalla Corte di giustizia a partire dal caso Eco-Swiss (sentenza 1° giugno 1999, causa C-126/97) di rilevare d’ufficio l’eventuale violazione degli artt. 101 e/o 102 TFUE, anche dunque in mancanza di una precisa doglianza di parte.
Quanto espresso è chiaramente circoscritta all’ipotesi di un’azione risarcitoria nei confronti di un soggetto privato. Più incerta – per ovvie ragioni – l’applicabilità dell’art. 6 (e 4 del decreto) nei casi in cui l’azione risarcitoria sia invece diretta contro lo Stato.
6. Al di là delle sue concrete applicazioni, la direttiva 104/2014, e relativo decreto di attuazione, costituiranno senza alcun dubbio almeno un utile punto di riferimento per l’introduzione, ove mai, di regole processuali nazionali ad hoc anche nella materia degli aiuti di Stato, e/o per il consolidamento di principi già teoricamente vigenti (equivalenza ed effettività). Il che, per quanto riguarda l’ordinamento italiano, potrebbe ulteriormente giustificarsi ed assumere rilievo in un’ottica di sistema, alla luce anche di ulteriori previsioni i) dettate espressamente per la materia di aiuti di Stato o comunque ii) applicabili in tale settore. Riguardo alle prime, il riferimento principale è alla L. 234/2012, alla quale si deve la devoluzione della materia degli aiuti di Stato alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Tale intervento legislativo ha certamente razionalizzato il sistema di controllo e tutela processuale eliminando la coesistenza di modalità procedurali distinte (inclusi i termini di impugnazione) a seconda della fonte (legge, atto amministrativo, ecc.) o della tipologia di aiuto (sovvenzione, sgravio previdenziale, ecc.), e rendendo così più agevole l’azionabilità in giudizio delle pretese. Ed è innegabile che effetti positivi possano prodursi anche riguardo alle pretese risarcitorie, sia in termini generali sia con particolare riferimento a quelle attratte nell’ambito della giurisdizione esclusiva (perché ad esempio collegate o conseguenti all’annullamento dell’atto di concessione dell’aiuto e/o a una domanda di recupero dello stesso). Rimangono comunque certamente fuori dalla cognizione del giudice amministrativo, le azioni tipicamente di private enforcement, ovvero le domande di risarcimento ove non rilevi “alcun intreccio tra diritti privati e interessi/poteri pubblici” (Cass. n. 25516/2016).
Nell’ordinamento italiano sono inoltre presenti altre previsioni procedurali, che seppur operanti in diverso o più generale contesto, potrebbero certamente agevolare l’enforcement delle norme sugli aiuti di Stato, con ricadute ulteriori e positive nel più ristretto ambito del private enforcement. Il riferimento principale è all’art. 21-bis della L. 287/90, introdotto nel 2011, il quale attribuisce all’Autorità garante della concorrenza la legittimazione ad «agire in giudizio contro gli atti amministrativi generali, i regolamenti ed i provvedimenti di qualsiasi amministrazione pubblica che violino le norme a tutela della concorrenza e del mercato». Tale norma costituisce uno strumento importante attraverso il quale l’Autorità garante può certamente impugnare anche atti che concedono aiuti di Stato illegali. Si consideri che rispetto a un’impresa essa, per strumenti e conoscenze, si trova in posizione certamente privilegiata. Inoltre la legittimazione dell’Autorità è ben più ampia poiché verte non solo su provvedimenti ad hoc ma anche su amministrativi generali e regolamenti, con l’ulteriore vantaggio che l’eventuale annullamento travolgerebbe anche i provvedimenti di concessione degli aiuti, eventualmente già emanati sulla base dei primi. Ma ciò che è più rilevante è che l’annullamento di tali atti da parte del giudice amministrativo (o anche la semplice pendenza del ricorso) potrebbe certamente incentivare i concorrenti – qualora l’aiuto sia stato già erogato -a proporre azioni di recupero e azioni di risarcimento del danno, con l’ulteriore vantaggio di poter trarre, all’esito del primo giudizio, elementi utili anche ai fini della prova del nesso di causalità e del danno.
Sempre restando nell’ambito della L. 287/90, altro strumento, seppur solo indiretto, potrebbe essere ravvisato nell’art. 22 (richiesta di pareri). Il suo utilizzo era ad esempio già stato ipotizzato in sede di esecuzione della decisione n. 2000/394 (agevolazioni e sgravi nei territori di Venezia e Chioggia). Si era infatti prospettata la possibilità da parte della PA - che avrebbe dovuto procedere al recupero degli aiuti illegali ed incompatibili previa individuazione dei beneficiari - di chiedere un parere all’Autorità garante per valutare l’impatto di tali aiuti sul mercato. Non si sarebbe trattato ovviamente di una nuova valutazione di (in)compatibilità degli aiuti con il mercato (la cui competenza appartiene esclusivamente alla Commissione), ma semplicemente di un’analisi (diversa ed ulteriore) degli effetti anticoncorrenziali prodotti dagli aiuti in questione. Analisi che tuttavia sarebbe certamente utile - ai fini della valutazione/quantificazione del danno - nei casi di successive azioni di risarcimento (v. anche il tentativo, proposto nella Legge annuale per la concorrenza per il 2013, di introdurre l’art. 22-bis espressamente dedicato alla possibilità di «esprimere pareri riguardanti l’incidenza degli aiuti sugli scambi tra Stati membri e la loro idoneità a falsare la concorrenza»).
A fini di completezza va da ultimo ricordata l’istituzione del recente registro degli aiuti di Stato presso il Ministero dello sviluppo economico, nel quale deve essere obbligatoriamente inserita ogni informazione circa la concessione di aiuti di Stato (in particolare rientranti nei regolamenti di esenzione e de minimis). Tali informazioni sono ad esempio rilevanti in primo luogo nel caso di cumulo degli aiuti (per evitare che le amministrazioni concedano aiuti in esenzione a un’impresa non abbia prima restituito un precedente aiuto illegale ed eventualmente anche incompatibile), ma potrebbero offrire utili elementi di valutazione al concorrente che agisca in giudizio, anche ai fini di un risarcimento del danno.
7. Molti sono tuttavia i punti ancora da risolvere, anche a livello di diritto dell’Unione, per far sì che il concorrente possa ottenere una rapida e soddisfacente riparazione dei danni che abbia subìto e per fare in modo che l’azione di risarcimento produca un effetto realmente deterrente per gli Stati membri, inducendoli a non violare il disposto dell’art. 108, par. 3 TFUE. Rispetto ad alcuni anni fa, l’ordinamento italiano si è tuttavia dotato ed arricchito di nuove norme e strumenti, alcuni appositamente introdotti per agevolare l’enforcement delle norme sugli aiuti di Stato e le relative pretese giudiziali, altri invece adottati nel contiguo settore antitrust. E’ certamente vero, da un lato, che permangono numerose lacune, specie nel settore degli aiuti di Stato e che le peculiarità di tale settore (caratterizzato dalla competenza esclusiva della Commissione e da comportamenti illeciti degli Stati) non consentono di assimilarlo al settore antitrust. Resta tuttavia fermo, con particolare riferimento al private enforcement e alle azioni risarcitorie, che l’intento della Commissione è di rafforzare la quantità e l’efficacia di tali azioni in entrambi i settori e che in tutti e due i casi il reperimento delle prove e quindi la dimostrazione del nesso di causalità (e del danno) costituisce l’ostacolo principale. In attesa di nuovi interventi legislativi a livello di Unione europea o nazionale, ma tenendo conto della crescente attenzione da parte dell’ordinamento italiano verso il settore degli aiuti di Stato e dei recenti interventi legislativi anche in tale ambito - la “coerenza del sistema” richiederebbe, almeno laddove possibile, di far utilmente (e almeno) leva sugli strumenti, procedurali e processuali) già esistenti. Senza dunque dover necessariamente attendere – quantomeno per quanto riguarda questi ultimi - un intervento caso per caso della Corte di giustizia).
Il che equivale, né più né meno, a una spontanea e diligente applicazione del principio di equivalenza (in particolar modo) e, in ultima battuta, di quello di effettività.