argomento: Osservatorio - Unione Europea
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di PAOLA MORI
1. La Corte di giustizia risponde alla Corte costituzionale nel caso Taricco. Con la sentenza del 5 dicembre 2017 (C-42/17, M.A.S., M.B. di seguito Taricco II) la grande sezione della Corte di giustizia ha preso posizione sulle questioni pregiudiziali sollevate dalla Corte costituzionale italiana con l’ordinanza n. 24 del 26 gennaio 2017 e relative all’interpretazione dell’art. 325 TFUE e della sentenza resa nel caso Taricco dalla stessa Corte di Lussemburgo (8 settembre 2015, C-105/14, Taricco).
Ricordiamo qui brevemente che in questa sentenza la grande sezione della Corte di giustizia ha affermato che l’art. 325 TFUE impone l’obbligo al giudice italiano di disapplicare gli articoli 160, ultimo comma, e 161, secondo comma, cod. pen., quali modificati dalla legge del 5 dicembre 2005 n. 251 (c.d. ex Cirielli) in materia di prescrizione del reato (nella specie frodi gravi in materia di IVA), nella misura in cui tale normativa, impedendo al procedimento penale di giungere ad una decisione di merito sui fatti e quindi di punire i responsabili, non consente l’efficace tutela delle risorse finanziarie dell’Unione.
La sentenza Taricco ha dato luogo ad un dibattito dottrinale particolarmente acceso e le difficoltà interpretative poste dal suo dispositivo hanno determinato la Corte d’appello di Milano (ord. 18 settembre 2015) e la Corte di cassazione (sez. III pen., ord. 8 luglio 2015, 28346/16) a sollevare questione di legittimità costituzionale della legge di ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona con riferimento all’art. 325 TFUE, quale interpretato dalla Corte di giustizia, prospettandone la violazione del principio di legalità in materia penale e la necessità di attivare i controlimiti.
Come è noto la Corte costituzionale, dando applicazione all’art. 267 TFUE, ha deciso di «sollecitare un nuovo chiarimento da parte della Corte di giustizia sul significato da attribuire all’art. 325 TFUE sulla base della sentenza Taricco» (ordinanza 24/2017). Nell’ordinanza di rinvio veniva infatti prospettato un problema di contrasto della c.d. regola Taricco con il principio di legalità di cui all’art. 25 Cost., e quindi con un principio supremo dell’ordinamento costituzionale italiano, tale da imporre alla Corte «il “dovere” di impedirne l’ingresso nell’ordinamento giuridico, dichiarando cioè l’incostituzionalità della norma contenente l’ordine d’esecuzione del Trattato di Lisbona relativamente all’art. 325 TFUE » (art. 2 l. 2 agosto 2008, n. 130). La Corte costituzionale ha in particolare sottolineato l’assenza di determinatezza dell’obbligo ricavato dall’art. 325 TFUE, il quale, pur imponendo un risultato preciso e chiaro, ometterebbe di indicare con sufficiente analiticità il percorso che il giudice penale è tenuto a seguire per conseguire lo scopo. Essa ha inoltre messo in evidenza che nell’ordinamento italiano la prescrizione è parte del diritto sostanziale e soggetta al principio di legalità che impone sia il divieto di applicazione retroattiva della legge penale, effetto che potrebbe conseguire dall’applicazione della c.d. regola Taricco, sia la necessità della prevedibilità della norma punitiva, prevedibilità che difetterebbe a questa regola.
In considerazione dell’importanza della questione, la risposta della Corte di giustizia è arrivata in tempi rapidi (la causa, su richiesta del giudice del rinvio, è stata trattata con la procedura accelerata) e si segnala per il rilievo dei principi in essa affermati. La sentenza, come vedremo, ribadisce il percorso logico-argomentativo della sentenza Taricco, ma sviluppa in maniera molto più ampia il profilo relativo al rispetto dei diritti fondamentali della persona e al principio di legalità, traendone conseguenze più articolate. Nel far ciò la Corte si colloca in linea di piena continuità con la sua giurisprudenza costante sul primato del diritto dell’Unione, sviluppandone in maniera cristallina gli aspetti relativi alla garanzie e alla preminenza dei diritti fondamentali quali sanciti nella Carta e quali derivanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, non solo sugli atti delle istituzioni europee e degli Stati membri quando applicano il diritto dell’Unione, ma anche, ed è forse questo l’aspetto di maggior rilievo, sulle norme dei Trattati istitutivi.
L’argomentazione della Corte è complessa e conviene ripercorrerne i punti salienti.
2. Sulla diretta applicabilità dell’art. 325 TFUE. In primo luogo, i giudici europei confermano che l’art. 325, par. 1, TFUE impone che, nei casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione in materia di IVA, siano adottate sanzioni penali dotate di carattere effettivo e dissuasivo (punto 35; v., nello stesso senso, sentenza Taricco, punti 42 e 43). Viene anche ribadito che tale disposizione pone a carico degli Stati membri obblighi di risultato precisi, che non sono accompagnati da alcuna condizione; di conseguenza, i giudici nazionali sono tenuti disapplicare le disposizioni interne, in particolare riguardanti la prescrizione, che, nell’ambito di un procedimento relativo a reati gravi in materia di IVA, ostino all’applicazione di sanzioni effettive e dissuasive per combattere le frodi lesive degli interessi finanziari dell’Unione (punti 38-39; v., in tal senso, sentenza Taricco, punti 49 e 58).
La Corte ha così confermato pienamente la propria giurisprudenza sull’efficacia delle norme dei Trattati istitutivi. Tema, questo, non sempre ben compreso da parte della dottrina e troppo spesso confuso con l’altro, diverso in ragione della diversa fonte normativa, dell’efficacia diretta delle norme contenute in direttive inattuate.
In proposito va infatti ricordato che le norme di diritto primario sono idonee a produrre effetti normativi molto ampi in quanto possono creare non solo diritti ma anche obblighi nei confronti sia degli Stati membri sia dei singoli. Questa specifica idoneità delle norme del diritto primario deriva dal fatto che esse trovano la loro fonte nei Trattati, atti riferibili alla volontà sovrana degli Stati membri e da questi «ratificati conformemente alle rispettive procedure costituzionali» (art. 54, par. 1, TUE). Adempimento, quest’ultimo, assolto dall’Italia con la legge di ratifica ed esecuzione a cui l’art. 11 Cost. e l’art. 117, 1° comma, offrono garanzia costituzionale. In altri termini, l’efficacia delle norme dei Trattati istitutivi «nei confronti e all’interno degli Stati è in re ipsa, essendo essi di per sé in vigore per tutti i soggetti dell’ordinamento per il solo effetto della ratifica dei Trattati» (R. Adam, A. Tizzano, Manuale di diritto dell’Unione europea, Torino, 2017, p. 897 s.)
E dunque, l’efficacia o applicabilità diretta di una norma dei Trattati, non si sostanzia esclusivamente nell’attribuzione di situazioni giuridiche soggettive a favore di un singolo. Tutt’altro, è innanzitutto lo Stato il destinatario primo della norma: come affermato nella sentenza Simmenthal, l’applicabilità diretta delle norme comunitarie è un effetto che si produce nei confronti di «tutti coloro che esse riguardano, siano questi gli Stati membri ovvero i singoli» (Corte giust. sentenza 9 marzo 1978, 106/77, Simmenthal, punto 17).
È lo Stato il destinatario dell’effetto giuridico dell’art. 325 TFUE, par. 1 e 2, effetto che si risolve nell’obbligo per i suoi organi, in primo luogo il legislatore e i giudici, di dare «piena efficacia» all’obbligo previsto dalla norma stessa; mentre in questo caso non ne sono destinatari i singoli, rispetto ai quali le norme in questione non pongono né diritti né obblighi (in questo senso, molto chiaramente, v. le conclusioni dell’avvocato generale Kokott, nella causa Taricco, punto 118), producendo rispetto a costoro solo indirettamente ed eventualmente l’effetto deteriore del prolungamento del tempo di prescrizione (P. Mori, La Corte costituzionale chiede alla Corte di giustizia di rivedere la sentenza Taricco: difesa dei controlimiti o rifiuto delle limitazioni di sovranità in materia penale?, in Riv. dir. int., 2017, p. 407 ss.).
Sugli Stati membri, e sui loro organi, grava pertanto l’obbligo di prevenire, reprimere e sanzionare in ogni caso, anche a prescindere dall’esistenza di una normativa uniforme in materia, le frodi lesive degli interessi finanziari dell’Unione. Tale obbligo non è limitato al diritto sostanziale (previsione della sanzione), ma riguarda anche gli aspetti procedurali poiché le autorità nazionali devono procedere efficacemente e con modalità analoghe a quelle previste per le violazioni del diritto interno simili per natura e gravità.
Sarà pertanto compito dei giudici interni disapplicare le disposizioni nazionali in materia di prescrizione che ostino all’applicazione dell’obbligo sancito nell’art. 325, paragrafi 1 e 2 (punto 39).
Ma prima ancora, come puntualizza la Corte, spetta «al legislatore nazionale stabilire norme sulla prescrizione che consentano di ottemperare agli obblighi derivanti dall’articolo 325 TFUE … È infatti compito del legislatore garantire che il regime nazionale di prescrizione in materia penale non conduca all’impunità in un numero considerevole di casi di frode grave in materia di IVA o non sia, per gli imputati, più severo nei casi di frode lesivi degli interessi finanziari dello Stato membro interessato rispetto a quelli che ledono gli interessi finanziari dell’Unione» (punto 41).
Questa affermazione trova del resto riscontro nel più generale obbligo di leale cooperazione di cui all’art. 4, par. 3, TFUE che al secondo comma richiede agli Stati membri di adottare tutte le misure necessarie a dare esecuzione agli obblighi derivanti dai Trattati o dagli atti delle istituzioni, quale interpretato dalla consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia e dalle generali esigenze di certezza giuridica.
A tale, ultimo, proposito va ricordato che l’intervento del legislatore nazionale per adattare la legislazione interna a quanto prescritto da «una disposizione del Trattato, persino direttamente applicabile nell’ordinamento giuridico degli Stati membri», è stato da sempre richiesto dalla Corte di giustizia proprio allo scopo di eliminare ogni ambiguità e incertezza negli amministrati circa il diritto applicabile. Ma tale necessità non esclude affatto l’obbligo di «tutte le autorità dello Stato» di applicare le norme europee direttamente applicabili, indipendentemente dal fatto che siano state adottate norme nazionali d'attuazione (Corte giust. 15 ottobre 1986, 168/85, Commissione c. Italia, punto 11).
Proprio il profilo della certezza giuridica, come vedremo oltre, assume rilievo determinante ai fini della valutazione della qualità della legge nei suoi aspetti della determinatezza e della prevedibilità.
3. Sulla definizione dell’ambito delle rispettive competenze. Posta questa premessa, e prima di affrontare la questione delle eventuali conseguenze della disapplicazione della legge nazionale sul principio di legalità dei reati e delle pene, la Corte passa a definire la natura della competenza dell’Unione nella materia oggetto della questione. Il punto, come si vedrà, rileva ai fini della determinazione del diritto applicabile e dell’organo competente a garantirne l’interpretazione.
A questo proposito i giudici di Lussemburgo hanno precisato che il settore della tutela degli interessi finanziari dell’Unione attraverso la previsione di sanzioni penali rientra nella competenza concorrente dell’Unione e degli Stati membri e che, alla data dei fatti, il regime della prescrizione applicabile ai reati in materia di IVA non era stato oggetto di armonizzazione da parte del legislatore dell’Unione. Tale armonizzazione è avvenuta solo successivamente, e in modo parziale, con l’adozione della direttiva (UE) 2017/1371 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2017, relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale.
Siamo dunque nell’ambito d’attuazione da parte degli Stati membri del diritto dell’Unione e quindi della Carta, secondo quanto stabilito dal suo art. 51, par. 1.
La circostanza che si tratti di un settore, al momento dei fatti, non armonizzato fa sì che gli Stati membri siano liberi di applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali che risultini più elevati e quindi, nel caso, di prevedere che il regime della prescrizione ricada, nell’ordinamento giuridico italiano, nel diritto penale sostanziale e sia soggetto al principio di legalità dei reati e delle pene. Saranno dunque i giudici nazionali, qualora decidano di disapplicare le disposizioni del codice penale rilevanti, a dover vigilare sul rispetto dei diritti fondamentali delle persone accusate. In tale valutazione i giudici nazionali potranno, in coerenza con la giurisprudenza Åkerberg Fransson, «applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali, a patto che tale applicazione non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità o l’effettività del diritto dell’Unione» (Corte giust. 26 febbraio 2013, C-617/10, Åkerberg Fransson, punti 29 e 47).
Tale ultima verifica sarà compito della Corte di giustizia, in quanto garante esclusivo del «rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei Trattati» secondo quanto previsto dall’art. 19 TUE.
4. Sul principio di legalità e sulla qualità della legge. Anche su questo profilo la sentenza in esame si colloca in linea di continuità con la giurisprudenza in tema di rispetto dei diritti fondamentali e dei principi generali di diritto, rivalutando alcuni punti che, pur essendo stati tenuti in conto nella sentenza Taricco, non avevano però trovato riscontro nel relativo dispositivo. Non parlerei quindi di un revirement della giurisprudenza (P. Faraguna, Frodi sull’Iva e il caso Taricco: la Corte di Giustizia fa marcia indietro, in http://www.lacostituzione.
info/index.php/2017/12/06/frodi-sulliva-e-il-caso-taricco-la-corte-di-giustizia-fa-marcia-indietro/, 6 dicembre 2017, osserva come la Corte di giustizia abbia «giocato sul labile confine che passa tra distinguishing e overruling»), quanto piuttosto di una più ampia analisi del problema alla luce del diverso e più completo quadro normativo delineato nell’ordinanza della Corte costituzionale e della conseguente applicazione di principi giurisprudenziali già presenti e consolidati nella giurisprudenza europea. Non a caso la Corte di giustizia, nelle considerazioni preliminari dedicate alla funzione del procedimento di rinvio pregiudiziale, precisa di essere tenuta a «prendere in considerazione, nell’ambito della ripartizione delle competenze tra i giudici dell’Unione e i giudici nazionali, il contesto materiale e normativo nel quale si inseriscono dette questioni, quale definito dalla decisione di rinvio» (punto 24) e che gli interrogativi sollevati dalla Corte costituzionale circa l’eventuale violazione del principio di legalità dei reati e delle pene che potrebbe derivare dall’applicazione della c.d. regola Taricco «non erano stati portati a conoscenza della Corte nella causa all’origine della sentenza Taricco» (punto 28).
Ritornando al tema del principio di legalità va in effetti ricordato che al punto 53 della motivazione della sentenza Taricco la Corte aveva precisato che «qualora il giudice nazionale dovesse decidere di disapplicare le disposizioni nazionali di cui trattasi, egli dovrà allo stesso tempo assicurarsi che i diritti fondamentali degli interessati siano rispettati. Questi ultimi, infatti, potrebbero vedersi infliggere sanzioni alle quali, con ogni probabilità, sarebbero sfuggiti in caso di applicazione delle suddette disposizioni di diritto nazionale» (punto 53). E nel successivo punto 55, l’analisi delle conseguenze della disapplicazione delle disposizioni nazionali ai fini della verifica del rispetto dei diritti fondamentali degli imputati, quali garantiti dall’art. 49 della Carta, era stata effettuata «con riserva di verifica da parte del giudice nazionale». Tuttavia, nonostante tali affermazioni, i giudici di Lussemburgo avevano concluso che «una disapplicazione del diritto nazionale siffatta non violerebbe i diritti degli imputati, quali garantiti dall’art. 49 della Carta». Ciò in quanto secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo l’art. 7 CEDU, corrispondente all’art. 49 della Carta, non può essere interpretato «nel senso che osta a un allungamento dei termini di prescrizione quando i fatti addebitati non si siano ancora prescritti» e di conseguenza la proroga del termine di prescrizione e la sua immediata applicazione non comportano una lesione dei diritti garantiti da tali disposizioni. Da questa concezione processualistica del regime della prescrizione, la Corte di giustizia aveva dedotto l’obbligo dei giudici nazionali di dare piena efficacia all’art. 325 TFUE, disapplicando all’occorrenza le disposizioni nazionali rilevanti (punto 57).
Nella più recente sentenza la Corte di giustizia non si limita invece, come nella sentenza Taricco, ad indicare in termini generali l’obbligo gravante sul giudice nazionale di assicurarsi che vengano rispettati i diritti fondamentali degli interessati sulla base dello standard minimo dedotto dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. In considerazione delle questioni specificatamente sollevate dalla Corte costituzionale, essi si soffermano infatti ad interpretare dettagliatamente il principio di legalità, concentrandosi in particolare sui requisiti di prevedibilità, determinatezza e irretroattività della legge penale, alla luce della Carta dei diritti fondamentali e dei principi generali del diritto dell’Unione, secondo quanto disposto dall’art. 6 TUE.
A questo proposito la Corte ricorda infatti l’importanza che riveste il principio di legalità dei reati e delle pene tanto nell’ordinamento giuridico dell’Unione, quanto in quello degli Stati membri.
Sancito nell’art. 49 della Carta, il principio si impone agli Stati membri quando attuano il diritto dell’Unione, come avviene nell’esercizio della loro potestà punitiva per attuare gli obblighi derivanti dall’art. 325 TFUE, e di conseguenza «l’obbligo di garantire l’efficace riscossione delle risorse dell’Unione non può contrastare con tale principio» (punto 52).
Il punto merita la massima attenzione perché la Corte vi afferma senza alcuna condizione che l’applicazione delle norme dei Trattati istitutivi cessa là dove ne possano derivare effetti incompatibili con i principi fondamentali sanciti nella Carta.
Ma i giudici europei non si limitano a tale affermazione e rilevano che il principio di legalità dei reati e delle pene «appartiene alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri» ed è sancito anche dall’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Pertanto, come stabilito dall’art. 52, par. 3, della Carta, occorre far riferimento alla Convenzione, allo scopo di definire contenuto e portata del principio quale sancito dall’art. 49.
La Corte di giustizia si concentra in particolare sui requisiti di qualità della legge, nelle componenti sia di accessibilità e prevedibilità, sia di determinatezza, requisiti questi che, secondo la Corte costituzionale, farebbero difetto alla c.d. regola Taricco. Facendo ampi riferimenti, sia alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sia alla propria, entrambe consolidate (in argomento v. P. Mori, La "qualità" della legge e la clausola generale di limitazione dell'art. 52, par. 1, della Carta dei diritti fondamentali, in Dir. Un. Eur., 2014, p. 257 ss.), la Corte sottolinea che «le disposizioni penali devono rispettare determinati requisiti di accessibilità e di prevedibilità per quanto riguarda tanto la definizione del reato quanto la determinazione della pena» (punto 55); e che inoltre «il requisito della determinatezza della legge applicabile implica che la legge definisca in modo chiaro i reati e le pene che li reprimono. Tale condizione è soddisfatta quando il singolo può conoscere, in base al testo della disposizione rilevante e, se del caso, con l’aiuto dell’interpretazione che ne sia stata fatta dai giudici, gli atti e le omissioni che chiamano in causa la sua responsabilità penale» (punto 56). Infine, il principio di irretroattività della legge penale impedisce al giudice di «sanzionare penalmente una condotta non vietata da una norma nazionale adottata prima della commissione del reato addebitato, ovvero aggravare il regime di responsabilità penale di coloro che sono oggetto di un procedimento siffatto» (punto 57).
Declinati in questi termini i requisiti inerenti al principio di legalità, la Corte, richiama l’affermazione iniziale secondo cui, trattandosi di un settore non ancora armonizzato a livello europeo, lo Stato italiano era libero di qualificare la prescrizione come regime di natura sostanziale e di applicare i propri standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali (punto 45) e perciò conclude che quei requisiti si applicano, nell’ordinamento giuridico italiano, anche al regime di prescrizione relativo ai reati in materia di IVA.
Due le conseguenze che la Corte trae da tale analisi. In primo luogo essa affida al giudice nazionale il compito di verificare se la condizione per la disapplicazione richiesta dalla sentenza Taricco - e cioè che le disposizioni sulla prescrizione impediscano di applicare sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione - «conduca a una situazione di incertezza nell’ordinamento giuridico italiano quanto alla determinazione del regime di prescrizione applicabile, incertezza che contrasterebbe con il principio della determinatezza della legge applicabile» (punto 59).
In secondo luogo, la Corte rileva che la disapplicazione di queste disposizioni potrebbe portare alla conseguenza che persone accusate di aver commesso reati in materia di IVA prima della pronuncia della sentenza Taricco, «potrebbero essere condannate a sanzioni alle quali, con ogni probabilità, sarebbero sfuggite se le suddette disposizioni fossero state applicate». Tali persone potrebbero quindi risultare «retroattivamente assoggettate a un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato» (punto 60).
Entrambi i casi - incertezza del regime normativo applicabile e applicazione retroattiva in malam partem - nella misura si pongono in contrasto con il principio di legalità dei reati e delle pene esimono il giudice nazionale dall’obbligo di disapplicare le norme nazionali in materia di prescrizione e ciò anche «qualora il rispetto del medesimo consentisse di rimediare a una situazione nazionale incompatibile con il diritto dell’Unione» (punto 61).
Ricorrendo quest’ultima situazione spetterà allora «al legislatore nazionale adottare le misure necessarie».
5. Alcune riflessioni finali dal punto di vista di un cultore del diritto dell’Unione europea. La sentenza Taricco II è senza dubbio destinata ad entrare nel novero dei grands arrêts, costituendo un momento importante di dialogo tra il giudice europeo e il giudice costituzionale italiano in una materia, quella del diritto penale, in cui gli Stati hanno sempre gelosamente custodito la propria sovranità e in cui il diritto dell’Unione sta conoscendo nuovi e crescenti sviluppi. Essa affronta profili, relativi al principio di legalità in materia penale e ai rapporti tra ordinamento europeo e ordinamenti nazionali, particolarmente delicati e che richiedono approfondita considerazione. In questa prima lettura della sentenza ci si limiterà pertanto ad alcune brevi osservazioni, senza alcuna pretesa di completezza.
Va detto, innanzitutto, che la Corte di giustizia riesce a coniugare la coerenza della propria giurisprudenza sul primato del diritto dell’Unione e sul rispetto dei diritti fondamentali con i rilievi sollevati dalla Corte costituzionale, la quale, come si ricorderà, aveva prospettato in termini molto netti, se non addirittura ultimativi, la necessità di attivare il meccanismo dei controlimiti per impedire l’applicazione della c.d. regola Taricco.
Da un lato, infatti, i giudici di Lussemburgo, pur ribadendo inequivocabilmente che l’art. 325, paragrafi 1 e 2, TFUE pone a carico degli Stati membri obblighi di risultato precisi e incondizionati, tali da imporre ai giudici nazionali l’obbligo di disapplicare le disposizioni interne incompatibili (c.d. regola Taricco), danno piena considerazione alla contestazione della Corte costituzionale sulla assenza di determinatezza e prevedibilità della legge applicabile e sugli effetti retroattivi della stessa.
Dall’altro lato, pur a fronte di una situazione di scandalosa impunità determinata dalla normativa sulla prescrizione dei reati economici e di una violazione grave e prolungata nel tempo da parte dello Stato italiano degli obblighi derivanti dall’art. 325 TFUE, la Corte di giustizia percorre la strada della massimizzazione delle tutele dei diritti fondamentali sanciti dalla Carta e quali principi generali del diritto dell’Unione ex art. 6, par. 3, TUE. Secondo la Corte, infatti, i diritti fondamentali garantiti dalla Carta e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri si impongono anche sulle norme fondamentali dei Trattati istitutivi. Con ciò viene confermata la superiorità delle norme della Carta su quelle dei Trattati (in questo senso A. Tizzano, L’application de la Charte de droits fondamentaux dans les Etats membres à la lumière de l’article 51, paragraphe 1, in Dir. Un. Eur., 2014, p. 430; per una ricostruzione in termini di prevalenza assiologica, P. Mori, Rapporti tra fonti nel diritto dell’Unione europea. Il diritto primario, Torino, 2010, p. 171 ss.).
Nel compiere tale operazione interpretativa, la Corte circoscrive i termini della questione nell’ambito del diritto dell’Unione: il principio di legalità dei reati e delle pene nei suoi requisiti di determinatezza della legge applicabile e di irretroattività in malam partem, è valutato alla luce dell’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali e delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri quali richiamate dall’art. 6 TUE.
Va poi aggiunto che nella sentenza è dato il massimo rilievo al dialogo tra la Corte di Lussemburgo e i giudici degli Stati membri, dialogo che, attraverso la procedura pregiudiziale, «mira ad assicurare l’unità di interpretazione del diritto dell’Unione, permettendo così di garantire la coerenza, la piena efficacia e l’autonomia di tale diritto nonché, in ultima istanza, il carattere peculiare dell’ordinamento istituito dai Trattati» (Corte giust. parere 2/13, punto 176). Ma soprattutto viene valorizzato il ruolo anche interpretativo che il giudice nazionale è chiamato a svolgere al fine di coordinare il principio interpretativo statuito dalla Corte di giustizia con la normativa nazionale applicabile nel giudizio a quo. Non a caso, la Corte affida a quel giudice il compito di verificare se l’applicazione della c.d. regola Taricco «conduca a una situazione di incertezza nell’ordinamento giuridico italiano quanto alla determinazione del regime di prescrizione applicabile».
Nel caso in esame il giudice competente a effettuare tale verifica sarà la Corte costituzionale in quanto essa aveva sollevato la questione pregiudiziale.
Su questo punto non si può però ignorare che dopo solo nove giorni dalla pronunzia Taricco II la Corte costituzionale nella sentenza n. 269 è intervenuta sulla questione con un obiter dictum che mette apertamente in discussione tanto la competenza della Corte di giustizia nell’interpretazione della Carta e delle tradizioni costituzionali comuni ex art. 6, par. 3, TUE, quanto il ruolo del giudice ordinario come giudice comune dell’ordinamento europeo.
Partendo dal presupposto che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ha carattere peculiare in ragione del suo contenuto «di impronta tipicamente costituzionale» e che «i principi e i diritti enunciati nella Carta intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana» la Corte costituzionale, dopo aver citato in proposito la sentenza della Corte di giustizia del 5 dicembre (si noti che l’udienza romana si è tenuta l’11 novembre e quindi sul punto non sono evidentemente stati sentiti né gli avvocati di parte, né l’Avvocatura generale dello Stato) afferma «che le violazioni dei diritti della persona postulano la necessità di un intervento erga omnes di questa Corte» e che pertanto essa «giudicherà alla luce dei parametri interni ed eventualmente di quelli europei (ex artt. 11 e 117 Cost.), secondo l’ordine di volta in volta appropriato, anche al fine di assicurare che i diritti garantiti dalla citata Carta dei diritti siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali, pure richiamate dall’art. 6 del Trattato sull’Unione europea e dall’art. 52, comma 4, della CDFUE come fonti rilevanti in tale ambito» (par. 5.2).
Inoltre, dato che la «sopravvenienza delle garanzie approntate … [dalla Carta] a quelle previste dalla Costituzione italiana può generare un concorso di rimedi giurisdizionali» i giudici della Consulta, richiamando i casi Melki (Corte giust. 22 giugno 2010, C-188/10 e C-189/10) e A c. B (Corte giust. 11 settembre 2014, C-112/13), affermano che in presenza di controversie che diano luogo tanto a questioni di legittimità costituzionale e contemporaneamente a questioni di compatibilità con il diritto dell’Unione il giudice debba prioritariamente sollevare la prima.
L’obiter dictum della Corte costituzionale solleva molte e complesse questioni, a cominciare da quelle relative alla sua effettiva portata, questioni che esorbitano dalla portata di questo scritto.
Basti qui osservare che, al di là dell’ossequio verbale al principio del primato del diritto dell’Unione e al ruolo della Corte di giustizia e alla sua giurisprudenza, traspare evidente, da un lato, l’obiettivo di “nazionalizzare” la tutela dei diritti fondamentali anche qualora si versi nel campo di applicazione del diritto dell’Unione, dall’altro lato, è altrettanto chiara la volontà di accentrare in sé il ruolo di garante ultimo della tutela dei diritti, con il rischio violare le prerogative che i Trattati riservano della Corte di giustizia e di alterare e rallentare quel dialogo diretto tra questa e il giudice comune che ha consentito in questi primi sessant’anni di integrazione europea l’effettività e lo sviluppo del diritto dell’Unione. Ma anche di rimettere in discussione il principio della diretta applicabilità delle norme dell’Unione quale definito dalla Corte di giustizia nella sentenza Simmenthal e successivamente applicato dalla Corte costituzionale nella sentenza Granital (Corte cost. 170/1984) (sul punto v. R. Mastroianni, La Corte di giustizia e il controllo di costituzionalità: Simmenthal revisited, in Giur. Cost., 2014, p. 4089 ss.).
Non si comprende poi quali siano le «trasformazioni che hanno riguardato il diritto dell’Unione europea e il sistema dei rapporti con gli ordinamenti nazionali dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona» che possano giustificare una tale presa di posizione (Corte cost., 269/2017, par. 5. 2). La Carta, infatti è un atto di natura codificatoria di norme e principi preesistenti nelle norme degli stessi Trattati istitutivi, nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo e in altri strumenti internazionali vincolanti gli Stati membri, nelle tradizioni costituzionali comuni a questi ultimi. Significativamente, la Corte di giustizia ne interpreta le disposizioni, anche quelle c.d. trasversali, in piena coerenza con la propria precedente giurisprudenza sui diritti fondamentali quali principi generali del diritto dell’Unione, come del resto previsto dalle stesse Spiegazioni alla Carta.
Sorprende che una tale presa di posizione da parte delle Corte costituzionale arrivi all’indomani di una sentenza della Corte di giustizia estremamente attenta alle esigenze, anche nazionali, di tutela dei diritti fondamentali. Ancor di più sorprende quando si consideri che nel caso Taricco II sarebbe comunque stata la Corte costituzionale, in quanto giudice nazionale del rinvio, a decidere sul principio interpretativo posto dalla Corte di giustizia.