argomento: Giurisprudenza - Unione Europea
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Pronunciandosi il 16 novembre 2021 sul ricorso per inadempimento a suo tempo introdotto dalla Commissione (C-821/19, Commissione c. Ungheria (Configurazione come reato del sostegno ai richiedenti asilo)), la Corte di giustizia ha la Corte ha dichiarato che l’Ungheria è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (c.d. direttiva «procedure»), consentendo di respingere in quanto inammissibile una domanda di protezione internazionale con la motivazione che il richiedente è giunto nel suo territorio attraversando uno Stato in cui non è esposto a persecuzioni o a un rischio di danno grave, o in cui è garantito un adeguato livello di protezione. Infatti, la direttiva «procedure» elenca tassativamente le situazioni in cui gli Stati membri possono considerare una domanda di protezione internazionale inammissibile, e il motivo di inammissibilità introdotto dalla normativa ungherese non corrisponde ad alcuna di tali situazioni.
La Corte è arrivata poi alla stessa conclusione con riguardo agli obblighi posti non solo dalla direttiva «procedure», ma anche da quella c.d. «accoglienza» (direttiva 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante norme relative all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale), rispetto al fatto che l’Ungheria punisca come reato il comportamento di qualsiasi persona che, nell’ambito di un’attività organizzativa, offra un sostegno alla presentazione o all’inoltro di una domanda di asilo nel suo territorio, qualora sia possibile provare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che tale persona era consapevole del fatto che detta domanda non poteva essere accolta, in forza del succitato diritto.