argomento: Giurisprudenza - Unione Europea
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Con due sentenze del 19 marzo 2019 (causa C-163/17, Jawo, e cause riunite C-297/17, C-318/17, Ibrahim, C-319/17, Sharqawi e a. e C-438/17, Magamadov) pronunciate in risposta a rinvii pregiudiziali di giudici tedeschi riguardanti rispettivamente il Regolamento Dublino III (regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide) e la Direttiva procedure (direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale), la Corte di giustizia ha ricordato che, nell’ambito del sistema europeo comune d’asilo che si fonda sul principio di fiducia reciproca tra gli Stati membri, si deve presumere che il trattamento riservato da uno Stato membro ai richiedenti protezione internazionale e alle persone che hanno ottenuto una protezione sussidiaria sia conforme a quanto prescritto dalla Carta europea dei diritti fondamentali, dalla Convenzione di Ginevra sui rifugiati e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.
Tuttavia, non si può escludere che tale sistema incontri, nella pratica, gravi difficoltà di funzionamento in un determinato Stato membro, cosicché sussiste un rischio serio che taluni richiedenti protezione internazionale siano trattati, in tale Stato membro, in modo incompatibile con i loro diritti fondamentali e, segnatamente, con il divieto assoluto di trattamenti inumani o degradanti3.
Così, quando il giudice investito di un ricorso avverso una decisione di trasferimento o avverso una decisione che respinge una nuova domanda di protezione internazionale come inammissibile dispone di elementi prodotti dal richiedente per dimostrare l’esistenza del rischio di un trattamento inumano o degradante nell’altro Stato membro, detto giudice è tenuto a valutare l’esistenza di carenze vuoi sistemiche o generalizzate, vuoi che colpiscono determinati gruppi di persone.
Tuttavia, carenze del genere sono contrarie al divieto di trattamenti inumani o degradanti soltanto qualora raggiungano una soglia particolarmente elevata di gravità che dipende dall’insieme delle circostanze concrete del caso. In tal senso, tale soglia sarebbe raggiunta quando l’indifferenza delle autorità di uno Stato membro comporta che una persona completamente dipendente dall’assistenza pubblica si venga a trovare, indipendentemente dalla sua volontà e dalle sue scelte personali, in una situazione di estrema deprivazione materiale che non le consenta di far fronte ai suoi bisogni più elementari quali, segnatamente, nutrirsi, lavarsi e disporre di un alloggio, e che pregiudichi la sua salute fisica o psichica o che la ponga in uno stato di degrado incompatibile con la dignità umana.
Inoltre, la circostanza che i beneficiari di una protezione sussidiaria non ricevano, nello Stato membro che ha concesso tale protezione al richiedente, nessuna prestazione di sussistenza, o siano destinatari di prestazioni di sussistenza in misura molto inferiore che in altri Stati membri, pur non essendo trattati diversamente dai cittadini di tale Stato membro, può indurre a dichiarare che tale richiedente sarebbe ivi esposto a un rischio effettivo di subire un trattamento inumano o degradante solo se detta circostanza comporta la conseguenza che quest’ultimo si troverebbe, in considerazione della sua particolare vulnerabilità, indipendentemente dalla sua volontà e dalle sue scelte personali, in una situazione di estrema deprivazione materiale.