argomento: Osservatorio
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di AMEDEO ARENA
Con la sentenza 9/2018, del 18 aprile 2018, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha dichiarato incompatibile con il principio della libera circolazione dei lavoratori, di cui all’art. 45 TFUE, il requisito del possesso della cittadinanza italiana per l’accesso agli impieghi pubblici di livello dirigenziale, previsto dall’art. 1, lettera a), del DPCM 174/1994 e dall’art. 2, comma 1, del DPR 487/1994 (in prosieguo: i decreti del 1994).
Tale pronuncia pone fine ad una lunga vertenza giudiziaria sorta a seguito della c.d. riforma Franceschini (art. 14, comma 2-bis, del d.l. 84/2014, convertito in l. 106/2014), che aveva promosso la partecipazione alle selezioni per gli incarichi direttivi presso diversi musei italiani di cittadini di altri Stati membri dell’Unione europea, alcuni dei quali risultati vincitori.
Con le sentenze 6171, 6719 e 6170/2017, peraltro, la sezione seconda quater del TAR Lazio aveva accolto i ricorsi presentati dai controinteressati di nazionalità italiana, statuendo che «la partecipazione di cittadini non italiani» alle procedure concorsuali in questione costitutiva una violazione della «riserva di nazionalità» prevista dai decreti del 1994 per tutti «i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato» (cfr. A. LIGUORI, Il requisito della cittadinanza italiana nell'esercizio della funzione pubblica: il caso delle direzioni museali, in GiustAmm.it, fasc. 10/2017, p. 1 ss).
Con la sentenza 3666/2017, però, la sesta sezione di Palazzo Spada aveva rilevato che gli incarichi dirigenziali de quibus si sostanziavano in «attività prevalentemente rivolt[e] alla gestione economica e tecnica» dei musei, non suscettibili di inquadramento nella deroga per gli «impieghi nella pubblica amministrazione» di cui all'art. 45, par. 4, TFUE. Per dare piena attuazione al principio della libera circolazione dei lavoratori, i giudici amministrativi avevano perciò disapplicato i decreti del 1994, sancendo la legittimità della partecipazione dei cittadini non italiani alle procedure di selezione (cfr. M. GNES, L'apertura della direzione dei musei italiani ai cittadini europei, in Giornale di diritto amministrativo, fasc. 2/2018, p. 493 ss.; F. LIGUORI, La public service exception tra norma e giudice: il caso dei direttori stranieri dei musei italiani, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, fasc. 1/2018, p. 33 ss.; S. AMOROSINO, Il Consiglio di Stato "salva" il Parco archeologico del Colosseo (ed i direttori stranieri dei musei), in Urbanistica e appalti, fasc. 1/2018, pp. 11-14).
Nella successiva sentenza-ordinanza 677/2018, invece, i giudici della sesta sezione del Consiglio di Stato avevano paventato di non poter procedere alla disapplicazione dei decreti del 1994 per ragioni di ordine processuale, sovranazionale e costituzionale, rimettendone la valutazione all’Adunanza plenaria, che si è pronunciata su tali questioni con la sentenza in commento (cfr. M. GNES, La dirigenza pubblica e il requisito della cittadinanza, in Giornale di diritto amministrativo, fasc. 2/2018, p. 143 ss.).
Quanto al profilo processuale, la sentenza-ordinanza 677/2018 aveva ipotizzato che la disapplicazione della riserva di nazionalità prevista dai decreti del 1994 potesse essere preclusa dal principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato nell’ambito del processo amministrativo, in quanto il Ministero dei beni e delle attività culturali non aveva formulato uno specifico motivo d’appello in tal senso, ma si era limitato a rilevare la contrarietà della normativa interna al diritto dell’Unione europea nel corso del giudizio di secondo grado (punti 50.2-50.4 della parte in diritto).
Per quanto attiene al piano sovranazionale, per i giudici della sesta sezione del Consiglio di Stato non si doveva procedere alla disapplicazione dei decreti del 1994 in quanto il requisito di cittadinanza ivi previsto doveva ritenersi conforme alla deroga per gli «impieghi nella pubblica amministrazione» prevista dall'art. 45, par. 4, TFUE (punti 51-55.2 della parte in diritto). In particolare, i giudici rimettenti avevano proposto una lettura della giurisprudenza della Corte di giustizia fondata sulla distinzione tra i «soggetti estranei all’apparato statale», che possono fruire della predetta deroga solo se esercitano prevalentemente poteri d’imperio rispetto alle attività di gestione, ed i «pubblici poteri» facenti parte degli apparati statali, che beneficiano della deroga de qua senza necessità di accertare la prevalenza delle funzioni pubblicistiche (punto 54.3 della parte in diritto). Ad avviso dei giudici della sesta sezione, i direttori dei musei, che rappresentano «l'immediata espressione del potere esecutivo» e costituiscono «l'organo amministrativo di vertice del Ministero [dei beni e delle attività culturali e del turismo] con il quale si attua l'indirizzo politico del Governo», dovevano essere ricondotti alla categoria dei «pubblici poteri» e perciò sottratti de plano all’applicazione del principio della libera circolazione dei lavoratori, con conseguente conformità al diritto dell’Unione della riserva di tali incarichi ai cittadini italiani (punto 54.6 della parte in diritto).
Sotto il profilo costituzionale, infine, la sesta sezione aveva osservato che la disapplicazione dei decreti del 1994 doveva ritenersi preclusa dagli articoli 51 e 54 Cost., che secondo i giudici rimettenti riserverebbero ai cittadini italiani l’esercizio degli «uffici pubblici» e delle «funzioni pubbliche». Inoltre, la disapplicazione della riserva di nazionalità doveva ritenersi contraria all’art. 11 Cost., che consentirebbe limitazioni di sovranità a vantaggio dell’ordinamento dell’Unione soltanto «in condizioni di parità con gli altri Stati»: ai giudici della sesta sezione, però, non risultava che gli altri Stati membri dell’Unione europea permettessero ai cittadini italiani di accedere agli incarichi di rango dirigenziale presso i rispettivi musei (punto 56 della parte in diritto).
Quanto alla preclusione di carattere processuale paventata dai giudici rimettenti, l’Adunanza plenaria nella pronuncia in commento ha, in primo luogo, contestato la narrativa processuale contenuta nella sentenza-ordinanza 677/2018, osservando che, contrariamente a quanto affermato dalla sesta sezione, il Ministero dei beni e delle attività culturali aveva, in sede di articolazione dell’appello, individuato «specifici motivi di illegittimità a carico delle previsioni del d.P.C.M. 174 del 1994 (in particolare, per violazione del diritto eurounitario)» e ne aveva «espressamente chiesto la disapplicazione» (punto 4.1 della parte in diritto).
L’Adunanza plenaria ha inoltre precisato che, in ogni caso, «non risulta predicabile alcuna preclusione per il Giudice amministrativo nel rilevare la non applicabilità della disposizione in contrasto con il diritto UE» e ciò in quanto «la piena applicazione del principio di primauté del diritto eurounitario comporta che, laddove una norma interna (anche di rango regolamentare) risulti in contrasto con tale diritto, e laddove non risulti possibile un’interpretazione di carattere conformativo, resti comunque preclusa al Giudice nazionale la possibilità di fare applicazione di tale norma interna» (punto 4.3, sesto capoverso, della parte in diritto). I giudici dell’Adunanza plenaria hanno aggiunto che tali principi risultano «tanto più pregnanti» laddove, come nel caso di specie, occorra non solo disapplicare una norma interna contraria al diritto dell’Unione, ma altresì dare applicazione ad una norma dell’Unione dotata di efficacia diretta quale quella relativa alla libera circolazione dei lavoratori (punto 4.3, ultimo capoverso, della parte in diritto).
Viene in linea di conto, a tale riguardo, il c.d. obbligo di disapplicazione secondaria, sancito in diverse pronunce della Corte di giustizia (CGUE, sent. del 9 marzo 1978, causa 106/77, Simmethal, punti 22-23; sent. del 19 giugno 1990, causa C-213/89, Factortame, punti 20-21; sent. del 5 ottobre 2010, causa C-173/09, Elchinov, punto 30; sent. del 20 ottobre 2011, causa C-396/09, Interedil, punto 39; sent. dell’8 novembre 2016, causa C-554/14, Ognyanov, punti 69-70; sent. del 19 novembre 2009, Filipiak, causa C-314/08, punto 84; sent. del 15 gennaio 2013, causa C-416/10, Križan e a., punto 73). Secondo i giudici dell’Unione, difatti, in caso di conflitto tra una norma nazionale ed una norma dell’Unione direttamente efficace, occorre disapplicare, oltre alla norma nazionale confliggente (c.d. disapplicazione primaria), tutte le altre norme nazionali, anche di natura procedurale, che impediscano, sia pur temporaneamente, di porre rimedio ad una situazione di antinomia con il diritto dell’Unione (sul punto, A. ARENA, Sul carattere “assoluto” del primato del diritto dell’Unione europea, in Studi sull’integrazione europea, 2018, pp. 331-332).
I giudici dell’Adunanza plenaria sono pervenuti a conclusioni analoghe a partire da due pronunce della Corte costituzionale (la sentenza 10 novembre 1994, n. 384 e la sentenza 7 novembre 1995, n. 482), anche se le stesse non fanno espressamente riferimento al c.d. obbligo di disapplicazione secondaria. Nondimeno, le implicazioni processuali del principio del primato che l’Adunanza plenaria ha dedotto da tali pronunce risultano pienamente corrispondenti alle indicazioni fornite dalla giurisprudenza della Corte di giustizia in ordine al c.d. obbligo di disapplicazione secondaria.
Il cuore della pronuncia dell’Adunanza plenaria attiene all’interpretazione della deroga al principio della libera circolazione dei lavoratori per gli «impieghi nella pubblica amministrazione» prevista dall’art. 45, par. 4, TFUE. Dopo il richiamo alle pertinenti disposizioni sovranazionali, costituzionali, legislative e regolamentari, i giudici amministrativi hanno offerto la propria ricostruzione della giurisprudenza della Corte di giustizia relativa alla deroga in parola (punto 5.2.1 e ss.), soffermandosi sulla sua applicazione agli incarichi che prevedono una commistione di funzioni iure imperii e iure gestionis (punto 5.2.2 e ss.).
A tale riguardo, secondo i giudici dell’Adunanza plenaria, la Corte di giustizia avrebbe scartato il c.d. criterio del contagio (secondo cui, ai fini dell’applicazione dell’art. 45, par. 4, TFUE, «è sufficiente che la figura di che trattasi eserciti anche un solo potere di carattere pubblicistico nel complesso dei compiti attribuiti») optando invece per il c.d. criterio della prevalenza (secondo cui, per rientrare nella deroga de qua, occorre che «i poteri di matrice pubblicistica, autoritativa e coercitiva assumano valenza prevalente in relazione al complesso dei compiti attribuiti») (punto 5.2.2.2 della parte in diritto). Tale impostazione ermeneutica trova riscontro, in particolare, nella sentenza della Corte di giustizia del 10 settembre 2014 nella causa Haralambidis, in cui i giudici di Viale Adenauer, pur riconoscendo che il presidente di un’autorità portuale dispone di poteri di carattere coattivo, hanno escluso l’applicazione a tale incarico della deroga di cui all’art. 45, par. 4, TFUE in virtù della prevalenza delle mansioni di carattere amministrativo-gestionale (punti 57-61 della parte in diritto).
Pertanto, l’Adunanza Plenaria ha respinto la tesi avanzata dalla sesta sezione di Palazzo Spada secondo la quale tutti gli incarichi di livello dirigenziale comporterebbero l’esercizio dell’autorità pubblica e la responsabilità di salvaguardare gli interessi dello Stato, rilevando che, al contrario, tali incarichi possono anche risolversi in «mere attività di consulenza, studio e ricerca» (punto 5.5.1 della parte in diritto). Del pari, l’Adunanza plenaria ha ritenuto infondata la prospettazione dei giudici rimettenti volta a restringere la portata della giurisprudenza Haralambidis ai soli «enti pubblici aventi una personalità giuridica distinta da quella dello stato», in quanto fondata su «categorie e distinzioni proprie dell’ordinamento interno» prive di rilevanza ai fini dell’interpretazione dell’art. 45, par. 4, TFUE (punto 5.5.2., quarto trattino, della parte in diritto). Inoltre, in applicazione del criterio della prevalenza, l’Adunanza plenaria ha osservato che gli eventuali poteri autoritativi attribuiti ai direttori dei musei assumono, in ogni caso, un rilievo marginale rispetto alle mansioni organizzative e gestionali loro affidate (punto 5.5.3 della parte in diritto).
Tali statuizioni risultano senz’altro corrette, posto che la Corte di giustizia ha da tempo rifiutato un’interpretazione «istituzionale» della deroga per gli «impieghi nella pubblica amministrazione», incentrata sul rapporto di «dipend[enza] dallo Stato o da altri enti pubblici» (sentenza del 17 dicembre 1980, Commissione c. Belgio, punto 11), a vantaggio di un’interpretazione «funzionale», fondata sull’esercizio di «mansioni che hanno ad oggetto la tutela degli interessi generali dello Stato» (sentenza del 2 luglio 1996 Commissione c. Grecia, punto 34), ed ha escluso l’applicazione della deroga de qua nel caso in cui l’esercizio dei «poteri d’imperio» risultava residuale rispetto alle attività iure gestionis (sentenza del 10 settembre 2014, Haralambidis, punti 56-57), soluzione che s’impone a fortiori nei confronti dei direttori dei musei, i quali non dispongono di analoghi poteri coercitivi (sul punto A. ARENA, Status civitatis ed accesso alla dirigenza pubblica: alcune considerazioni in vista della pronuncia dell’Adunanza plenaria sui direttori dei musei, in Eurojus, 12/2/2018, punto 3; V. LUCIANI, La riforma dei musei e la controversa apertura ai direttori stranieri, in M. ESPOSITO, V. LUCIANI, A. ZOPPOLI, L. ZOPPOLI (a cura di), La riforma dei rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Giappichelli, Torino, 2018, p. 473).
L’Adunanza plenaria è giunta a tali conclusioni attraverso un’autonoma ricostruzione della giurisprudenza della Corte di giustizia, confortata dall’analisi della giurisprudenza del Consiglio di Stato Francese (punto 5.2.3 della parte in diritto). Posto che la sesta sezione del Consiglio di Stato aveva proposto un’opposta lettura della giurisprudenza del giudice dell’Unione relativa all’art. 45, par. 4, TFUE, risulta lecito chiedersi se sarebbe stato più opportuno investire la Corte di giustizia della questione, onde consentire ad essa di fare luce, attraverso una pronuncia pregiudiziale, sulla corretta interpretazione della disposizione de qua. La sentenza in commento tace a tale riguardo, il che lascia intendere che l’Adunanza plenaria abbia ritenuto evidente il significato dell’art. 45, par. 4, TFUE. La valutazione dell’Adunanza plenaria appare comprensibile, anche nell’ottica di una più celere definizione della controversia pendente, alla luce della sentenza della Corte di giustizia del 6 ottobre 1982, Cilfit, che come è noto esime i giudici di ultima istanza dall’obbligo del rinvio pregiudiziale se la corretta interpretazione del diritto dell’Unione si impone «con tale evidenza da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio» (punto 16).
Quanto alla preclusione di natura costituzionale, l’Adunanza plenaria ha, in primo luogo, rigettato la tesi della sesta sezione del Consiglio di Stato secondo la quale la riserva di nazionalità prevista dai decreti del 1994 troverebbe fondamento negli artt. 51 e 54 Cost. (punto 5.5.5. della parte in diritto). L’art. 51 Cost., difatti, è una norma «aperturista» e non una norma «preclusiva», volta a garantire l’uguaglianza nell’accesso ai pubblici uffici piuttosto che a riservare tali uffici ai cittadini italiani (in tal senso: Consiglio di Stato, parere 20 giugno 1990, n. 234); l’art. 54 Cost., del pari, persegue lo scopo di stabilire come devono essere adempiute le funzioni pubbliche e non anche quello di introdurre una «riserva di sovranità» nell’accesso a tali funzioni (cfr. Consiglio di Stato, sentenza 3666/2017).
L’Adunanza plenaria ha poi fatto proprie le considerazioni espresse nella sentenza 1210/2015, resa a seguito della pronuncia pregiudiziale della Corte di giustizia nella causa Haralambidis, in cui si esclude categoricamente che gli articoli 51 e 54 Cost. «impediscano l'attribuzione a cittadini di altri Paesi membri dell'Unione europea di incarichi di funzioni dirigenziali» (punto 5.5.5.1. della parte in diritto).
Per quanto attiene all’art. 11 Cost., l’Adunanza plenaria ha innanzitutto affermato che l’accesso di cittadini non italiani alla dirigenza pubblica «non implica in via di principio la cessione di quote di sovranità e non giustifica pertanto il richiamo alla violazione del principio di parità di cui all'articolo 11 Cost.» (punto 5.5.4.1 della parte in diritto). I giudici dell’Adunanza plenaria hanno poi precisato che il principio del primato del diritto dell’Unione preclude agli Stati membri di sottrarsi ai propri obblighi (in casu quelli relativi alla libera circolazione dei lavoratori) adducendo l’inadempimento da parte di un altro Stato membro ai medesimi obblighi, in quanto il principio di reciprocità, proprio del diritto internazionale pubblico, non trova applicazione nell’ambito del diritto dell’Unione (punto 5.5.4.2 della parte in diritto). In terzo luogo, l’Adunanza plenaria ha rilevato che l’affermazione che i cittadini italiani non abbiano accesso alla direzione delle istituzioni museali negli altri Stati membri non era sorretta da alcuna prova e che tale asserzione si risolveva in un indebito rovesciamento dell’onere probatorio a carico del ricorrente in primo grado (punto 5.5.4.3 della parte in diritto).
Anche tali statuizioni risultano condivisibili. Certamente opportuno è il richiamo alle sentenze del Consiglio di Stato 1210/2015 e 3666/2017, in cui si afferma che gli artt. 51 e 54 Cost. devono essere letti alla luce dell'art. 11 Cost. «nel senso di consentire l'accesso dei cittadini degli Stati dell'Unione europea agli uffici pubblici e alle cariche pubbliche nazionali in via generale, sulla base del principio della libera circolazione delle persone ex art. 45 TFUE», fatta eccezione per gli «impieghi nella pubblica amministrazione», di cui al par. 4 di tale articolo, come interpretato dalla Corte di giustizia.
Del pari, del tutto appropriata è la considerazione dell’Adunanza plenaria (anticipata in A. ARENA, Status civitatis ed accesso alla dirigenza pubblica: alcune considerazioni in vista della pronuncia dell’Adunanza plenaria sui direttori dei musei, in Eurojus, 12/2/2018, punto 4) secondo la quale l’abbandono del principio di reciprocità rappresenterebbe uno dei profili di specificità del diritto dell’Unione rispetto al diritto internazionale, una fondamentale distinzione le cui radici si rinvengono nella sentenza della Corte di giustizia del 13 novembre 1964, Commissione c. Lussemburgo e Belgio (il cui principale artefice pare sia stato il giudice Robert Lecourt: sul punto si veda l’interessante approfondimento storico di W. PHELAN, The Revolutionary Doctrines of European Law and the Legal Philosophy of Robert Lecourt, in European Journal of International Law, vol. 28, n. 3, pp. 935-957).
Al riguardo, giova aggiungere che l’interpretazione dell’art. 11 Cost. propugnata dalla sesta sezione era stata già esclusa dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 300/1984, ove si legge chiaramente che il riferimento alle «condizioni di parità con gli altri Stati» non può intendersi come un requisito di «assoluta eguaglianza» tra le limitazioni di sovranità consentite dal nostro ordinamento e quelle operate dagli altri Stati membri dell'Unione (punto 4 della parte in diritto), tanto più se si considera che tale disposizione è stata concepita dal Costituente in vista dell’adesione ad un’organizzazione internazionale (l’Organizzazione delle Nazioni Unite) il cui Statuto pone i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza in una posizione di evidente privilegio rispetto agli altri Stati aderenti a tale organizzazione.
Ad ogni buon conto, anche in un contesto giuridico che ripudia la logica della reciprocità, risulta innegabile l’interesse di assicurare che, all’accesso dei cittadini di altri Stati membri agli incarichi dirigenziali presso le amministrazioni italiane, si accompagni la possibilità per i cittadini italiani di ricoprire posizioni di livello analogo negli uffici pubblici degli altri Stati membri. In tale ottica, il coinvolgimento nel procedimento della Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 267 TFUE, avrebbe consentito di ottenere una pronuncia del Giudice dell’Unione – con ogni probabilità conforme alla lettura dell’art. 45, par. 4, TFUE offerta dai giudici di Palazzo Spada – che si sarebbe imposta, in virtù del c.d. «effetto moltiplicatore» delle pronunce pregiudiziali, ai giudici ed alle amministrazioni di tutti gli Stati membri dell’Unione, costituendo così un prezioso ausilio per i candidati italiani all’estero in caso di pratiche discriminatorie.
Occorre infine soffermarsi sull’affermazione secondo la quale consentire ai non cittadini di accedere alla dirigenza pubblica «non implica in via di principio la cessione di quote di sovranità e non giustifica pertanto il richiamo alla violazione del principio di parità di cui all'articolo 11 Cost.». L’apertura di tali incarichi ai candidati di altri Stati membri dell’Unione europea risponde all’esigenza di dare corretta attuazione all’art. 45 TFUE, la cui vigenza nell’ordinamento nazionale, al pari di ogni altra norma di diritto dell’Unione, è assicurata da una legge che trova «sicuro fondamento» nelle «limitazioni di sovranità» di cui all’art. 11 Cost., come chiarito dalla Consulta nella sentenza Frontini (punto 4 e ss. della parte in diritto). Con ogni probabilità, l’Adunanza plenaria intendeva sottolineare l’estraneità della fattispecie in esame non già all’art. 11 Cost. quale «clausola europea», ma esclusivamente al «principio di parità» ivi menzionato: così intesa, tale statuizione risulta pienamente rispondente allo spirito dell’integrazione europea come declinato nella giurisprudenza costituzionale.
Nella parte conclusiva della pronuncia in commento, l’Adunanza plenaria ha statuito che i decreti del 1994 si pongono «insanabilmente in contrasto» con l’art. 45, par. 4, TFUE nella misura in cui precludono «in modo assoluto» ai cittadini di altri Stati membri dell’Unione europea l’accesso ai posti di livello dirigenziale nelle amministrazioni dello Stato. L’Adunanza plenaria ha perciò disposto la disapplicazione di tali decreti (punto 6 della parte in diritto) ed ha definito la controversia respingendo integralmente il ricorso proposto avverso la nomina dell’austriaco Peter Assmann alla direzione del Palazzo Ducale di Mantova (punto 10 della parte in diritto).
Tale conclusione deve ritenersi pienamente condivisibile, in quanto costituisce una corretta applicazione del principio della libera circolazione dei lavoratori nel settore del pubblico impiego ed in quanto sancisce il superamento di una riserva di nazionalità incompatibile con l’attuale livello di compenetrazione giuridico-economica tra gli Stati membri dell’Unione europea (cfr. A. ARENA, Status civitatis ed accesso alla dirigenza pubblica: alcune considerazioni in vista della pronuncia dell’Adunanza plenaria sui direttori dei musei, in Eurojus, 12/2/2018, punto 5).
La pronuncia in commento deve essere accolta con favore anche perché evidenzia chiaramente l’esigenza di un intervento di riforma della disciplina relativa al requisito del possesso della cittadinanza italiana ai fini dell’accesso alla dirigenza pubblica (cfr. M. CLARICH, Dopo il caso direttori: cosa insegna la vicenda musei sulle nostre leggi, in Il Sole 24 Ore, 28 giugno 2018, p. 16). L’Adunanza plenaria ha difatti testualmente affermato che «spetterà al Governo, per evidenti ragioni di certezza giuridica, adottare le determinazioni conseguenti alla rilevata illegittimità de iure communitario della richiamata disposizione regolamentare» (punto 6, secondo paragrafo, della parte in diritto).
Come è noto, del resto, la disapplicazione ad opera dei giudici e delle amministrazioni nazionali delle norme interne contrarie al diritto dell’Unione non esime lo Stato membro interessato dall’obbligo di provvedere all’immediata modifica o abrogazione delle norme in questione, onde eliminare qualsiasi incertezza quanto alla loro vigenza per gli interessati (Sentenza del 26 aprile 1988, Commissione c. Germania, punti 8-12).
L’improcrastinabile necessità di ripensare la normativa che riserva alcuni incarichi pubblici ai cittadini italiani, più volte sottolineata in letteratura (A. Arena, Il requisito della cittadinanza italiana nell’accesso ai concorsi pubblici: brevi spunti di riforma alla luce della recente giurisprudenza, in SIDI Blog; L. BUSICO, Direttori di musei e cittadinanza, in Lavoro Diritti Europa, fasc. 1/2018, p. 8; R. CARANTA, La libertà di circolazione dei lavoratori nel settore pubblico, in Diritto dell’Unione Europea, 1999, p. 45; F. LIGUORI, La public service exception tra norma e giudice il caso dei direttori stranieri dei musei italiani, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, fasc. 1/2018, p. 39), trova conferma nella pendenza di altre controversie relative all’applicazione del requisito dello status civitatis, quale quella in relazione al concorso per assistente giudiziario, incardinata presso la sezione lavoro del Tribunale di Firenze di recente conclusasi con la condanna del Ministero della Giustizia al risarcimento del danno per l’indebita esclusione dei candidati non italiani (cfr. la l’ordinanza del 26 giugno 2018), nonché la controversia relativa al concorso per mediatore culturale, avviata presso il medesimo Tribunale il 16 aprile 2018 dall’Associazione «L’Altro Diritto».
Risulta quindi auspicabile che, nella riforma della disciplina regolamentare relativa ai requisiti di accesso alla dirigenza pubblica, il Governo faccia tesoro delle considerazioni espresse nella pronuncia in commento, nella giurisprudenza della Corte di giustizia relativa all’art. 45, par. 3, TFUE e nelle Comunicazioni della Commissione 88/C, COM(2010) 373, SEC(2010)1609 (con l’allegato Rapporto Ziller) e COM(2002) 694, al fine di consentire alle amministrazioni italiane di sfruttare appieno le opportunità offerte dal mercato del lavoro europeo, per dotarsi di dirigenti pubblici in grado di affrontare al meglio le sfide globali dell’attuale congiuntura economica e geopolitica.