Il presente lavoro analizza il tema della specificità dello sport nel più vasto contesto del diritto dell’Unione europea – Attraverso una ricognizione della principale giurisprudenza della Corte di giustizia sui divieti e sulle deroghe in materia di mercato interno, l’Autore evidenzia che la negazione delle regole puramente sportive teorizzata dalla Corte di giustizia nella sentenza Meca Medina e Majcen ha, di fatto, assimilato l’attività sportiva a qualsiasi altra attività economica, incidendo sulla stessa validità del concetto di specificità dello sport.
This paper analyses the subject of specificity of sport in the wider context of European Union law. By reviewing the basic case-law of the Court of Justice on bans and derogations in the field of internal market, the Author points out that the denial of the notion of purely sporting rules theorized by the Court of Justice in the Meca Medina and Majcen case has assimilated sports activity to any other economic activity, jeopardizing even the validity of the concept specificity of sport.
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Premessa. - II. Dalla nozione di misure di effetto equivalente alla teoria delle esigenze imperative: un paradigma applicabile all’intero mercato interno. - III. Le esigenze imperative in ambito antitrust e l’art. 101 TFUE. - IV. L’attività sportiva e il diritto dell’Unione europea. Un binomio (da sempre) difficile. - V. La giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di attività sportiva e la formale teorizzazione delle c.d. regole puramente sportive. - VI. La rivoluzione operata dalla Corte di giustizia nella sentenza Meca Medina e Majcen. - VII. Le conseguenze della negazione del concetto di regole puramente sportive. - NOTE
Nell’ambito del diritto dell’Unione europea è assai frequente riscontrare che i vari divieti contenuti nei Trattati non sono mai costruiti in termini di proibizioni ex se. In alcuni casi è la stessa formulazione letterale della norma a prevedere, accanto al divieto, le relative deroghe: si pensi, ad esempio, all’art. 36 TFUE in materia di libera circolazione delle merci e all’art. 52 TFUE in materia di libera circolazione delle persone, oppure all’art. 101, n. 3 TFUE in materia di accordi restrittivi della concorrenza. In altri casi, invece, è stata la stessa Corte di giustizia ad intervenire, prevedendo nuove ipotesi di eccezioni/giustificazioni in grado di ridefinire la portata precettiva dei vari divieti. Si pensi, a tale proposito, all’elaborazione giurisprudenziale relativa alle c.d. esigenze imperative, nata originariamente con riferimento alle misure restrittive indistintamente applicabili in materia di libera circolazione delle merci (Cassis de Dijon [1]) e successivamente estesa anche alla libera prestazione dei servizi (Webb [2]), al diritto di stabilimento (Gebhard [3]) e alla libera circolazione dei capitali (Commissione c. Portogallo [4]). Analogamente, in materia antitrust, si pensi all’avvenuta ridefinizione della portata del divieto di cui all’art. 101, n. 1 TFUE ad opera della sentenza Wouters e a. per effetto della quale si è assistito alla trasposizione, anche in ambito antitrust, di un approccio del tutto simile a quello delle esigenze imperative [5]. In nessuno di questi casi, peraltro, la lettura dei divieti contenuti nei Trattati e delle relative deroghe e/o eccezioni è mai stato giustificato sul presupposto di un’asserita “specificità” o “specialità” delle attività economiche di volta in volta considerate. In tale contesto è interessante notare che il fenomeno sopra descritto ha interessato anche l’attività sportiva, in relazione alla quale, da sempre, la Corte di giustizia ha mostrato di voler procedere ad un’applicazione dei divieti contenuti nei Trattati, e segnatamente quello relativo al divieto di discriminazioni fondate sulla nazionalità, in termini di ragionevolezza e flessibilità. A partire dalla seconda metà degli anni settanta, e per circa un trentennio, tale approccio si è tradotto nella ben [continua ..]
In base agli artt. 28 e ss. TFUE la libera circolazione delle merci si articola nell’unione doganale (artt. 30-32), nel divieto di restrizioni quantitative all’importazione e all’esportazione e di qualsiasi misura di effetto equivalente (artt. 34-36), nel riordino dei monopoli nazionali (art. 37) nonché nel divieto di imposizioni fiscali discriminatorie (artt. 110-113). Come noto, la nozione di misura di effetto equivalente è stata definita per la prima volta dalla Corte di giustizia nella pronuncia Dassonville del 1974 nella quale il giudice europeo ha considerato tale «qualsiasi normativa commerciale degli Stati membri che possa ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari» [7]. Tale definizione ampia delle misure di effetto equivalente si impose in considerazione della formulazione rigida sia della regola che sancisce il divieto (artt. 34 e 35), sia della regola che codifica, in modo tassativo, le relative deroghe (art. 36). In altre parole, di fronte ad una norma che vieta, in modo chiaro e preciso, le restrizioni quantitative alle importazioni e alle esportazioni nonché qualsiasi misura di effetto equivalente e in assenza di alcuno dei motivi tassativamente elencati nell’art. 36 TFUE (moralità pubblica, ordine pubblico, pubblica sicurezza, tutela della salute e della vita delle persone e degli animali, protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale, tutela della proprietà industriale) e soggetti ad un’interpretazione restrittiva proprio in quanto deroghe ad una libertà fondamentale, la Corte di giustizia non poté fare altro che adottare una nozione di misure di effetto equivalente decisamente ampia. Il primo, fondamentale ridimensionamento della portata del divieto di misure di effetto equivalente si verifica nel 1978 in occasione della pronuncia Rewe-Zentral AG(più nota come Cassis de Dijon) nella quale per la prima volta la Corte di giustizia elaborò la teoria delle esigenze imperative stabilendo che «gli ostacoli per la circolazione intracomunitaria derivanti da disparità delle legislazioni nazionali relative al commercio dei prodotti di cui trattasi vanno accettati qualora tali prescrizioni possano ammettersi come necessarie per rispondere ad esigenze imperative attinenti, in particolare, all’efficacia dei controlli [continua ..]
Da un punto di vista letterale la formulazione dell’art. 101 TFUE riproduce grosso modo lo stesso paradigma normativo visto a proposito delle quattro libertà fondamentali: il par. 1 dell’art. 101 TFUE sancisce il divieto degli accordi restrittivi della concorrenza, mentre il par. 3 introduce la possibilità di sottrarre a tale divieto taluni accordi (o categorie di accordi) che, seppur restrittivi, soddisfano le quattro condizioni espressamente previste. Per quanto riguarda, invece, l’applicazione concreta di tali norme, il discorso si presenta più complesso per una serie di motivi. In primo luogo, non può essere sottaciuto il fatto che, per effetto della modernizzazione delle regole di concorrenza di cui al regolamento n. 1/2003, le condizioni di cui al par. 3 dell’art. 101 TFUE si sono trasformate da presupposti per l’applicazione di un’esenzione dal divieto a requisiti di inapplicabilità del divieto medesimo. In secondo luogo, è assai noto il dibattito dottrinale relativo all’esistenza nel diritto antitrust europeo di una regola di ragionevolezza simile alla rule of reason statunitense e al fatto se tale regola debba essere individuata nel par. 3 dell’art. 101 TFUE oppure nello stesso par. 1. Lo stesso approccio del giudice europeo e della Commissione non sempre è stato univoco. Esaminando la giurisprudenza della Corte di giustizia non si può negare che in alcune pronunce il giudice comunitario abbia mostrato di prediligere una lettura dell’art. 101, n. 1 TFUE tutt’altro che rigida e formalistica. Nel caso La Société Technique Minière c. Maschinenbau Ulm GmbH del 1966, ad esempio, la Corte ha sottolineato che «il contratto con il quale un produttore affida ad un solo distributore la vendita dei propri prodotti all’interno di una determinata area non ricade automaticamente sotto il divieto di cui all’art. [81], n. 1» [15]; analogamente, nel caso Nungesser c. Commissione del 1982 è stato affermato che, premesso che un accordo di esclusiva sottoscritto da un licenziante con una limitazione della sua libertà di azione può agevolare l’entrata sul mercato di un nuovo concorrente, «tenendo conto della specificità dei prodotti in causa, non si chiede che in un caso come questo la concessione di una licenza esclusiva aperta [continua ..]
Sin dall’inizio i rapporti tra l’attività sportiva e il diritto (allora) comunitario non sono stati agevoli, sia a causa dell’originaria carenza di competenza delle Comunità europee in tale materia, sia a causa dei caratteri oggettivamente peculiari dell’attività sportiva. Come noto il primo aspetto è stato affrontato e risolto dalla Corte di giustizia attraverso il richiamo alla dimensione economica dell’attività sportiva. Secondo la Corte di giustizia, in altre parole, anche in assenza di una specifica competenza comunitaria in materia di attività sportiva, lo sport doveva ritenersi assoggettato al diritto comunitario se e in quanto costituiva un’attività economica. Il secondo aspetto, per contro, ha dato luogo a maggiori difficoltà interpretative ed applicative. In via di prima approssimazione, e tralasciando volutamente ogni discorso sul carattere dello sport nella sua dimensione sociale e culturale, si può affermare che l’attività sportiva, anche quando costituisce un’attività economica, da un lato risponde a logiche di mercato in parte diverse da quelle che governano ogni altra attività economica mentre, dall’altro lato, resta disciplinata anche da regole e prassi dettate unicamente per assicurare l’uniforme applicazione dell’attività sportiva ovvero per motivi intrinsecamente legati alla dimensione ludica dell’attività sportiva. Di fronte a tali aspetti sui generis dell’attività sportiva anche quando sussumibile nel novero delle attività economiche, la Corte di giustizia sin dall’inizio ha ridimensionato la portata della regola relativa all’assoggettabilità dell’attività (economica) sportiva al diritto dell’Unione europea, escludendo dall’ambito di applicazione di quest’ultimo quelle regole sportive dettate da finalità estranee a qualsiasi logica economica. Nella sentenza Walrave e Koch (la prima ad essersi occupata dell’assoggettabilità di una regolamentazione sportiva ai principi del mercato interno), ad esempio, la Corte di giustizia ha affermato che «esula dal divieto [di discriminazioni fondate sulla cittadinanza] la composizione di squadre sportive – e in particolare delle rappresentative nazionali – operata esclusivamente in base a criteri [continua ..]
Come ampiamente noto, dopo le sentenze Walave e Koch e Donà c. Mantero la Corte di giustizia è tornata ad occuparsi dei rapporti tra il diritto dell’Unione europea e l’attività sportiva soltanto a partire dalla metà degli anni Novanta, confermando l’approccio dogmatico originariamente elaborato. Nella sentenza Deliège, avente ad oggetto regole puramente sportive [36], nessun riferimento neppure indiretto, viene fatto alla teoria delle esigenze imperative, nonostante la stessa fosse ormai divenuta di generale applicazione in tutti gli altri settori dell’attività economica [37]. Secondo la Corte di giustizia, infatti, il punto di partenza è rappresentato dal fatto che, pur riconoscendo che le norme di selezione degli atleti in questione hanno inevitabilmente l’effetto di limitare il numero di partecipanti ad un torneo, tale limitazione è inerente allo svolgimento di una competizione sportiva internazionale ad alto livello, che implica necessariamente l’adozione di talune norme o di taluni criteri di selezione. Norme del genere non possono quindi essere di per sé stesse considerate come configuranti una restrizione alla libera prestazione dei servizi. In altre parole, proprio perché si tratta di regole inerenti unicamente lo sport, non si pone neppure un problema circa la loro portata restrittiva e l’esistenza di eventuali giustificazioni sulla scorta di quanto, invece, previsto dalla teoria delle esigenze imperative. Nella sentenza Bosman [38] (come pure nella successiva Lehtonen [39]), per contro, l’analisi della Corte di giustizia è interamente basata sulla teoria delle esigenze imperative, ma semplicemente in quanto in quel caso non si discuteva di una regola dettata da motivi tecnico-sportivi, bensì di una regolamentazione tipicamente economica. Nella vicenda Bosman, infatti, la Corte di giustizia era stata chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale su due distinte, ma collegate questioni: da un lato, se gli artt. 45, 101 e 102 TFUE (già artt. 39, 81 e 82 CE) dovevano essere interpretati nel senso che vietavano ad una società calcistica di pretendere il pagamento di una somma di denaro allorché un giocatore già tesserato per la stessa società, dopo la scadenza del contratto con essa stipulato, veniva ingaggiato da una [continua ..]
Nel 2006, in modo assai sorprendente, la Corte di giustizia, adita come giudice d’appello avverso la sentenza del Tribunale, ha deciso di sconfessare sé stessa e la propria precedente giurisprudenza bandendo dal diritto dell’Unione europea la nozione di regole puramente sportive e, come si cercherà di spiegare più avanti, negando la stessa specialità dello sport nel contesto europeo, perlomeno nel senso fino ad allora teorizzato. Ma procediamo con ordine. In primo luogo la Corte di giustizia ha ritenuto di dover annullare la sentenza del Tribunale in quanto quest’ultimo era incorso in un errore di diritto: nello specifico, la Corte di giustizia ha sottolineato che «il Tribunale ha considerato che la circostanza che un regolamento puramente sportivo sia estraneo all’attività economica, con la conseguenza che tale regolamento non ricade nell’ambito di applicazione degli artt. 39 CE e 49 CE, significa, altresì, che esso è estraneo ai rapporti economici che interessano la concorrenza, con la conseguenza che esso non ricade nemmeno nell’ambito di applicazione degli artt. 81 CE e 82 CE». Sennonché – prosegue la Corte di giustizia – «ritenendo che una regolamentazione poteva dunque essere sottratta ipso facto dall’ambito di applicazione dei detti articoli soltanto perché era considerata puramente sportiva alla luce dell’applicazione degli artt. 39 CE e 49 CE, senza che fosse necessario verificare previamente se tale regolamentazione rispondesse ai presupposti d’applicazione propri degli artt. 81 CE e 82 CE, menzionati al punto 30 della presente sentenza, il Tribunale è incorso in un errore di diritto» [46]. In secondo luogo, operando una totale inversione di rotta, la Corte di giustizia ha omesso qualsiasi riferimento alla tipologia di regolamentazione sportiva in questione e ha messo in chiaro che: a) la compatibilità di una regolamentazione con le norme comunitarie in materia di concorrenza non può essere valutata in astratto, richiamando sul punto la sentenza DLG del 1994 [47]; b) ogni accordo tra imprese o ogni decisione di un’associazione di imprese che restringa la libertà d’azione delle parti o di una di esse non ricade necessariamente sotto il divieto sancito all’art. 101, n. 1, TFUE; c) ai fini [continua ..]
Per comprendere pienamente la portata della sentenza della Corte di giustizia Meca Medina e Majcen e provare a testarne il suo impatto pratico occorre analizzare gli effetti di tale pronuncia alla luce dei principi dell’altra sentenza della Corte di giustizia su cui la pronuncia Meca Medina e Majcen si fonda, ovvero il caso Wouters e a. Nella ricostruzione operata dalla Corte di giustizia, infatti, l’applicazione al settore sportivo dei principi elaborati in occasione del caso Wouters e a. comporta che, ogniqualvolta la validità di una regola sportiva sia contestata con riferimento al diritto europeo della concorrenza, la regola sportiva in questione deve essere assoggettata al c.d. Wouters test. In soldoni, ciò significa che: a) in primo luogo occorre domandarsi se l’associazione sportiva che ha adottato la regola contestata può considerarsi un’impresa o un’associazione di imprese ai sensi degli artt. 101 o 102 TFUE: a tale riguardo, occorre che l’associazione sportiva svolga essa stessa un’attività economica oppure che i membri dell’associazione sportiva siano imprese che svolgono un’attività economica; b) in caso di risposta affermativa, si tratta di verificare se la regola contestata restringe la concorrenza ai sensi dell’art. 101, n. 1 TFUE oppure costituisce un abuso di posizione dominante ai sensi dell’art. 102 TFUE: a tal fine, occorre: i) tenere conto del contesto generale in cui la regola è stata adottata o dispiega i suoi effetti, nonché dei suoi obiettivi; ii) verificare se gli effetti restrittivi della concorrenza sono inerenti al perseguimento di tali obiettivi ad essi proporzionati; c) in caso di risposta negativa, si dovrà verificare se la regola in questione è in grado di determinare un pregiudizio al commercio tra Stati membri; d) in caso di risposta positiva, infine, si dovrà verificare l’eventuale sussistenza delle quattro condizioni previste dall’art. 101, n. 3 TFUE. In ambito sportivo gli effetti di tale sentenza sono, se possibile, ancora più dirompenti di quelli in ambito strettamente concorrenziale. La prima e fondamentale considerazione che si impone è quella relativa alla più volte evocata negazione delle regole puramente sportive. Una volta affermato il principio secondo cui se l’attività sportiva [continua ..]