Il lavoro esamina la prassi della Corte di giustizia dell’Unione europea sul rilascio di un permesso di soggiorno ad un cittadino di uno stato terzo dal caso Zambrano, quando la Corte per la prima volta riconobbe questo diritto al fine di garantire il godimento effettivo dei diritti connessi alla cittadinanza europea, fino ai casi Rendón Marín e CS. L’autore mette in rilievo che nelle più recenti sentenze, ai fini della valutazione delle circostanze rilevanti, la Corte si è servita del diritto alla tutela della vita familiare previsto dall’art. 7 della Cartadei diritti fondamentali dell’UE.
This paper analyses the case-law of the Court of Justice of the European Union concerning residence permits for third country nationals. It focuses on the line of case-law started with Zambrano – which first recognized a right of residence to third country nationals insofar as necessary to ensure the genuine enjoyment of the rights conferred by the status of Union citizen – and culminating in Rendón Marín and CS. Particular attention is given to the Court’s recent approach of taking into account the right to respect for family life laid down in Article 7 of the Charter of Fundamental Rights in its assessment of the relevant circumstances of the case.
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I. Il permesso di soggiorno in funzione del diritto del cittadino di risiedere nell’Unione. - II. Le applicazioni nella prassi della Corte dopo la sentenza Zambrano. - III. Il ruolo della cittadinanza. - IV. Le condizioni per il rilascio del permesso di soggiorno. - V. Il mancato rilievo dato all’unità della famiglia. - VI. La ricerca affidata ai giudici nazionali di ‘altri fondamenti’ che ne possano giustificare il richiamo. - VII. Sull’eventuale applicazione della CEDU. - VIII. La soluzione praticata nelle sentenze Rendón Marín e CS. Osservazioni conclusive. - NOTE
Con due recenti sentenze del 13 settembre 2016 relative, una, al caso Rendón Marín e, l’altra, al caso CS [1], la Corte di giustizia è tornata a pronunciarsi su questioni riguardanti il soggiorno, nel territorio dell’Unione, di cittadini extra UE in situazioni in cui la loro permanenza presso congiunti, cittadini dell’Unione, trova giustificazione nella necessità di assicurare a questi ultimi il godimento di diritti connessi al possesso della cittadinanza dell’Unione. Nei casi indicati si trattava di valutare la compatibilità col diritto dell’Unione di provvedimenti di espulsione di due cittadini extra UE, disposti a seguito di condanne penali da essi riportate, tenuto conto delle conseguenze che avrebbero prodotto sulla situazione dei loro figli, minori di età aventi la cittadinanza dell’Unione, di cui avevano la custodia. I provvedimenti di espulsione avrebbero compromesso, infatti, il diritto di questi di risiedere nell’UE. Questioni di questo tipo, in cui sono coinvolti spesso, ma non sempre, minori di età cittadini dello Stato dell’Unione nel quale sono nati e risiedono dalla nascita, sono state esaminate dalla Corte in varie occasioni nel corso degli ultimi anni a partire dalla ormai famosa sentenza Zambrano del 2011 [2]. In quella circostanza, per la prima volta, la Corte giustificò il rilascio del permesso di soggiorno ad un cittadino extra UE, sig. Ruiz Zambrano, nello Stato membro in cui risiedevano i figli minori a suo carico, in possesso della cittadinanza dell’Unione, richiamandosi al diritto di questi di risiedervi in quanto cittadini. Il caso non rientrava nella valutazione né della direttiva 2004/38 [3], che disciplina il ricongiungimento familiare a vantaggio di cittadini dell’Unione che esercitano o hanno esercitato il diritto di circolare all’interno dell’Unione, né della direttiva 2003/8 [4], che si occupa del ricongiungimento di cittadini extra UE a loro congiunti, ugualmente cittadini extra UE, che vivono nell’Unione [5]. I figli che il sig. Zambrano aveva a proprio carico erano cittadini belgi per essere nati in Belgio da dove non si erano mai mossi. Come detto, la Corte risolse la questione ritenendo che la mancata concessione del permesso di soggiorno al genitore avrebbe costretto i figli, che non erano in [continua ..]
Come accennato, dopo il caso Zambrano e prima delle ricordate sentenze del 13 settembre 2016, la Corte ha avuto modo di occuparsi altre volte del problema relativo al soggiorno di cittadini extra UE, presso loro congiunti cittadini dell’Unione, in situazioni in cui, non ricorrendo le condizioni previste dalle direttive che disciplinano il ricongiungimento familiare, l’unico possibile rimedio poteva essere rinvenuto nelle norme sulla cittadinanza dell’Unione e nei diritti che spettano al suo titolare. Si tratta delle sentenze McCarthy [8], Dereci e al. [9], Iida [10],O. e S. [11], Ymeraga [12], Alokpa [13]. Nel caso McCarthy [14], la questione portata all’esame della Corte riguardava la conformità al diritto dell’UE del rifiuto di rilascio di un permesso di soggiorno da parte delle autorità del Regno Unito alla sig.ra McCarthy, cittadina britannica, e a suo marito, cittadino giamaicano. La sig.ra McCarthy, che era nata nel Regno Unito e non aveva mai esercitato il diritto di circolare, aveva presentato domanda di soggiorno per sé e per suo marito utilizzando la seconda cittadinanza irlandese di cui era titolare. La Corte, dopo aver rilevato l’assenza delle condizioni per l’applicazione della direttiva 2004/38 [15], ha escluso anche che potessero venire in rilievo le norme sulla cittadinanza utilizzate nel caso Zambrano in quanto la ricorrente non correva il rischio di vedere compromessi i diritti correlati al suo status di cittadina dell’Unione non sussistendo per lei ostacoli al suo diritto di risiedere e di circolare all’interno dell’Unione [16]. Nella causa Dereci e al., il quesito prospettato alla Corte riguardava il contrasto col diritto UE del mancato rilascio a stranieri extra UE del permesso di soggiornare in Austria presso loro congiunti dove questi si erano trasferiti acquistandone la cittadinanza. Trattandosi di individui che, una volta acquistata la cittadinanza del paese dell’Unione, non avevano esercitato il diritto di circolare, la Corte ha escluso che ricorressero le condizioni per l’applicazione della direttiva 2003/86 e della direttiva 2004/38 [17]ed ha valutato la questione sotto il profilo delle conseguenze che il mancato rilascio del permesso di soggiorno avrebbe potuto produrre sul godimento dei diritti [continua ..]
Da quanto riportato emerge che, fuori dei casi previsti dalla direttiva 2004/38, la concessione ad un cittadino extra UE del permesso di soggiornare presso un suo familiare cittadino dell’Unione nello Stato membro di residenza di quest’ultimo, è consentita eccezionalmente se serve ad assicurare a questi il godimento di diritti connessi al possesso della cittadinanza dell’Unione ai quali sarebbe costretto a rinunciare. Il riconoscimento a un terzo del diritto di soggiornare presso un altro soggetto per garantire a questi il godimento di un diritto di cui è titolare non è raro nella prassi della Corte. Nella sentenza relativa al caso Carpenter [26], ad esempio, il soggiorno della moglie filippina di un cittadino britannico nel Regno Unito fu riconosciuto perché risultava necessario per consentire al marito l’esercizio dell’attività di consulenza che egli effettuava anche a favore di clienti esteri. Un altro esempio è offerto dalla sentenza relativa al caso Baumbast [27]in cui la Corte rilevò che «[I]l diritto riconosciuto al figlio di un lavoratore migrante, ex art. 12 del regolamento n. 1612/68, di proseguire, nelle migliori condizioni possibili, la carriera scolastica nello Stato membro ospitante implica necessariamente il diritto di tale figlio di essere accompagnato dalla persona che ne sia effettivamente affidataria e, quindi, che tale persona sia in grado di risiedere con il medesimo nel detto Stato membro per la durata degli studi. Negare la concessione del diritto di soggiorno al genitore effettivamente affidatario del figlio che eserciti il diritto di proseguire le scuole nello Stato membro ospitante costituirebbe violazione di tale diritto» [28]. Diversamente da questi casi, in cui il rilascio del permesso di soggiorno serve a garantire l’esercizio di una delle libertà del trattato, in quelli che formano oggetto del presente studio il permesso di soggiorno persegue lo scopo di garantire al congiunto, cittadino dell’Unione, il godimento dei diritti inerenti al suo status. È stato evidenziato che, facendo leva sulla cittadinanza, la Corte ha rafforzato il ruolo di questa come fonte autonoma di diritti e la sua configurazione come status fondamentale dei cittadini dell’Unione [29]. La cittadinanza, infatti, è ritenuta da sola sufficiente ad attribuire rilevanza, per [continua ..]
In tale contesto, appare necessario analizzare in dettaglio le condizioni al ricorrere delle quali la giurisprudenza della Corte ha finora subordinato il rilascio del permesso di soggiorno. Il primo punto da considerare riguarda l’esatta individuazione dei diritti connessi al possesso della cittadinanza, la cui compromissione giustifica la concessione del permesso di soggiorno al cittadino extra UE che diversamente non potrebbe ottenerlo. Ed invero, se in certi casi la Corte si è riferita in maniera generica ai diritti relativi alla cittadinanza, altre volte è stata più precisa e rigorosa. Così, se nella sentenza Zambrano aveva fatto riferimento ai diritti connessi allo status di cittadini [37], nella sentenza McCarthy ha precisato che il riferimento andava fatto al nucleo essenziale di quei diritti nei quali rientra il diritto di circolare e di soggiornare nel territorio dell’Unione [38]. Nella sentenza Dereci ha individuato questo nucleo nel solo diritto di risiedere nell’Unione [39]. Nella sentenza O. e S. ha ricordato che la soluzione adottata nel caso Zambrano e nel caso Dereci era finalizzata a garantire l’efficacia pratica della cittadinanza dell’Unione e ad impedire la privazione del godimento effettivo del nucleo essenziale dei diritti attribuiti dallo status di cittadino [40]. Nella sentenza Iida si è limitata a parlare della necessità di garantire l’efficacia pratica della cittadinanza [41], mentre nelle sentenze Ymeraga, Alokpa, Rendón Marín e CS la Corte si è riferita alla necessità che venga salvaguardato l’effetto utile della cittadinanza che sarebbe compromesso se il cittadino fosse costretto a lasciare il territorio dell’Unione e privato, in tal modo, del godimento effettivo del nucleo essenziale dei diritti conferiti dal suo status [42]. La ripetuta puntualizzazione da parte della Corte che la lesione dei diritti attribuiti dallo status di cittadino ha rilievo solo in situazioni particolari [43]; che essa ha un carattere particolare [44]; che può essere invocata solo in via eccezionale [45], manifesta il chiaro intento di evitare una utilizzazione ampia di questo riferimento [46] e di voler mantenere [continua ..]
Passiamo ora a considerare se e in quale misura i diritti fondamentali hanno influito nella soluzione dei casi esaminati. Questi diritti, in particolare quello sulla tutela della vita privata e familiare (art. 7, Carta) [54] e quello relativo alla protezione dei minori (art. 24, Carta), risultano invocati spesso a sostegno delle ragioni dei ricorrenti nelle cause principali. Ciò è anche abbastanza comprensibile considerata la loro contiguità con le problematiche trattate, nelle quali il soggetto interessato al permesso di soggiorno è, quasi sempre, un congiunto straniero di un cittadino dell’Unione, spesso minore di età, che risiede nel proprio Stato ed ha bisogno di essere assistito. Prima delle due sentenze del 13 settembre 2016, sulle quali si tornerà più avanti, nel decidere i casi sottoposti al suo esame la Corte non ha fatto riferimento a tali diritti nemmeno quando si è espressa in senso favorevole al rilascio del permesso di soggiorno [55]. Nel ribadire le condizioni in presenza delle quali tale permesso va riconosciuto e le finalità cui tende, essa non ha richiamato questi diritti neppure per rafforzare le sue argomentazioni [56]. Ma vi è di più. La Corte ha espressamente escluso che l’aspirazione all’unità della famiglia potesse avere un qualche rilievo in funzione del godimento dei diritti inerenti allo status di cittadino e, in particolare del diritto di risiedere nell’Unione. Essa ha confermato la sua contrarietà a dare peso all’aspetto relativo all’unità della famiglia non solo in pronunce nelle quali si esprimeva in senso favorevole al rilascio del permesso di soggiorno [57], ma anche quando evidenziava che nella situazione considerata mancavano le condizioni perché la domanda di soggiorno potesse essere accolta e, quindi, prendeva atto della sua estraneità al diritto dell’Unione [58]. In queste circostanze non ci sarebbe stato nemmeno motivo per soffermarsi sui diritti fondamentali. Una volta accertato che una situazione esula dalla disciplina del diritto dell’Unione, è scontato che neppure i diritti fondamentali possano essere invocati [59]. Nonostante ciò essa ha avvertito il bisogno di ricordare che «… la mera circostanza che possa apparire auspicabile a un cittadino di uno Stato membro, per [continua ..]
Nella sentenza Dereci, in particolare, dopo aver messo in risalto che l’aspirazione all’unità della famiglia non era sufficiente a garantire il godimento dei diritti connessi allo status di cittadino, la Corte ha ipotizzato la possibilità di rinvenire «altri fondamenti, segnatamente nell’ambito del diritto relativo alla tutela della vita familiare, che non consentano di negare un diritto di soggiorno …». A tal fine, mantenendo fermo il principio che «… una tale questione dev’essere affrontata nella cornice delle norme relative alla tutela dei diritti fondamentali e in funzione della loro rispettiva applicabilità» [66], ha rimesso al giudice di rinvio il compito di fare le necessarie verifiche [67]. Ugualmente, nella sentenza O. e S., dopo essersi soffermata sui vari aspetti di quella complessa vicenda [68] e dopo aver rimesso al giudice il compito di verificare la sussistenza delle condizioni per il rilascio del permesso di soggiorno, la Corte ha rilevato che, in caso di esito negativo, sarebbe rimasta «… impregiudicata la questione relativa all’esistenza di altri fondamenti, segnatamente nell’ambito del diritto relativo alla tutela della vita familiare, che non consentono di negare un diritto di soggiorno ai sigg. O. e M. Tale questione deve essere affrontata nella cornice delle norme relative alla tutela dei diritti fondamentali e in funzione della loro rispettiva applicabilità (v. sentenza Dereci e a., cit., punto 69)» [69]. Questa volta la Corte non ha precisato se spettava al giudice di rinvio effettuare queste verifiche. In entrambe queste sentenze la Corte non ha chiarito quali siano questi “altri fondamenti” né ha dato per scontato che si giunga a una loro individuazione, tant’è che ha messo nel conto che la ricerca possa non avere un esito positivo. Si sa solo che questi altri fondamenti vanno ricercati oltre le norme che riguardano la cittadinanza. Per questo appare immotivato il rilievo, fatto alla Corte, di aver sorprendentemente rimesso al giudice di rinvio il compito di effettuare ulteriori verifiche quando essa aveva escluso che ricorressero le condizioni per l’utilizzazione delle regole sulla cittadinanza e dopo aver ribadito che i criteri consacrati nella sentenza Zambrano erano da considerarsi eccezionali [70]. [continua ..]
Proseguendo su questa strada, e sempre nella prospettiva di dare un riscontro a queste esigenze nell’ipotesi che non dovessero emergere altre soluzioni all’interno del diritto dell’Unione [76], la Corte, riferendosi al giudice di rinvio, ha aggiunto: «[V]iceversa, qualora ritenga che dette posizioni non rientrino nella sfera di applicazione del diritto dell’Unione, esso dovrà condurre un siffatto esame alla luce dell’art. 8, n. 1, della CEDU» [77]. Nessun cenno a questa eventualità si trova nella sentenza O. e S. Alla eventuale rilevanza della CEDU la Corte non fa alcun cenno nella sentenza Iida, mentre nella sentenza Ymeraga, dopo aver rilevato che il diniego di soggiorno delle autorità lussemburghesi non rientra nell’attuazione del diritto dell’Unione, talché non può essere esaminata alla luce dei diritti istituiti dalla Carta, la Corte si limita a rilevare laconicamente che «[U]na siffatta constatazione non pregiudica la questione se, in base ad un esame effettuato alla luce delle disposizioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, di cui tutti gli Stati membri sono parti contraenti, un diritto di soggiorno possa essere negato ai cittadini di paesi terzi interessati nell’ambito del procedimento principale» [78]. Il riferimento alla CEDU e all’obbligo per il giudice di rinvio di procedere alla sua applicazione fatto nella sentenza Dereci appare incomprensibile. Anche se tutti gli Stati membri sono internazionalmente vincolati alla sua osservanza, sorprende che la Corte abbia potuto rivolgersi al giudice interno nei termini riferiti. Mai si era spinta fino a tanto [79]. Più che della constatazione dell’esistenza di un obbligo a carico degli Stati, sembra quasi che la Corte voglia impartire un ordine ai giudici [80]. Non si tratta, infatti, di una di quelle indicazioni che sovente la Corte fornisce ai giudici di rinvio, quando neppure ne ricorrono le condizioni, semplicemente perché immagina che possono risultargli utili [81]. Qui il tono è ben diverso. Sul rispetto, in particolare, dei diritti fondamentali tutelati dalla CEDU, una pronuncia diretta da parte della Corte si è avuta solo quando le questioni esaminate rientravano nell’ambito del diritto UE. Per [continua ..]
Rispetto a quanto fin qui riferito, le sentenze Rendón Marín e CS rappresentano una svolta. In esse la Corte, dato atto che la situazione dei due ricorrenti nelle cause principali ricadevano nel campo di applicazione del diritto dell’Unione [88], ha affermato che, al fine di valutare la compatibilità delle misure di allontanamento degli stranieri extra UE, adottate per motivi di ordine pubblico e di pubblica sicurezza, col godimento da parte dei loro figli cittadini dell’Unione dei diritti connessi al loro status, si dovesse tener conto, tra l’altro, del diritto al rispetto della vita privata e familiare enunciato dall’art. 7 della Carta, in combinato disposto con l’obbligo di considerare l’interesse superiore del minore sancito dall’art. 24, par. 2 della stessa [89]. In tal modo il riferimento a questi diritti fondamentali diventa un elemento determinante ai fini di una corretta applicazione sia della direttiva 2004/38 che dell’art. 20 TFUE. E, se per la direttiva 2004/38, che veniva in rilievo nei riguardi di una figlia del sig. Rendón Marín la quale era nata in Spagna ed aveva la cittadinanza polacca della madre, il richiamo ai predetti diritti fondamentali serve ad integrare e a meglio chiarire i parametri che essa già prevede ai fini della valutazione del provvedimento di allontanamento adottato per i richiamati motivi [90], non era altrettanto certo che si potesse fare lo stesso nei riguardi dell’art. 20 TFUE, al quale erano interessati tutti gli altri figli minori. Come la Corte si premura di ricordare, questa disposizione «non incide sulla possibilità per gli Stati membri di far valere un’eccezione connessa, segnatamente, al mantenimento dell’ordine pubblico e alla salvaguardia della sicurezza pubblica» [91]. Per questo il riferimento della Corte ai diritti fondamentali tra i parametri di cui servirsi nell’applicazione di questa norma appare estremamente importante. Non si può escludere che sulla decisione della Corte di dare risalto a questi aspetti abbia influito il fatto che, a differenza di tutti gli altri casi prima esaminati, in cui valutazioni di natura familiare apparivano più o meno plausibili, in quelli in questione l’incidenza dei provvedimenti statali di allontanamento riguardava situazioni di vita familiare già esistenti. [continua ..]