Adopted with the aim of strengthening the EMU, the ESM Treaty and the Fiscal Compact are international agreements signed outside the EU framework. These treaties are not binding for all the EU Member States. However they make use of the European institutions, raising an issue of consistency with the principle of institutional balance. Moreover, the recourse to the intergovernmental method affects national parliaments powers without involving the EP. This paper compares the ESM and the Fiscal Compact to the previous experience of the Schengen Agreements and their subsequent integration into the EU framework. It argues that Schengen could be regarded as a model in order to face the legal issues raised by the new treaties. Therefore, the feasibility of integrating the ESM and the Fiscal Compact within the EU framework is examined.
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I. La crisi finanziaria e la ricerca di soluzioni estranee ai Trattati - II. Integrazione differenziata e principio dell’equilibrio istituzionale - III. Precedenti di flessibilità esterna ai Trattati: il caso Schengen - IV. Il ricorso al metodo intergovernativo per far fronte alla crisi: cause ed effetti - V. Le nuove forme di flessibilità in materia economica: un confronto - VI. Quale impatto sull’equilibrio istituzionale? - VII. Il problema della legittimazione democratica - VIII. L’integrazione all'interno dell’Unione: una via percorribile? - NOTE
La crisi economica e finanziaria che dal 2008 a oggi l’Europa tenta di fronteggiare ha reso più che mai evidenti i limiti di un’Unione Economica Monetaria (UEM), imperniata sulla dicotomia tra una politica monetaria accentrata e politiche economiche decentrate a livello nazionale [1]. L’attuale struttura dell’UEM trova le sue origini nel Trattato di Maastricht, che ha previsto la progressiva introduzione di una moneta unica, senza però porre in essere un efficiente sistema di governo delle politiche economiche, né prospettare alcuna forma di integrazione fiscale. Questa scelta, frutto di un compromesso politico, e originariamente fondata sull’erronea presunzione che la creazione di una moneta comune avrebbe gradualmente e inevitabilmente condotto a una maggiore integrazione sul piano economico e politico, è stata mantenuta nel tempo. Le revisioni dei Trattati in seguito intervenute non hanno infatti apportato alcuna novità significativa a riguardo. Pertanto, mentre a norma dell’art. 3 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE), la politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l’euro è settore di competenza esclusiva dell’Unione, in materia economica gli Stati mantengono piena potestà politico-normativa, essendo tenuti soltanto a coordinare le proprie politiche nazionali [2] e a evitare disavanzi pubblici eccessivi nell’ambito del Patto di Stabilità e di Crescita [3]. Inoltre, secondo il modello di Maastricht, rimasto nel tempo sostanzialmente immutato, entrambi i rami dell’UEM operano e si sviluppano nell’ambito di un quadro istituzionale che presenta molteplici peculiarità. Nell’intento di mantenere intatte le proprie competenze in materia economica e di preservare la sovranità nazionale in tema di bilancio e finanza pubblica, gli Stati membri hanno infatti dato vita a un sistema connotato dal ruolo centrale svolto dalle istituzioni intergovernative (in particolare il Consiglio) e dallo speculare indebolimento di quelle sovranazionali (Commissione e Parlamento europeo) [4]. Le specificità del quadro istituzionale ora illustrate sono altresì accentuate dalla partecipazione solo di alcuni Stati (attualmente 19) all’unione monetaria e dunque dall’incidenza dell’integrazione differenziata sulle modalità [continua ..]
Elaborato in via giurisprudenziale dalla Corte di giustizia [11], il principio dell’equilibrio istituzionale viene formalmente consacrato dal Trattato di Maastricht, il cui art. C riconosceva all’Unione “un quadro istituzionale unico che assicura la coerenza e la continuità delle azioni svolte per il perseguimento dei suoi obiettivi, rispettando e sviluppando nel contempo l’“acquis” comunitario”. Il contenuto essenziale di questo principio è oggi recepito dall’art. 13, par. 2 TUE, che sancisce il rispetto delle attribuzioni conferite dai Trattati alle istituzioni e del relativo riparto di competenze. L’equilibrio istituzionale è volto a preservare la struttura stessa dell’Unione e la sua autonomia. Esso comporta che ciascuna istituzione svolga una specifica funzione nell’ambito dell’ordinamento giuridico UE e attiene, pertanto, non solo ai rapporti tra le varie istituzioni, ma altresì alle relazioni tra queste e gli Stati membri e alle reciproche posizioni e prerogative. La verifica del rispetto dell’equilibrio istituzionale acquista un significato pregnante nei casi di integrazione differenziata, poiché in tali ipotesi vi è soltanto un gruppo ristretto di Stati che coopera in uno specifico ambito. Ogni forma di flessibilità comporta, pertanto, un più o meno intenso impatto sul funzionamento e sul ruolo delle istituzioni. Nell’ambito delle forme di integrazione differenziata, per quanto attiene al profilo qui in esame, va operata tuttavia una distinzione tra forme di flessibilità previste dai Trattati e forme di flessibilità esterne invece agli stessi. Mentre infatti nella prima ipotesi il rispetto dell’equilibrio istituzionale è garantito dal fatto che sono le stesse norme di diritto primario a prevedere la possibilità che il funzionamento di alcune istituzioni sia influenzato dalla partecipazione solo di alcuni Stati a determinate politiche, nella seconda è proprio l’estraneità delle forme di integrazione differenziata rispetto ai meccanismi previsti dal diritto UE a ingenerare il rischio che l’equilibrio istituzionale venga alterato. Più precisamente, le ipotesi di integrazione differenziata interne all’UE (ovvero, le cooperazioni rafforzate ex art. 20 TUE e art. 326 ss. TFUE e le forme di flessibilità [continua ..]
Il processo di integrazione europea ha già conosciuto in passato forme di integrazione differenziata realizzate all’esterno dei Trattati. Lo studio di tali precedenti può offrire interessanti spunti di riflessione al fine di comprendere i più recenti e delicati fenomeni di flessibilità in materia economico-finanziaria. In proposito, il più significativo esempio di integrazione differenziata realizzata al di fuori del quadro giuridico-istituzionale dell’Unione è senz’altro costituito dagli accordi di Schengen [20]. Tali trattati costituiscono, come rilevato a suo tempo dalla dottrina, “un dispositif intergouvernemental d’application d’un objectif communautaire” [21]. L’obiettivo di giungere entro un periodo di tempo determinato alla progressiva instaurazione di un mercato interno, definito come uno “spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali”, era stato infatti formalmente sancito dall’Atto Unico europeo del 1986, ma la mancanza di consenso in seno al Consiglio relativamente all’eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione delle persone aveva ostacolato il raggiungimento di siffatto obiettivo da parte della Comunità. Da questo punto di vista, non diversamente da quanto si potrebbe oggi affermare con riguardo al MES e al Fiscal Compact, gli accordi di Schengen rappresentano un fallimento del diritto comunitario e il ricorso alla più semplicistica soluzione intergovernativa al fine di ovviare alla incapacità di giungere a un accordo tra tutti gli Stati membri della Comunità. Essi tuttavia hanno avuto ad oggetto una materia fino a quel momento fondamentalmente estranea al diritto comunitario, sicché sono stati concepiti come una sorta di laboratorio, una soluzione ad interim, in attesa di pervenire a una compiuta disciplina della libera circolazione delle persone attraverso misure applicabili a tutti gli Stati membri [22]. Non a caso, l’adesione all’Accordo di Schengen era consentita unicamente agli Stati membri delle Comunità europee (art. 140 della Convenzione di applicazione). Inoltre, gli Stati firmatari non avevano creato una vera e propria organizzazione internazionale dotata di una personalità giuridica, limitandosi a istituire alcuni [continua ..]
Prima di procedere a un confronto tra la flessibilità delineata da Schengen e le nuove misure anti-crisi, è opportuno soffermarsi brevemente sulle ragioni che negli ultimi anni hanno condotto gli Stati membri ad agire al di fuori dei Trattati istitutivi e sulle conseguenze che tale scelta ha comportato. In un primo momento, dinanzi all’emergere della crisi del debito sovrano in Grecia, i capi di Stato e di governo dell’Eurozona hanno deciso di intervenire in aiuto di tale Paese, mediante il ricorso a un accordo concluso, al di fuori dell’Unione, tra gli Stati della zona euro e la Grecia, al fine di coordinare una serie di prestiti bilaterali nei confronti di tale Paese [41]. Immediatamente a seguito di tale accordo, a fronte della concreta minaccia dell’espansione della crisi ad altri paesi europei (Irlanda e Portogallo), è stato costituito, mediante un regolamento del Consiglio Ecofin, il Meccanismo Europeo di Stabilizzazione Finanziaria (MESF) al fine di istituire un sistema di credito cui ricorrere in situazioni analoghe a quella greca [42]. La base giuridica per l’istituzione di tale meccanismo di credito è stata individuata nell’art. 122, par. 2, TFUE il quale consente all’Unione di fornire assistenza finanziaria a uno Stato membro che si trovi in difficoltà, o sia seriamente minacciato da gravi difficoltà, “a causa di calamità naturali o di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo”. Contestualmente, all’esito della medesima riunione nella quale è stato istituito il MESF, i rappresentanti degli Stati dell’Eurozona, nella loro veste intergovernativa, hanno adottato una decisione con la quale si sono impegnati a fornire ulteriore assistenza finanziaria mediante la creazione di una “società veicolo” [43]. È stato così istituito, mediante un accordo immediatamente esecutivo, un Fondo Europeo per la Stabilità Finanziaria (FESF), concepito come una società di diritto privato partecipata dagli Stati della zona euro e regolata dal diritto lussemburghese. Il FESF, sostituito a far data dal I luglio 2013 dal Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) [44], condivideva il medesimo scopo e le medesime funzioni del MESF, pur rimanendo, a differenza di quest’ultimo, collocato al di fuori dell’Unione. Le ragioni alla base della duplicazione dei [continua ..]
Al pari di Schengen, anche MES e Fiscal Compact possono essere considerati espressione di un fallimento del diritto dell’Unione europea a fronte del quale alcuni Stati membri hanno ricercato soluzioni al di fuori dei Trattati istitutivi. Tuttavia, diversamente da Schengen, MES e Fiscal Compact non riguardano una materia del tutto sconosciuta al diritto dell’Unione: obiettivo di entrambi i trattati è infatti salvaguardare la stabilità della zona euro e, più in generale, rafforzare il pilastro economico dell’UEM. Essi presentano dunque un forte legame con uno degli ambiti di maggior rilievo e delicatezza tra le politiche europee [56]. Sussiste pertanto un forte rischio di sovrapposizione con il diritto dell’Unione, e, parallelamente, un rischio di antinomia [57]. Il problema si pone soprattutto per quanto concerne il Fiscal Compact, le cui disposizioni si affiancano (e talvolta si intersecano) con le procedure di sorveglianza previste dal Patto di Stabilità e di Crescita e con il rinnovato quadro normativo introdotto dai c.d. “six pack” e “two pack” [58]. Al fine di evitare contrasti con il diritto UE, in entrambi i trattati sono stati previsti vincoli di compatibilità. Per quanto concerne il Fiscal Compact, a norma dell’art. 2 dell’accordo, gli Stati contraenti sono tenuti a interpretare e ad applicare il Fiscal Compact conformemente ai Trattati e al diritto dell’Unione europea. L’art. 2, par. 2 stabilisce inoltre espressamente che il Fiscal Compact non pregiudica la competenza dell’Unione in materia economica. Per quanto riguarda invece il Trattato MES, viene in particolare rilievo l’art. 23, par. 3, che, al secondo comma, prevede che le condizioni cui sono assoggettate le singole misure di sostegno alla stabilità debbono essere pienamente conformi “alle misure di coordinamento delle politiche economiche previste dal TFUE, in particolare a qualsiasi atto legislativo dell’Unione europea, compresi pareri, avvertimenti, raccomandazioni o decisioni indirizzate al membro del MES interessato”. Parallelamente a quanto avvenuto nell’ambito del Sistema Schengen, è la Commissione a svolgere il ruolo di garante del rispetto del diritto dell’Unione (art. 13, par. 4, Trattato MES) [59]. Inoltre, come si è accennato, la materia economica è connotata [continua ..]
Il confronto tra Schengen, MES e Fiscal Compact ha rivelato una profonda differenza tra le rispettive modalità di funzionamento e, in particolare, tra i corrispondenti meccanismi di raccordo con l’UE: al coordinamento soft di Schengen con l’Unione, si contrappone il ben più articolato impiego delle istituzioni europee nel contesto del MES e del Fiscal Compact. Tali divergenze non sono prive di rilevanza al fine di valutare quale sia l’impatto sull’equilibrio istituzionale dell’Unione delle tre forme di integrazione differenziata esterne ai Trattati. Se, alla luce dei criteri formulati in materia dalla Corte di giustizia, è stato senz’altro possibile escludere una violazione dell’equilibrio istituzionale in relazione a Schengen – poiché l’impatto sul funzionamento e sulle competenze delle istituzioni europee si è, in questo caso, rivelato estremamente ridotto – più complessa è invece la valutazione delle recenti forme di flessibilità in materia economica. Nel caso del MES, il problema è stato definitivamente affrontato dalla Corte di giustizia che, nella sentenza Pringle, ha escluso un contrasto con l’art. 13, par. 2, TUE [70]. Sulla scorta dei precedenti giurisprudenziali in materia di equilibrio istituzionale [71], la Corte ha ribadito che è consentito agli Stati membri impiegare le istituzioni al di fuori dell’ordinamento giuridico dell’Unione e ha indicato altresì le condizioni e i limiti di tale utilizzo. In particolare, come già precisato in altre occasioni deve trattarsi di settori che non rientrino nella competenza esclusiva dell’Unione. I compiti affidati alle istituzioni non debbono inoltre alterare gli elementi essenziali della struttura UE [72]. Tuttavia, contrariamente alle altre ipotesi esaminate dalla Corte di giustizia in relazione al principio dell’equilibrio istituzionale, nel caso del MES emergono due peculiarità: in primo luogo, l’attribuzione di nuovi compiti alle istituzioni è effettuata soltanto da un numero ristretto di Stati – i soli Paesi della zona euro – e non da tutti gli Stati membri; in secondo luogo, i compiti assegnati alle istituzioni (in particolare alla Commissione e alla BCE) non hanno carattere meramente amministrativo, ma comportano un significativo [continua ..]
Come nel caso di Schengen, gli analizzati strumenti di flessibilità presentano un forte deficit di controllo, sia sul piano giurisdizionale, sia sul piano politico-democratico. Quanto al primo profilo, mediante l’attribuzione di una competenza arbitrale ex art. 273 TFUE alla Corte di giustizia, MES e Fiscal Compact comportano in ogni caso un netto miglioramento rispetto all’esperienza di Schengen, caratterizzata dalla totale assenza di un controllo giurisdizionale. Con una precisazione: il riferimento all’art. 273 TFUE circoscrive il sindacato giurisdizionale alle sole controversie tra Stati membri. Ove non venga sollevato nell’ambito di una controversia tra le parti contraenti, rimane pertanto escluso un esame di legittimità delle misure assunte nell’ambito del MES e del Fiscal Compact da parte della Corte di giustizia. Con riguardo poi al MES, la sentenza Pringle ha reso evidente come tale meccanismo si sottragga all’applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e in particolare non garantisca in maniera adeguata il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva. Nello specifico, tra le obiezioni sollevate nel caso Pringle, vi era l’insufficiente protezione dei diritti economici e sociali dei cittadini europei: come il giudice a quo aveva correttamente rilevato, l’istituzione del MES al di fuori dell’ordinamento giuridico dell’Unione rischia di avere l’effetto di escludere il meccanismo di stabilità dal campo di applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, così pregiudicando, tra gli altri, il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva da questa tutelato. La Carta dei diritti fondamentali, infatti, a norma dell’art. 51, funge da parametro di legittimità del comportamento degli Stati membri esclusivamente qualora essi agiscano “nell’attuazione del diritto dell’Unione”. Prendendo le mosse da tale considerazione, la Corte conclude che la Carta non trova applicazione con riguardo alle misure adottate dal MES, proprio in quanto gli Stati membri, nella misura in cui instaurano tale meccanismo, non attuano il diritto dell’Unione. Secondo tale ragionamento, corretto sul piano logico-giuridico, la Corte evita di entrare nel merito della questione. E non può pertanto dirsi pienamente [continua ..]
Nel caso di Schengen, soltanto l’integrazione della cooperazione all’interno dell’Unione, pur se non esente da critiche, ha gradualmente assicurato una maggior trasparenza delle procedure decisionali, consentendo la partecipazione del Parlamento europeo. Parallelamente, una soluzione al deficit democratico della governance economica europea delineata dal MES e dal Fiscal Compact potrebbe derivare dalla piena integrazione di tali strumenti nel quadro giuridico-istituzionale dell’Unione. In tal senso, il Fiscal Compact appare destinato a seguire l’esempio di Schengen: l’art. 16 dell’accordo stabilisce, infatti, che entro il termine di cinque anni dalla sua entrata in vigore gli Stati intraprendano le azioni necessarie per la relativa incorporazione all’interno dell’UE. Analogamente, e pur in assenza di una specifica previsione in proposito, anche il MES, che già presenta un maggiore collegamento con il diritto dell’Unione (ex art. 136 TFUE), potrebbe essere integrato all’interno dell’ordinamento UE. Ovviamente, affinché l’incorporazione dei due accordi sia possibile, occorre la volontà politica di tutti gli Stati dell’Unione e, pertanto, il necessario superamento degli ostacoli e delle opposizioni a una più ampia revisione dei Trattati. Esigenze di coerenza con le conclusioni cui è pervenuta la Corte di giustizia nel caso Pringle imporrebbero che l’integrazione avvenga mediante il procedimento di revisione ordinaria. Il problema si pone soprattutto per l’incorporazione del MES: mentre il Fiscal Compact si limita per lo più a riprodurre disposizioni già esistenti del diritto UE, talvolta rinforzandone la portata, l’Unione allo stato non dispone, secondo quanto affermato dalla Corte in Pringle, delle competenze necessarie per l’istituzione di un meccanismo permanente di stabilità. Tali competenze non derivano infatti dall’art. 136, par. 3 TFUE, il quale si limiterebbe a confermare l’esistenza in capo agli Stati membri di un potere in tal senso [101]. Poiché dunque mediante l’incorporazione si introdurrebbero nuove competenze per le istituzioni dell’Unione, non sarebbe utilizzabile la revisione semplificata prevista dall’art. 48, par. 6 TUE, già impiegata per modificare l’art. 136 TFUE e consentire [continua ..]