The author analyses the Court of Justice’s case-law on the incorporation of the respect of fundamental rights of migrants within the immigration policy enshrined in the Treaty of Lisbon.
Concerning the asylum applications, the author a) stresses how the Court of Justice has taken inspiration from the case law of the European Court for Human Rights (ECtHR), b) affirms, concerning the division of powers in this matter, that the Court of Justice shows more rigidity than the ECtHR as far as the possibility of derogating to the powers of the authorities of the first port of call is concerned and c) finds an explanation of such a difference in the functioning, in EU law, of the principle of mutual trust. Concerning the procedure for granting asylum, the author stresses that the Court a) has expressed an orientation to cooperate with Member States’ authorities so that, in some cases, it just confines itself to address to them some guiding principles and b) is examining, in a case pending in Ireland, the scope of the right to be heard of a migrant in a procedure of subsidiary protection which, according to Irish law applicable in this case, is distinct from the asylum procedure.
Finally, the author stresses the relevant position adopted by the Court of Justice in enshrining the illegality of the imprisonment of a migrant in a condition of illegal residence in Italy. He concludes by pointing out the opinion of Advocate General’s Szpunar in a pending case where this latter proposes to extend what was stated by the Court in the Ruiz Zambrano case in 2011 to the situation of a migrant applying for a residence permit, which was denied to him by a Member State because of his criminal records. The author draws the attention on the important meaning which might have the judgment of the Court if it concurs with the opinion of its Advocate General.
I. Il principio di solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità e il principio del rispetto dei diritti fondamentali dei migranti. - II. Gli ostacoli incontrati nell’applicazione dei principi di solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità e l’efficacia erga omnes della giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di diritti dei migranti. - III. L’influenza della giurisprudenza della Corte EDU sulla sentenza N.S. della Corte di giustizia. - IV. La differenza dell’atteggiamento della Corte EDU nel caso Tarakhel rispetto a quello della Corte di giustizia nel caso N.S. - V. La giurisprudenza della Corte di giustizia relativa alle procedure di concessione dell’asilo e il suo orientamento a cooperare con le autorità degli Stati membri. - VI. Il diritto ad essere ascoltato in una procedura di protezione sussidiaria, autonomamente rispetto alla procedura della domanda di asilo. La sentenza Mukarubega della Corte di giustizia. - VII. La sentenza Boudjlida della Corte di giustizia. - VIII. L’illegittimità della pena di reclusione di un migrante in soggiorno irregolare in Italia: la sentenza El Dridi della Corte di giustizia. - IX. Le cause riunite Rendòn Marìn e Secretary of State for the Home Department c. C.S.: la proposta, contenuta nelle conclusioni dell’Avvocato generale Szpunar, di applicare le statuizioni contenute nella sentenza Ruiz Zambrano del 2011. - NOTE
L’atteggiamento della Corte di giustizia dell’Unione europea relativo all’immigrazione, a seguito degli afflussi di massa di persone provenienti da Paesi terzi che si sono verificati negli ultimi anni, ha interessato in modo interdipendente la politica dell’Unione relativa a questo fenomeno e quella relativa ai controlli alle frontiere e all’asilo. La Corte di giustizia, infatti, ha dovuto tenere conto, a un tempo, dei problemi di equilibrio istituzionale e di quelli di bilanciamento tra la tutela di diritti fondamentali delle persone e quella di interessi imperativi di carattere generale. Una prova significativa del nesso tra queste distinte serie di politiche e di problemi si può immediatamente cogliere nella sentenza resa nel caso Parlamento europeo c. Consiglio dell’Unione europea [1]. Il caso che ha portato all’adozione di questa pronuncia ha tratto spunto dal regolamento (CE) n. 562/2006 [2], modificato dal regolamento (CE) n. 296/2008 [3], istitutivo, nel quadro del sistema Schengen, di un codice comunitario relativo al regime di attraversamento delle frontiere esterne da parte delle persone (CFS) che conferisce alla Commissione il potere di adottare, secondo la decisione comitologia [4], misure di sorveglianza complementari intese a modificare suoi elementi non essenziali. Dato che una misura progettata a tale scopo non era conforme al parere previsto dalla decisione comitologia, essa è stata sottoposta al Consiglio che l’ha adottata con la decisione 2010/252 [5] che integra il CFS per quanto riguarda la sorveglianza delle frontiere marittime esterne nel contesto della cooperazione coordinata dall’Agenzia per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne degli Stati membri dell’Unione europea. Il Parlamento ha impugnato tale decisione davanti alla Corte sostenendo la sua illegittimità in quanto incidente su elementi essenziali del regolamento; al riguardo ha lamentato, tra l’altro, che essa prevedeva a) la possibilità di sequestrare una nave e fermare le persone a bordo e di condurre una nave o le persone a bordo in un Paese terzo e b) l’obbligo per le unità partecipanti di prestare assistenza a qualunque nave o persona in pericolo in mare, alto mare compreso. La Corte ha accolto questa doglianza ritenendo che tali previsioni vertevano sull’attribuzione di poteri pubblici [continua ..]
Purtroppo il rispetto del principio di solidarietà e di equa ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri ha incontrato notevoli ostacoli che hanno portato a rilievi molto negativi quanto al funzionamento reale del sistema di Dublino. Mentre in Italia e in Grecia arriva via mare un numero sempre crescente di immigrati, l’unica cosa che gli Stati membri fanno in deciso concorso tra loro è di limitare, per quanto possibile, stragi in mare, mettendo a disposizione imbarcazioni di salvataggio; ma, una volta recuperati in mare i naufraghi e fattili approdare sulle coste greche e italiane, tendono a non ulteriormente preoccuparsi dei loro destini. Per quanto riguarda immigrati che cercano di arrivare nel territorio dell’Unione attraverso i Balcani, Polonia, Slovacchia, Repubblica ceca e Ungheria, cioè gli Stati formanti il gruppo di Visegràd, questi Stati erigono recinzioni per non avere problemi. Non meno chiusi all’accoglienza tendono ad essere Austria, Danimarca, Francia e Regno Unito. E queste chiusure, con il moltiplicarsi di gravi atti di terrorismo, non sono certo destinate a diminuire. Quando, peraltro, con la decisione UE del Consiglio del 22 settembre 2015 [14] si sono adottate delle misure provvisorie per la ricollocazione, in più tappe, dei richiedenti protezione internazionale dall’Italia e dalla Grecia verso altri Stati membri per un numero ingente di persone, la Repubblica slovacca e l’Ungheria hanno fatto ricorso alla Corte di giustizia chiedendone l’annullamento. A fronte di questa situazione il Consiglio europeo è riuscito solo a promuovere un accordo con la Turchia [15] secondo cui questo Paese accetta il ritorno di tutti i migranti non bisognosi di protezione internazionale che abbiano compiuto la traversata dalla Turchia alla Grecia previo impegno dell’Unione europea di erogare tre miliardi di euro e di effettuare un ulteriore finanziamento destinato ai rifugiati siriani. Questa situazione, pur lasciando intravvedere un ruolo attivo dell’Unione nei rapporti con la Turchia, evidenzia notevoli ombre per quanto riguarda il rispetto dell’art. 80 TFUE, soprattutto con riferimento a immigrati provenienti da territori diversi dalla Siria. Per questo le procedure che si svolgono davanti alla Corte di giustizia potranno essere pienamente efficaci solo se congiunte con un superamento degli egoismi, [continua ..]
Anche in relazione a procedure di richiesta di asilo non ha mancato di esercitare una rilevante influenza la giurisprudenza della Corte EDU. Il 21 gennaio 2011 la Corte EDU ha adottato una sentenza [16] in un caso in cui un profugo afgano aveva lamentato l’incompatibilità con l’art. 3 della CEDU dell’applicazione nei suoi confronti, in Belgio, Stato in cui soggiornava, del regolamento di Dublino I che importava un suo rinvio in Grecia, Stato da tale regolamento considerato competente, nel caso, ad esaminare la sua domanda di asilo. Con tale sentenza essa non ha tenuto conto dell’equivalenza tra i vari sistemi di asilo dei paesi Schengen presupposta dal sistema che prende questo nome e ha condannato il Belgio per aver ordinato il trasferimento di quel profugo in Grecia senza verificare che il Paese di destinazione non esponesse il richiedente a violazione dei diritti umani. Il 21 dicembre dello stesso anno la Corte di giustizia, con la sentenza N.S. [17] ha affermato che nell’ipotesi in cui si abbia motivo di temere seriamente che sussistano due presupposti costituiti da «carenze sistemiche nella procedura di asilo [e da] condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo nello Stato membro competente, che implichino un trattamento inumano o degradante, ai sensi dell’art. 4 della Carta, dei richiedenti asilo trasferiti nel territorio di questo Stato membro, tale trasferimento sarebbe incompatibile con detta disposizione» [18].
L’interazione che, a questo modo, si è avuta tra la Corte di giustizia UE e la Corte di Strasburgo non trova altrettanto puntuale riscontro nel seguito che, alla sentenza N.S. della prima, la seconda ha dato nel caso Tarakhel [19] avente ad oggetto un ricorso con cui si sosteneva l’incompatibilità con l’art. 3 della CEDU dell’espulsione dalla Svizzera di una famiglia afgana con figli minori che, sbarcata in Calabria e passata poi in Austria, era pervenuta nella confederazione elvetica e ivi aveva domandato asilo. La Corte EDU, infatti, ha accolto il ricorso dando rilievo decisivo unicamente alle lesioni dei diritti fondamentali che richiedenti asilo rischino individualmente di soffrire in Italia in ragione di carenze della struttura di accoglienza del nostro paese e non alla più consistente situazione costituita dall’esistenza di carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza nel nostro paese a cui aveva, invece, dato rilievo la Corte di giustizia per accogliere il ricorso rivoltole nel caso N.S. La Corte EDU ha ritenuto che, data la discrepanza tra domande di asilo avanzate in Italia nei primi sei mesi del 2013 – 14184 – e posti disponibili nelle strutture di accoglienza appartenenti al sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati – 9630 –, esistessero dubbi sulle capacità di tenuta del sistema e fosse fondato il rischio che un numero significativo di richiedenti fosse lasciato senza sistemazione o fosse accolto in centri sovraffollati, senza privacy o addirittura in condizioni insalubri o di violenza. Ha unicamente aggiunto che le autorità svizzere avrebbero potuto espellere verso l’Italia i richiedenti asilo solo dopo aver soddisfatto l’obbligo di ottenere assicurazione dalle controparti italiane che essi sarebbero stati ricevuti in strutture e in condizioni adeguate all’età dei bambini e alla necessità di salvaguardare l’unità del nucleo familiare [20]. Il fatto che la Corte di giustizia, nella sentenza N.S., abbia considerato la deroga al principio della competenza dello Stato di primo approdo dei rifugiati compatibile con il sistema di Dublino [21] sulla base di detti due presupposti più rigorosi, e non sull’unico presupposto su cui la Corte di Strasburgo ha basato la posizione presa con la [continua ..]
Passando alla gestione delle procedure di concessione dell’asilo, tra le pronunce più significative che la Corte di giustizia ha adottato recentemente, si può fare riferimento alle sentenze Shepherd [27], A., B. e C. [28] e H.T. [29]. Nel caso Sheperd, giudici tedeschi chiedevano l’interpretazione dell’art. 9, par. 2, lett. b), c) ed e) della direttiva 2004/83/CE [30] (c.d. “direttiva qualifiche”, oggi sostituita dalla direttiva 2011/95/UE [31]), in relazione ad una richiesta di asilo di un militare statunitense di stanza in Germania che, arruolatosi volontariamente, aveva già operato in Iraq occupandosi della manutenzione di elicotteri; dopo un periodo di riassegnazione della sua unità in Germania, aveva risposto con la diserzione ad un ordine di missione in Iraq ritenendo di non dover più partecipare ad una guerra da lui considerata illegittima e ai crimini di guerra in essa commessi. Il signor Shepherd chiedeva asilo in quanto, rientrando negli Stati Uniti, avrebbe subito una condanna per diserzione compresa tra i 100 giorni e i 15 mesi di detenzione, che poteva persino arrivare a 5 anni, e la sua esistenza sarebbe stata rovinata perché, nell’ottica statunitense, la diserzione costituisce un reato molto grave. La Corte, pur affermando che dette disposizioni della direttiva qualifiche mirano a proteggere il soggetto che si oppone al servizio militare per non esporsi a crimini contro la pace, di guerra e contro l’umanità, ha precisato che spetta a colui che intende ottenere il riconoscimento della qualità di rifugiato dimostrare con sufficiente plausibilità che l’unità cui appartiene conduce, o ha condotto, le operazioni assegnatele compiendo atti di tale natura. Nel rimettere la sua decisione finale alle autorità tedesche, la Corte le ha, comunque, invitate a tenere conto del fatto che il signor Shepherd si era arruolato nelle forze statunitensi quando queste erano già coinvolte nel conflitto in Iraq e aveva successivamente prorogato il proprio periodo di servizio; ha poi rilevato che non si può considerare che una pena detentiva tra i 100 giorni e un massimo di 5 anni vada manifestamente oltre quanto necessario allo Stato per esercitare il suo legittimo diritto a mantenere una forza armata [32]. La sentenza A., B. e C. è [continua ..]
Il carattere forte che la direttiva qualifiche manifesta nel tutelare le persone a cui essa è applicabile sta ponendo alla Corte, in un caso attualmente pendente [33], il problema di stabilire se l’amministrazione sia tenuta ad ascoltare personalmente gli interessati nel quadro della gestione di una domanda di protezione sussidiaria che tale direttiva prevede possa essere accolta sussidiariamente in caso di rifiuto dell’asilo in un Paese come l’Irlanda che, distinguendosi da tutti gli altri Stati parte al sistema di Dublino, ha dato attuazione a detta direttiva istituendo due procedure distinte. Il governo irlandese, già nel precedente caso M.M. [34], aveva preso posizione in senso negativo, rilevando, cioè, che in un ordinamento come il suo, in cui la domanda di protezione sussidiaria costituisce oggetto di una procedura distinta, facente seguito al rigetto di una domanda di asilo adottato al termine di un’istruzione comportante un’audizione dell’interessato, non sarebbe stato necessario procedere ad una nuova audizione di quest’ultimo perché essa avrebbe costituito un doppione di quella di cui lo straniero aveva già beneficiato in un contesto largamente comparabile. La Corte non potrà seguire questa tesi basandosi semplicemente su quanto, in relazione al diritto ad essere ascoltato, essa ha statuito nella pronuncia resa nel caso Mukarubega [35] con riferimento ad un rimpatrio sancito in conseguenza di un soggiorno irregolare di un cittadino di uno Stato terzo, seguito all’esito negativo di procedure di riconoscimento del diritto di asilo e di rilascio di un permesso di soggiorno. In quel caso, infatti, la Corte ha adottato, sì, una posizione analoga a quella sostenuta nel caso M.M. dall’Irlanda; lo ha fatto, però, in un contesto in cui ha evidenziato che il giudice del rinvio deve applicare una normativa di attuazione della direttiva 2008/115 [36] a termini del cui art. 6, par. 1, uno Stato dell’Unione ha l’obbligo di adottare, nei confronti dei cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno nel territorio dell’Unione è irregolare, una decisione di rimpatrio, in un contesto, cioè, in cui tale decisione doveva seguire automaticamente al diniego di un permesso di soggiorno, senza che fosse necessario fornire motivazioni distinte. È per questo che la Corte [continua ..]
Ritornando alla posizione presa dalla Corte di giustizia nel caso Mukarubega, è evidente che essa ha assunto l’atteggiamento rigido sopra indicato in un contesto in cui la decisione di rimpatrio, sulla cui legittimità si è pronunciata, è seguita a due procedure (quella di richiesta d’asilo e quella di richiesta di permesso di soggiorno) che avevano inequivocabilmente concretato un contraddittorio delle autorità nazionali con la sig.ra Mukarubega, che rendeva superflua una sua nuova audizione. L’atteggiamento della Corte è divenuto più sfumato nella successiva sentenza Boudjlida [37]. In questo ulteriore caso la Corte si trovava confrontata ad una situazione in cui un giovane algerino, che aveva già ottenuto in Francia un permesso di soggiorno come studente, non aveva presentato la richiesta di un suo rinnovo. Scoperto in condizione di irregolarità egli aveva richiesto una sua registrazione come imprenditore e aveva sostenuto un colloquio sulla sua situazione familiare e lavorativa, colloquio che non aveva convinto le autorità francesi. La Corte ha ritenuto questo colloquio sufficiente a legittimare la decisione di rimpatrio presa dalle autorità francesi. Chi ha commentato questa sentenza ritiene che non si debba sempre escludere, come si potrebbe dedurre dalla sentenza Mukarubega, che gli immigrati a cui sia negato il diritto di asilo e di soggiorno abbiano il diritto ad essere intesi prima della conseguente decisione di loro rimpatrio, ma si debba invece riconoscere ai giudici nazionali il potere discrezionale di valutare se con l’audizione, date le circostanze di fatto e di diritto, il procedimento amministrativo potrebbe comportare un risultato diverso [38].
La Corte di giustizia è andata ben al di là della tutela dei diritti procedurali degli immigrati destinatari di decisioni di rimpatrio con la sentenza resa nel caso El Dridi [39] con riferimento ad una normativa italiana che prevedeva l’irrogazione della pena della reclusione per il cittadino di un Paese terzo in soggiorno irregolare in Italia per la sola ragione che questi, in violazione di un ordine di lasciare entro un determinato termine il territorio italiano, ivi permanga senza giustificato motivo. Essa ha stabilito che a una tale legge osta la direttiva 2008/115 e ha precisato che, nell’ipotesi in cui l’esecuzione immediata dell’allontanamento non sia possibile, e laddove ogni altra misura coercitiva meno afflittiva non risulti sufficiente nel caso concreto, la direttiva consente allo Stato di trattenere lo straniero in un centro di permanenza temporanea per un periodo massimo di sei mesi, prorogabili in casi particolari sino a 18 mesi, assicurando comunque il riesame periodico della preesistente necessità della misura coercitiva rispetto allo scopo di eseguire l’allontanamento, ed evitando di regola che lo straniero venga collocato in un istituto penitenziario.
Sempre nel quadro degli atteggiamenti che la Corte di giustizia sta prendendo nei confronti degli immigrati rispetto a dinieghi di permessi di soggiorno o a decisioni di espulsione, sono attualmente pendenti davanti alla Corte di giustizia due procedure pregiudiziali, nelle cause Rendòn Marìn [40] e Secretary of State for the Home Department c. C.S. [41], che sono state riunite e rinviate alla Grande Sezione. Il loro interesse deriva dal fatto che si collocano sulla scia della posizione presa dalla Corte a favore di un immigrato con la sentenza Ruiz Zambrano [42]. Con quest’ultima sentenza la Corte ha stabilito che il diritto dell’Unione osta al rifiuto da parte di uno Stato membro del diritto di soggiorno e di lavoro a un immigrato di uno Stato terzo che si faccia carico dei figli in tenera età, cittadini di uno Stato membro, in una situazione in cui questo rifiuto avrebbe l’effetto di privare tali persone del godimento reale ed effettivo dei diritti loro attribuiti dallo status di cittadini dell’Unione. I molti tentativi che sono stati fatti per estendere ad altri casi la posizione così presa dalla Corte di giustizia (posizione che è molto importante perché, beneficiando quell’immigrato, ha tutelato dei cittadini dell’Unione indipendentemente dall’esercizio da parte loro della libertà di circolazione) non hanno sinora avuto successo in quanto la situazione considerata in Zambrano è stata ritenuta eccezionale, così come lo è stata la soluzione indicata ai giudici del rinvio. I due casi attualmente pendenti rientrano in questi tentativi in quanto concernono rispettivamente un ricorso contro il rifiuto di un diritto di soggiorno e un ricorso contro il decreto di espulsione verso Stati terzi avanzati da due immigrati che si trovano nella stessa situazione familiare del signor Zambrano, ma ai cui ricorsi il diritto dei due Stati membri esclude in modo automatico che possa essere dato esito positivo, in quanto gli immigrati in questione hanno precedenti penali. Nella procedura in corso è già intervenuto l’Avvocato generale Szpunar. Nelle sue conclusioni [43] nelle cause riunite, con riferimento specifico al primo dei due casi egli, dopo aver ritenuto che a favore del ricorrente nella causa principale operano le ragioni che hanno indotto la Corte a considerare che debba [continua ..]