This paper analyses the most important provisions of the Treaty of Lisbon about EU peace operations in the field of the Common security and defence policy, starting with an attempt to classify the different kinds of operations: military and civilian.
I. Introduzione - II. La gestione delle crisi internazionali - III. I mezzi civili e militari - IV. Considerazioni conclusive. - NOTE
È ben noto quanto l’Unione europea sia fortemente impegnata nella promozione e nella realizzazione di processi di consolidamento della pace nel continente europeo ed anche al di fuori dei propri confini, al punto da meritare il significativo riconoscimento del premio Nobel per la pace [1]. Del resto, le fondamenta stesse dell’intera costruzione europea poggiano sui pilastri dei Trattati istitutivi, il cui principale intento – secondo la volontà dei padri fondatori – era quello di promuovere la coesistenza pacifica tra gli Stati membri [2]. Tale impegno si inquadra nell’ambito della Politica di sicurezza e difesa comune (PSDC) collocata, in seguito alle modifiche introdotte dal Trattato di Lisbona, in un’apposita sezione del Titolo V, quasi a volerne rimarcare la specificità, pur se essa costituisce parte integrante della Politica estera e di sicurezza comune (PESC). Il percorso evolutivo che ha condotto verso la creazione della PESC e della PSDC ha ampliato considerevolmente il perimetro dell’azione esterna, all’interno del quale il ruolo svolto dall’Unione ha acquisito una sempre maggiore centralità [3]. Nondimeno, le accelerazioni e i progressi registrati nell’ambito della PSDC superano di gran lunga quelli riguardanti la politica estera, essendo stato privilegiato il rafforzamento delle capacità militari, rispetto alla ricerca di una convergenza intorno all’individuazione di precisi obiettivi politici da conseguire [4]. Sebbene la politica di difesa abbia conservato un carattere sostanzialmente intergovernativo, anche a seguito dell’abolizione dei pilastri operata con il Trattato di Lisbona, rilevanti competenze sono state attribuite alle istituzioni dell’Unione europea, segnatamente al Consiglio europeo, al Consiglio, all’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, all’Agenzia europea per la difesa, mentre Parlamento, Commissione e Corte di giustizia hanno un ruolo limitato, se si eccettua per quest’ultima la possibilità di essere chiamata a pronunciarsi sui ricorsi riguardanti il controllo di legittimità delle decisioni che prevedono misure restrittive nei confronti di persone fisiche e giuridiche adottate dal Consiglio in base al Titolo V, Capo 2 del Trattato sull’Unione europea. [5] Quanto alla base giuridica [continua ..]
Fin qui si è descritta la cornice al cui interno si ritrovano le differenti missioni ed azioni di pace contemplate dall’art. 43, par 1, TUE e che possono sostanzialmente ricondursi alle: missioni umanitarie e di soccorso, attività di mantenimento della pace, missioni di unità di combattimento per la gestione delle crisi, azioni congiunte in materia di disarmo e missioni di consulenza e assistenza in materia militare,missioni di prevenzione dei conflitti ed operazioni di stabilizzazione al termine dei conflitti. Tali interventi coprono una parte significativa delle fasi di una crisi o di un conflitto e si qualificano prevalentemente come interventi di breve o medio periodo. Va rimarcato il fatto che l’inserimento di una previsione avente ad oggetto attività di prevenzione dei conflitti ed operazioni di stabilizzazione al termine dei conflitti ha comportato anche un ampliamento delle competenze del Consiglio dell’Unione europea rispetto a quelle attribuite prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Invero, la dimensione della prevenzione dei conflitti è diventata uno dei principali obiettivi delle relazioni esterne dell’Unione e va considerata in un’accezione che ricomprende attività da svolgere sia in situazioni in cui il conflitto appare imminente (prevenzione dei conflitti in senso stretto) sia in situazioni ove è possibile evitare il verificarsi stesso del conflitto (prevenzione dei conflitti in senso lato). Nel novero degli strumenti dell’azione esterna dell’Unione volti alla prevenzione dei conflitti vi sono l’identificazione precoce dei rischi di conflitto e il conseguente intervento rapido, una migliore comprensione delle diverse situazioni di conflitto (cause di fondo, parti coinvolte e dinamiche) attraverso un’utilizzazione sistematica dell’analisi dei conflitti stessi, nonché l’identificazione di tutte le opzioni disponibili per un’azione, compreso il potenziamento delle capacità di mediazione e dialogo [10]. È appena il caso di precisare che si fa riferimento sia a situazioni in cui sia ancora possibile evitare il conflitto sia a quelle in cui, a seguito di un conflitto, si interviene per evitare una ricaduta nello stesso; ciò a dimostrazione di quanto possano essere evanescenti i confini tra la dimensione della prevenzione dei conflitti e quella di [continua ..]
Le missioni e le operazioni dell’Unione europea sono l’espressione tangibile della politica di sicurezza e difesa comune in azione. L’impegno operativo dell’Unione tramite la PSDC costituisce un contributo significativo alla promozione e al mantenimento della pace e della stabilità, testimoniando la capacità globale dell’Unione europea di far fronte alle sfide inerenti la sicurezza mediante strumenti di gestione delle crisi civili e militari [23]. In tale prospettiva, l’art. 43 TUE precisa che la PSDC possa ricorrere a mezzi civili e militari nell’assolvimento di tali missioni, le quali possono essere condotte tanto da un gruppo di Stati volenterosi, quanto nell’ambito della cooperazione strutturata permanente [24]. Nello specifico dei mezzi militari, dando seguito ad una sua precedente risoluzione adottata a Colonia il 3 giugno 1999, con la quale si intendeva fornire all’Unione gli strumenti necessari e le capacità per assumersi la responsabilità di una politica di sicurezza e difesa europea comune, il Consiglio europeo di Helsinki del dicembre 1999 ha varato il c.d. Helsinki Headline Goal, un meccanismo che stabilisce un traguardo di carattere quantitativo, ai sensi del quale l’Unione europea doveva essere dotata dei mezzi necessari per poter schierare, entro 60 giorni, un contingente d’intervento (fino a 60.000 uomini) in grado di svolgere una missione rientrante nei “compiti di Petersberg” per un periodo di almeno un anno [25]. Tali capacità militari – che rappresentano una riserva di unità nazionali (forza di reazione rapida) cui il Consiglio può fare ricorso in caso di crisi, solo previa decisione sovrana di ogni singolo Stato assunta secondo disposizioni interne – sono state ulteriormente sviluppate sulla base della successiva Headline Goal 2010, approvata dal Consiglio Affari generali e relazioni esterne nel maggio 2004, che pone, invece, al centro degli sforzi programmatici elementi di carattere qualitativo, ossia il miglior utilizzo delle risorse disponibili attraverso la condivisione delle capacità militari degli Stati membri dell’Unione europea e il potenziamento della forza di reazione rapida attraverso l’introduzione dei battlegroups, ossia gruppi di combattimento rapidamente dispiegabili composti da unità mobili di almeno 1.500 uomini, in [continua ..]
Da quanto posto finora in evidenza emerge, da un canto, il carattere altamente flessibile della politica di sicurezza e di difesa europea così concepita, fondata cioè su una piena diversificazione degli impegni assunti dagli Stati membri; dall’altro, la circostanza che sono i mezzi, le capacità e le risorse di determinati Stati membri a consentire all’Unione europea di affermarsi quale attore nel campo del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, in grado di agire in modo autonomo nelle operazioni di gestione delle crisi accanto ad altre organizzazioni. Ciononostante, l’azione dell’Unione resta segnata da un’accentuata frammentarietà [54], che si sarebbe dovuta superare soprattutto in virtù della confluenza nella figura dell’Alto rappresentante delle competenze esercitate rispettivamente dal Consiglio Affari esteri e dalla Commissione, nonché in virtù della creazione del SEAE [55]. Tra le ragioni del mancato superamento rileva indubbiamente la volontà della Commissione di mantenere il pieno controllo di settori come quelli, in particolare, della cooperazione allo sviluppo e dell’allargamento, che però hanno rilevanza pure per la gestione civile delle crisi in ambito PSDC, dato che misure adottate in questi settori spesso affiancano o seguono interventi attuati da missioni nel quadro della PSDC [56]. Sebbene la Commissione gestisca il budget assegnato alla PESC e quindi anche le risorse stanziate per le missioni PSDC [57], non si è ancora sviluppata una significativa capacità di cooperazione e di coordinamento tra la Commissione e le strutture che si occupano della dimensione civile della PSDC che, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, sono confluite all’interno del SEAE. Volgendo lo sguardo alla prassi, si deve ammettere che, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, in occasione dell’avvio di missioni PSDC, sono stati compiuti passi in avanti nella direzione di una crescente convergenza tra queste e altre azioni intraprese in diversi settori, come emerge altresì dalle decisioni aventi ad oggetto le predette missioni in Sud Sudan, in Niger e nel Corno d’Africa. Tra l’altro, proprio con riferimento al Sahel e al Corno d’Africa, sono state elaborate specifiche strategie da parte del SEAE, sicuramente [continua ..]