Il Diritto dell'Unione EuropeaEISSN 2465-2474 / ISSN 1125-8551
G. Giappichelli Editore

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Problemi 'linguistici' nell'interpretazione e applicazione del diritto dell'Unione europea (di Antonio Tizzano, Vicepresidente della Corte di giustizia dell’Unione europea,Lussemburgo)


L’A. esamina il problema della “trasmigrazione”, nelle varie versioni linguistiche dei testi di diritto dell’Unione europea, non solo delle singole nozioni o espressioni giuridiche, ma dei concetti sottostanti a quelle nozioni ed espressioni. Al termine dell’inda­gine, egli conclude che le nozioni così utilizzate sono certo attinte in qualche modo dai diritti interni, ma non coincidono necessariamente con i loro equivalenti in tali diritti. In realtà, esse costituiscono nozioni “comunitarie”, vale a dire nozioni ricostruite in modo “autonomo” dalla Corte, sulla base certo dei diritti interni, ma nel modo più conforme alle caratteristiche e alle finalità del sistema dell’Unione.

“Linguistic” Problems in the Interpretation and Application of EU Law

The Author analyses the issues pertaining to the “transmigration” of legal notions and expressions between diverse linguistic versions of texts and provisions of EU law, including their underlying legal concepts. The analysis leads to the conclusion that while such legal notions and expressions are somehow drawn from national legal orders, their meaning does not necessarily correspond to that of the related national terms. In fact, they are “community” notions, which are the result of an “autonomous” interpretation of the Court. While such interpretation may find its roots in national legal orders, it is carried out in the light of and in conformity with the tasks and features of the EU legal order.

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SOMMARIO:

I. Premessa. - II. Le questioni sollevate dal multilinguismo. - III. Il ruolo della Corte di giustizia. - IV. La definizione di nozioni “autonome” o “comunitarie”. - V. La c.d. europeizzazione dei diritti nazionali. - NOTE


I. Premessa.

Credo che di tutti i temi del diritto dell’Unione europea, quello del diverso significato, nelle varie lingue ufficiali, delle nozioni giuridiche utiliz­zate dai Trattati e dei problemi che questa diversità solleva, sia forse uno dei più interessanti per gli studiosi della materia. Naturalmente, non tento neppure un accenno alla questione generale del multilinguismo nell’Unione, perché ho imparato da tempo che di tutti i numerosi problemi della costruzione europea, quello linguistico (quasi come quello delle sedi delle istituzioni) più che un problema, è un autentico incubo dal quale sarà difficile risvegliarsi. Non a caso, in tutti i testi di portata generale che di esso si occupano, la regola di voto prevista è l’unanimità … Eppure, anche se non tutti lo ricordano, c’è stato nei primi circa dieci anni della vita dell’Unione Europa, o meglio della CECA, un “tempo felice” da questo punto di vista, un tempo cioè in cui la lingua della Comunità, sia quella ufficiale che quella di lavoro, era solo il francese. In quel periodo, il trattato (il solo all’epoca) che dava formalmente l’avvio al processo di integrazione europea era il trattato istitutivo della CECA, stipulato a Parigi in lingua francese e in questa sola lingua facente fede, mentre oggi i numerosi e ben più complessi trattati che gli sono succeduti fanno fede in tutte le lingue ufficiali. Quel precedente era comprensibile, perché i soli sei Stati allora membri non avevano problemi con il francese, che all’epoca era ancora diffuso anche come lingua diplomatica, senza contare che esso era la lingua ufficiale o comunque praticata in almeno metà di quegli Stati fondatori. Da questo punto di vista, e alla luce della situazione odierna, si potrebbe dunque ben dire, con Catullo, fulsere quondam candidi tibi soles, perché tutto appariva più semplice. E ciò anche perché non solo il francese era l’unica lingua ufficiale della Comunità, ma pure le nozioni giuridiche utilizzate dal diritto comunitario erano mutuate dal diritto francese, sicché se non formalmente, certo di fatto, si poteva fare ad esso riferimento in caso di dubbi interpretativi. Vedremo se è stato proprio così. Fatto sta che con i trattati di Roma e con la nascita della CEE e dell’EURATOM il [continua ..]


II. Le questioni sollevate dal multilinguismo.

Ciò premesso, passo ad esaminare sinteticamente le principali implicazioni del multilinguismo vigente nell’Unione sull’attività della Corte e i problemi che essa si trova ad affrontare in conseguenza di esso. In parte direttamente i testi, in parte la stessa Corte hanno previsto le misure necessarie per assicurare il funzionamento e l’operatività quotidiana della giustizia comunitaria pur nel contesto del multilinguismo: lingua di procedura, pubblicazione dei documenti rilevanti, regole e meccanismi per il funzionamento interno dell’istituzione, ecc. È possibile che non tutto funzioni perfettamente, che tempi e risorse uma­ne e tecniche siano sacrificati in misura eccessiva e forse a lungo non sostenibile, ma nel complesso finora la prassi ha contenuto i problemi e in qualche misura si è ormai consolidata. Comunque non è questa la sede per sof­fermarsi su quelle misure. Voglio invece soffermarmi sulle implicazioni della descritta situazione che ritengo più interessanti, e cioè sulla definizione delle nozioni giuridiche utilizzate nel contesto dell’attuale pluralismo linguistico. Intendo alludere, per enunciare sinteticamente la questione, al fatto che se, insieme con i singoli vocaboli sono “trasmigrate” nelle varie versioni linguistiche anche le sottostanti nozioni giuridiche, il problema non è tanto la semplice “traduzione” di un termine o di un’espressione giuridica nelle varie lingue, ma la definizione del concetto sottostante a quel termine o a quella espressione. E ciò sia perché a volte di una nozione non c’è neppure l’equivalente in tutte le lingue, sia perché lo stesso termine si presta a coprire nozioni giuridiche non coincidenti. Potrei trarre dai Trattati o da altri testi di diritto dell’Unione molti esempi di nozioni giuridiche palesemente mutuate da sistemi giuridici diversi, per lo più dagli ordinamenti interni degli Stati membri, senza però che quei testi forniscano alcuna indicazione sul significato da attribuire a dette nozioni nel sistema comunitario, e ciò malgrado che in ordine alla definizione di alcune di esse sussistano in quegli ordinamenti non poche e non marginali divergenze e/o un diverso stadio di elaborazione. Penso ad es., per citare qualcuno dei casi più noti, ad espressioni come: “sviamento di potere”, [continua ..]


III. Il ruolo della Corte di giustizia.

Ma anche quando si è in presenza di una terminologia apparentemente univoca e condivisa, non per questo può dirsi che non si pongano problemi, perché, come ho detto, dietro questa condivisione letterale, spesso si nasconde una diversità delle nozioni sottostanti. Prendo per tutti l’esempio del termine “contratto”, che è tradotto nelle varie lingue con parole all’apparenza corrispondenti: “contrat”, “contract”, “contractus”, “Vertrag”, ma che in realtà sottendono categorie giuridichespecifiche dei rispettivi ordinamenti, non necessariamente equivalenti. E lo stesso può dirsi, ripeto, per tante altre nozioni. Nel chiarire il senso di tali espressioni, la Corte si trova di fronte ad un problema di interpretazione che non è affatto inconsueto specie per i tribunali internazionali, evocando esso la nota questione della qualificazione delle e­spressioni giuridiche impiegate nei trattati con eventuale riferimento alle corrispondenti nozioni degli ordinamenti interni degli Stati firmatari; problema che si risolve in generale attraverso l’impiego dei consueti mezzi d’interpre­tazione dei trattati e in particolare attraverso l’utilizzazione di categorie giuridiche generali, che possono essere ricostruite sulla base dei diritti interni, per intendere in modo univoco il senso dell’espressione impiegata dal trattato. Nulla di diverso, a prima vista, si verifica nel nostro caso, dato che anche qui si tratta di un problema d’interpretazione che tende a risolversi soprattutto attraverso il riferimento, nella misura e nei termini che vedremo, agli ordinamenti degli Stati membri. Occorre però tener presente, e non è una particolarità di poco conto, che nel sistema dell’Unione – diversamente da quanto accadeva ed accade per altre unioni di Stato – il compito di procedere alla qualificazione delle nozioni in questione compete ad un organo giurisdizionale ad hoc, per l’appun­to la Corte di giustizia, la cui funzione istituzionale è di assicurare l’interpre­tazione uniforme del diritto, con effetti che si proiettano direttamente negli ordinamenti nazionali. E questo condiziona anche la prospettiva in cui una simile attività interpretativa si svolge, dato che essa non è condotta occasionalmente in relazione alle [continua ..]


IV. La definizione di nozioni “autonome” o “comunitarie”.

Dato il contesto in cui la Corte opera e data la già segnalata assenza di norme che orientino e delimitino il diritto da essa applicabile (diversamente, ad es., da quanto accade per la Corte internazionale di giustizia ai sensi dell’art. 38, par. 1, del relativo Statuto), non sorprenderà che il naturale riferimento per la ricostruzione e la definizione delle nozioni giuridiche impiegate dai Trattati sia stato individuato anzitutto nei diritti interni degli Stati membri, e che il dibattito si sia concentrato sui termini e sulle modalità della loro utilizzazione. A tal riguardo, specie nei primi tempi di attività della Corte, una parte della dottrina insisteva sul fatto che la Corte avrebbe dovuto far ricorso ai principi generali comuni agli ordinamenti degli Stati membri, i quali sarebbero venuti in rilievo come “fonte sussidiaria” del diritto dell’Unione. In altri termini sarebbe stato compito della Corte individuare, attraverso un esame comparato dei vari ordinamenti, una nozione ad essi comune e farne applicazione – direttamente o per analogia – nel sistema comunitario. La prassi della Corte non ha però confermato tale orientamento. Certo, la Corte ha evitato ogni preferenza per così dire linguistica e mantenuto una rigorosa neutralità rispetto ai singoli ordinamenti nazionali. È stato così perfino nella prassi giurisprudenziale relativa al Trattato CECA (redatto, come si è detto, solo in lingua francese), la quale, contrariamente a quanto sostenuto da alcuni autori, non rivela l’esplicita utilizzazione di categorie giuridiche desunte dal diritto francese, ma una considerazione dei sistemi giuridici di tutti gli Stati membri e, comunque, la ricerca di un’autonoma soluzione (come prova significativamente, ad esempio, la giurisprudenza relativa alla definizione del vizio di sviamento di potere). Nonostante, dunque, le sollecitazioni di qualche autore e le indagini di diritto comparato talvolta condotte dagli avvocati generali, si cercherebbe invano nella giurisprudenza della Corte un’esplicita utilizzazione o un formale riferimento ad uno specifico sistema giuridico nazionale, ma anche ad una comparazione tra gli ordinamenti degli Stati membri per enucleare, in via diretta o comparata, la definizione di una nozione unitaria. Ciò ovviamente non perché la Corte considerasse e consideri irrilevanti i diritti interni ai [continua ..]


V. La c.d. europeizzazione dei diritti nazionali.

Il risultato è molto importante dal punto di vista della costruzione europea. Ogni giudice della Corte ha il proprio humus culturale nelle nozioni e tradizioni giuridiche del proprio ordinamento nazionale. E tuttavia i meccanismi e le dinamiche istituzionali, il confronto interno, ma soprattutto la necessità di un’elaborazione giurisprudenziale a dimensione europea porta alla rilevazione e alla costruzione di un diritto che diviene “altro” rispetto ai singoli diritti nazionali, e che chiamiamo diritto comunitario o dell’Unione europea. A loro volta, queste nozioni penetrano gli ordinamenti nazionali e li conformano, anche perché il diritto dell’Unione prevale su quello nazionale. Quel diritto nasce così soprattutto dalla giurisprudenza della Corte, che influenza anche il modo di essere dei diritti nazionali; ma esso nasce altresì dal concorso a tutto campo della comunità dei giuristi europei, che approfondiscono, sviluppano e diffondono le nozioni comunitarie, così come nasce dalla stessa prassi delle istituzioni e delle giurisdizioni nazionali. Con il risultato che si determina un circuito virtuoso che favorisce la reciproca influenza tra gli ordinamenti giuridici in campo, anche se il diritto dell’Unione esercita un ruolo preminente per la forza stessa del suo primato sui diritti nazionali. Quel che però va qui sottolineato è che tale diritto tanto più incide profondamente nei confronti dei sistemi giuridici nazionali in quanto può contare sulle peculiari caratteristiche del sistema dell’Unione, e in particolare sull’azione di autorità sopranazionali che presiedono alla formazione delle relative norme e che dispongono degli appropriati strumenti per controllarne ed imporne il rispetto; nonché sulla posizione di primazia e sulla diretta applicabilità di dette norme rispetto a quelle degli Stati membri. Ma soprattutto perché si avvale della predisposizione di meccanismi d’interpretazione autonomi, riservati appunto ad un’istituzione, come la Corte di giustizia, la cui azione esplica i propri riflessi non solo sulla compattezza e sulla coerenza intrinseca del corpo normativo comune, ma anche sulla sua capacità di resistenza rispetto ai sistemi nazionali, dato che lo sottrae alla presa di questi ultimi ed evita così che se ne possano indebolire gli effetti e la portata [continua ..]


NOTE