L’articolo illustra la prassi dei giudici italiani relativa all’utilizzazione della procedura pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Esso ricorda anzitutto la nota informativa indirizzata dalla Corte di giustizia ai giudici degli Stati membri sulle regole da seguire per la redazione della domanda di rinvio, nota che ha favorito notevolmente il dialogo tra quelle giurisdizioni ed eliminato molte delle cause che inducevano la Corte a dubitare della ricevibilità di alcuni rinvii. Passando alla prassi dei giudici italiani, l’articolo illustra l’evoluzione avvenuta al riguardo con il progressivo aumento dei rinvii alla Corte e la stabilizzazione dei rapporti tra questa e i giudici italiani. Grazie a tali rinvii, molte questioni sono state chiarite, sia sul piano processuale che sul merito di varie questioni. L’A. esamina alcune di tali questioni e conclude sottolineando che in futuro i rapporti tra la Corte e i giudici italiani non potranno che migliorare.
The present contribution depicts the practice of Italian judges with regard to preliminary ruling proceedings before the Court of Justice of the European Union. The attention is first drawn to the rules concerning the form and content of requests for preliminary ruling provided by “the recommendations to national courts and tribunals, in relation to the initiation of preliminary ruling proceedings”. It is stressed that such rules solved many issues that caused the Court to doubt the admissibility of requests for preliminary rulings and that contributed to the development of a judicial dialogue between the jurisdictions involved. Second, the contribution illustrates the evolution of the practice of Italian judges, with specific regard to the stabilization of their relationship with the Court, and the growing trend of requests for preliminary rulings submitted by Italian judges. It is emphasized that via such requests the Court was allowed to clarify many relevant procedural and substantive questions of EU law. The author examines some of these questions and concludes that the relationship between Italian judges and the Court are set to improve in the future.
KEYWORDS
Court’s jurisdiction to give preliminary rulings – National jurisdictions – Italian judges – Relationship between the Court and Italian judges.
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I. Premessa. - II. Le indicazioni della Corte ai giudici nazionali sull’utilizzazione della procedura pregiudiziale. - III. Segue: l’aggiornamento delle stesse. - IV. L’utilizzazione della procedura da parte dei giudici italiani. - V. Segue. - VI. La conseguente giurisprudenza della Corte relativa ad alcuni aspetti del procedimento amministrativo da parte del Consiglio di Stato: i) il principio della domanda di parte. - VII. ii) Il problema di costi di introduzione dei ricorsi. - VIII. iii) I principi di certezza del diritto e della res judicata. - IX. Conclusioni. - NOTE
Come noto, la funzione esercitata dalla Corte di giustizia in sede di competenza pregiudiziale è diventata la “chiave di volta” del sistema giudiziario dell’Unione, una competenza che si articola in un dialogo “da giudice a giudice”, e nella quale, ferma restando la distinzione dei ruoli e delle responsabilità di ciascuno, assume rilievo essenziale il rapporto di stretta collaborazione che si instaura tra le due istanze giudiziarie in causa. A questo proposito, va notato che da sempre e con voluta insistenza la Corte non ha perso occasione per sottolineare che il rapporto che essa mantiene con quei giudici in sede di esercizio della competenza in esame (ma non solo!) si qualifica come un’azione di supporto di quei giudici nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto UE e si qualifica quindi in termini di autentica collaborazione che mira a favorire il crescente coinvolgimento dei giudici nazionali nell’applicazione del diritto dell’Unione e ad esaltarne così il ruolo di giudici “decentrati” di quel diritto. Una collaborazione, per giunta, che essa presta come una sorta di ausiliario di giustizia e che appare tanto più utile, se non necessaria, se si considera che nelle ipotesi in esame i giudici nazionali sono chiamati a confrontarsi con un sistema normativo estremamente complesso, qual è quello dell’Unione: un sistema che si articola in una vasta ed intricata panoplia di testi, tutti facenti fede a pari titolo nelle numerose lingue ufficiali, e destinati a produrre effetti in modo uniforme per una pluralità di Stati e di ordinamenti. Lo straordinario successo della procedura pregiudiziale (che si è tradotta finora in molte migliaia di sentenze e si avvia ormai a coprire quasi i due terzi del contenzioso innanzi alla Corte) conferma che i giudici nazionali hanno ben compreso che nessun ridimensionamento del loro ruolo e nessuna deminutio del loro prestigio viene dalla sottoposizione di una questione pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo. E anche questo spiega perché i rinvii pregiudiziali rappresentino oggi una pratica del tutto normale e diffusa per le giurisdizioni nazionali, quale che ne sia il grado o lo Stato di appartenenza; una pratica, va aggiunto, che, nonostante i problemi che il suo stesso successo ha accentuato, si svolge con piena soddisfazione da una parte e dall’altra.
Sin dai primi anni della sua attività, la Corte ha avvertito l’importanza di curare e di alimentare il dialogo tra le Corti ed è proprio a tal fine che ha cercato, con la propria giurisprudenza, di aiutare il giudice nazionale a comprendere il funzionamento della procedura pregiudiziale e di orientarlo nel talvolta difficile compito di sottoporre dei quesiti alla Corte. In questo quadro, la Corte ha spesso dovuto compiere notevoli sforzi per “salvare” le domande di pronuncia pregiudiziale poste in modo improprio dai giudici nazionali. Per molti anni, infatti, le dichiarazioni d’irricevibilità o d’incompetenza della Corte hanno costituito l’extrema ratio e hanno spinto il giudice dell’Unione a riformulare i quesiti posti in modo inappropriato (laddove il giudice chiedeva ad esempio alla Corte di pronunciarsi sulla compatibilità di una normativa nazionale con il diritto dell’Unione); a estrapolare dalla domanda pregiudiziale i quesiti ove non espressamente formulati nella decisione di rinvio; a accorpare quelli numerosi o ripetitivi talvolta disponendoli in un ordine diverso; a richiedere chiarimenti ai giudici nazionali in merito alla richiesta di pronuncia pregiudiziale. Finalmente, nel 1996, essa ha adottato una “Nota informativa riguardante le domande di pronuncia pregiudiziale da parte dei giudici nazionali”, che è stata comunicata a questi ultimi tramite le autorità nazionali competenti. Poiché tale nota si è rivelata subito utile nella prassi la Corte ha deciso di aggiornarla costantemente alla luce dell’esperienza e della propria giurisprudenza e di diffonderla, a partire dal 2005, attraverso la pubblicazione nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee. Come indicato nella sua ultima versione pubblicata nel 2011, la nota informativa aveva lo scopo di orientare i giudici nazionali circa l’opportunità di procedere a un rinvio pregiudiziale e, eventualmente, di aiutarli a formulare e presentare le questioni sottoposte alla Corte. Come precisato nella stessa nota, le indicazioni ivi contenute costituivano infatti mere «indicazioni pratiche, prive di qualsiasi valore vincolante» (punto 6 della nota). Ciononostante, l’inosservanza di queste ultime era spesso all’origine di una dichiarazione di irricevibilità della domanda di pronuncia pregiudiziale oppure di incompetenza da [continua ..]
Sempre in tale prospettiva, la Corte ha poi avvertito, nel 2016, l’esigenza di procedere all’aggiornamento della nota informativa sostituendola con le Raccomandazioni all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale (GUUE C 439/2016, p. 1). A tal fine, in quelle raccomandazioni la Corte ripercorre le principali caratteristiche e problematiche attinenti al rinvio pregiudiziale e dispone in merito: alle disposizioni applicabili a tutte le domande di pronuncia pregiudiziale, fornendo indicazioni segnatamente quanto all’autore della domanda di pronuncia pregiudiziale (punti 3 a 7), all’oggetto e la portata della domanda di pronuncia pregiudiziale (punti 8 a 11), al momento opportuno per effettuare un rinvio pregiudiziale (punti 12 e 13), alla forma e contenuto della domanda di pronuncia pregiudiziale (punti 14 a 22), all’interazione tra il rinvio pregiudiziale e il procedimento nazionale (punti 23 a 25), alle comunicazioni tra la Corte e il giudice nazionale (punti 28 e 29), nonché in merito alle disposizioni applicabili alle domande di pronuncia pregiudiziale che richiedono particolare celerità. Non essendo possibile trattare in questa sede tutte le istruzioni fornite dalla Corte, mi concentrerò su quelle a mio avviso più rilevanti ai presenti fini, ovvero sulla forma e il contenuto della domanda di rinvio pregiudiziale (punti 14 a 22 delle Raccomandazioni) che hanno creato e continuano a creare non pochi problemi ai giudici. A tal proposito, ricordo che il procedimento pregiudiziale realizza una cooperazione diretta tra la Corte e i giudici nazionali, estranea a ogni iniziativa delle parti, grazie alla quale la prima fornisce ai giudici degli Stati membri gli elementi d’interpretazione del diritto dell’Unione che sono loro necessari per la soluzione delle controversie che sono chiamati a dirimere o si pronuncia direttamente sulla validità degli atti dell’Unione. In particolare, se la Corte deve fare tutto il possibile per aiutare i giudici nazionali a interpretare e applicare correttamente quel diritto, dal canto loro, detti giudici devono fornire alla Corte tutte le informazioni di cui essa ha bisogno affinché sia in grado di esercitare la propria competenza conformemente all’obiettivo dell’art. 267 TFUE. In tale contesto, i punti 14 a 22 delle raccomandazioni sottolineano la [continua ..]
Venendo ora più specificamente alla prassi dei giudici italiani, va detto anzitutto che, dopo circa 60 anni, anche i rapporti di questi giudici con la Corte di giustizia possono ormai ritenersi consolidati. In effetti, essi hanno ben compreso, come già sottolineato, che nessun ridimensionamento del loro ruolo e nessunademinutio del loro prestigio veniva dalla sottoposizione di una questione alla Corte di giustizia; ed infatti i rinvii pregiudiziali rappresentano oggi una pratica del tutto normale e diffusa anche per tutte le giurisdizioni italiane. Anche per essi, tuttavia, gli inizi sono stati difficili, perché, non solo per i giudici, ma per tutti i cultori e gli operatori del diritto comunitario, faticoso (e talvolta perfino contrastato) è stato il cammino che ha portato a far prendere coscienza che il processo comunitario non solo non è esterno al nostro ordinamento, ma è al contrario, e da tempo, tutto interno all’orizzonte della nostra esperienza giuridica. Dal punto di vista del numero dei rinvii pregiudiziali, anzi, i nostri giudici non solo tengono il passo dei più solerti colleghi degli altri Stati membri, ma si collocano ai primissimi posti di un’ideale classifica europea. Bastano pochi dati a confermare quanto precede. Delle oltre 16.000 cause fin qui introdotte innanzi alla Corte (1952-2017), circa il 60% sono procedure pregiudiziali, con una tendenza crescente: ormai più dei 2/3 delle cause introdotte sono pregiudiziali. Di queste, circa il 12% (oltre 1300) sono venute dall’Italia su (prima 15, ora) 28 Stati membri. Molto più quindi che la Francia (900) e il Regno Unito (573). Solo la Germania ci supera in termini assoluti (oltre 2.000), mentre in percentuale lo fanno anche l’Olanda e il Belgio. Va detto peraltro che, come negli altri Stati membri, sono stati inizialmente soprattutto i “piccoli giudici”, i così detti “giudici di provincia”, ad avvalersi della procedura pregiudiziale e quindi a valorizzarla. Si può dire anzi che sono stati spesso proprio i rinvii di questi giudici a favorire, specie all’inizio, importanti sentenze della Corte (si pensi ai notissimi, e talvolta “storici” casi Costa c. Enel, Simmenthal, Foglia c. Novello, Francovich, Telemarsicabruzzo, Faccini Dori, ecc.) [1]. Le Corti superiori hanno avuto invece inizialmente una certa riluttanza ad accettare [continua ..]
Anche nel merito delle questioni sottoposte alla Corte, il dialogo ha avuto aspetti interessanti. Prenderò alcuni esempi, tratti soprattutto dalla giurisprudenza del CdS, che è stato tra i protagonisti di tale dialogo avendo contribuito all’evoluzione della giurisprudenza dell’Unione mediante vari rinvii proposti alla Corte, ma ha anche plasmato nel tempo la propria prassi e la propria giurisprudenza conformemente alle indicazioni della stessa Corte. Prendiamo ad es. la nozione di giurisdizione e l’inserimento dello stesso CdS in tale nozione. Senza voler affrontare i molti profili problematici della questione, si ricorda che, secondo una giurisprudenza costante, «per valutare se l’organo del rinvio possieda le caratteristiche di una ‘giurisdizione’ ai sensi dell’articolo 267 TFUE, la Corte tiene conto di un insieme di elementi, quali il fondamento legale dell’organo, il suo carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del procedimento, il fatto che l’organo applichi norme giuridiche e che sia indipendente» [2]. Per quanto attiene al CdS, la Corte si è già pronunciata sin dagli anni ’90 su vari rinvii da esso effettuati, riconoscendone così, quantomeno implicitamente, la natura di “organo giurisdizionale” ai sensi dell’art. 267 TFUE. È però solo nella sentenza Garofalo che la Corte ha precisato con chiarezza che il CdS «possiede i requisiti necessari per essere considerato una giurisdizione ai sensi dell’articolo [267 TFUE]», ed ha altresì ritenuto che esso mantenga tale qualità anche laddove si pronunci, emettendo un parere, nell’ambito del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica [3]. Non sembra, dunque, vi siano dubbi sul punto. Così come, del resto, non pare vi sia alcun dubbio sulla qualifica del CdS quale organo giurisdizionale di “ultima istanza”, anch’essa espressamente condivisa dal giudice dell’Unione nella recente pronuncia AIFA [4]. È su questo presupposto che si è sviluppato, nel corso degli anni, il dialogo con la Corte di giustizia, un dialogo che si è dimostrato sempre dinamico e fruttuoso, nella misura in cui il CdS ha saputo ben calibrare i rinvii pregiudiziali, applicando esso stesso con [continua ..]
Il rapporto dialettico tra i due giudici ha inciso profondamente sia sull’elaborazione di una vasta giurisprudenza della Corte in numerosi ambiti materiali di diritto dell’Unione (fase ascendente), sia sulle modalità applicative delle regole nazionali sul processo e sul procedimento amministrativo da parte del CdS (fase discendente). Limitandoci a questo secondo profilo, riteniamo opportuno analizzare in particolare alcuni aspetti rilevanti su cui ha avuto modo di pronunciarsi la Corte: il principio della domanda di parte nel processo amministrativo; il problema dei costi d’introduzione dei ricorsi; e i principi di certezza del diritto e della res judicata. i) Come noto, il principio della domanda di parte, consacrato all’art. 34 del codice di procedura amministrativa (c.p.a.), impone al giudice di «di non modificare una domanda di parte, pena la violazione del principio del contradditorio»[6]. Ma proprio l’applicazione pratica di tale principio nell’ambito del processo amministrativo italiano è stata recentemente oggetto di analisi da parte della Corte in due importanti occasioni. Nella prima, il giudice dell’Unione è stato chiamato ad analizzare i problemi di compatibilità che l’applicazione da parte del CdS del “principio della domanda di parte” pone nei confronti dell’art. 267, comma 3, TFUE. Conformemente infatti ad una costante giurisprudenza europea, in caso di dubbi relativi alla corretta interpretazione di una norma dell’Unione, il CdS (in quanto giurisdizione di ultima istanza) dovrebbe essere obbligato ad effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte, indipendentemente da un’eventuale richiesta delle parti in causa. Tale obbligo comporta però inevitabilmente l’abbandono della propria tradizionale posizione di neutralità processuale e il conseguente rischio di contravvenire alla suddetta regola della domanda di parte. Lo stesso accade, peraltro, anche qualora il CdS ritenga necessario riformulare le eventuali osservazioni proposte delle parti nell’elaborazione dei quesiti da rivolgere alla Corte, al fine di ottenere una risposta utile per la soluzione della controversia pendente dinanzi ad esso. Proprio di queste problematiche si è occupata la Corte nella sentenza Consiglio Nazionale dei Geologi, precisando gli obblighi che incombono al CdS, in quanto [continua ..]
ii) La Corte ha poi avuto modo di esaminare anche la problematica legata ai costi di introduzione dei ricorsi amministrativi e dei motivi aggiunti. In un recente caso, sentenza Orizzonte Salute (resa però su rinvio del TAR di Trento), il giudice del rinvio aveva chiesto alla Corte di chiarire i dubbi sulla compatibilità dell’art. 13 del d.p.r. n. 115 del 2002 con la direttiva 89/665 [10], nonché con i principi di effettività ed equivalenza, nella misura in cui quella norma prevede, da un lato, un versamento di contributo unificato più elevato all’atto del deposito di ricorsi amministrativi in materia di appalti pubblici rispetto ad altre materie e, dall’altro, che il contributo sia versato non solo all’atto del deposito del ricorso, ma altresì per i ricorsi incidentali e i motivi aggiunti che introducono domande nuove nel corso del giudizio. Sul primo punto, il giudice dell’Unione ha anzitutto ricordato che «in assenza di una disciplina dell’Unione in materia, spetta a ciascuno Stato membro, in forza del principio di autonomia processuale degli Stati membri, stabilire le modalità della procedura amministrativa e quelle relative alla procedura giurisdizionale intese a garantire la tutela dei diritti spettanti agli amministrati in forza del diritto dell’Unione», precisando però che tali modalità non devono «essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi previsti per la tutela dei diritti derivanti dall’ordinamento interno (principio di equivalenza), né devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (principio di effettività)» [11]. Alla luce di tali considerazioni, la Corte ha osservato che il versamento di un contributo unificato maggiore per i procedimenti in materia di appalti pubblici non presentava alcun profilo di incompatibilità con il diritto dell’Unione. Per quanto invece attiene al secondo profilo problematico, la Corte ha rilevato che, ai sensi di una circolare del Segretario generale della Giustizia Amministrativa del 18 ottobre 2001, solo l’introduzione di atti procedurali autonomi rispetto al ricorso introduttivo del giudizio e intesi ad estendere considerevolmente l’oggetto della controversia [continua ..]
iii) La certezza del diritto costituisce indubbiamente un valore condiviso da tutti gli Stati membri e un principio cardine dell’Unione. Nella sua giurisprudenza, la Corte ne ha ribadito a più riprese l’importanza, sia nei suoi riflessi sostanziali, sia nei suoi aspetti processuali [13]. Ciò non toglie, però, che il principio di certezza del diritto possa entrare in conflitto con altre esigenze fondamentali, quali l’effettività dei rimedi giurisdizionali e il primato del diritto dell’Unione. Senza passare in rassegna tutta la casistica in materia, notoriamente complessa e, peraltro, poco interessante ai fini del presente lavoro, occorre ricordare quelle pronunce che, mettendo in discussione il principio di certezza del diritto, hanno influito sull’evoluzione non solo del processo, ma anche del procedimento amministrativo. In proposito, vale la pena menzionare, in primo luogo, le sentenze nelle quali la Corte ha chiarito i doveri dei giudici dinanzi ad una decisione amministrativa originariamente adottata in violazione del diritto dell’Unione. Nella causa Santex, in particolare, la Corte si è pronunciata sulla compatibilità con il diritto dell’Unione di un termine di prescrizione per ricorrere avverso una decisione di conclusione di un procedimento amministrativo in materia di appalti pubblici contraria a quel diritto. Pur riconoscendo la ragionevolezza del termine in oggetto, la Corte ha statuito che la sua applicazione non poteva però impedire l’impugnazione di una decisione di esclusione/aggiudicazione di un bando di gara, laddove fosse stabilito che l’autorità aggiudicatrice aveva reso impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento comunitario. In tali circostanze, il diritto dell’Unione impone ai «giudici nazionali competenti l’obbligo di dichiarare ricevibili i motivi di diritto basati sull’incompatibilità del bando di gara con il diritto comunitario, dedotti a sostegno di un’impugnazione proposta contro la detta decisione, ricorrendo, se del caso, alla possibilità prevista dal diritto nazionale di disapplicare le norme nazionali di decadenza in forza delle quali, decorso il termine per impugnare il bando di gara, non è più possibile invocare una tale [continua ..]
Tutto ciò precisato, si può dire che i giudici italiani possono farsi carico di molte responsabilità e rimproverarsi molte carenze, ma certo non possono autoflagellarsi sul punto del loro dialogo con la Corte di giustizia ed in genere sul piano dell’impegno per la giustizia europea. Ma più in generale, vorrei sottolineare ancora una volta il ruolo fondamentale della cooperazione tra la Corte ed i giudici nazionali, e segnatamente dell’esercizio sempre più diffuso ed attivo da parte di questi ultimi del loro ruolo di giudici decentrati del diritto dell’Unione. Credo, in effetti, che nessuna misura di riorganizzazione dell’attività della Corte potrà portare i suoi frutti se da parte dell’Unione non si fa pienamente leva su quel ruolo e se, per parte loro, le giurisdizioni nazionali non assolvono attivamente al naturale compito di filtro nell’applicazione del diritto dell’Unione. La Corte ha piena fiducia in questo ruolo dei suoi omologhi nazionali e trova nell’eccellente esperienza di oltre sessant’anni di collaborazione un solido motivo per fondare questa fiducia.