L’articolo ricostruisce le più significative sentenze della Corte di Giustizia e del Tribunale su questioni tecnico-scientifiche complesse ed evidenzia il metodo seguito nell’affrontarle. Muovendo dal principio precauzionale a quello della leale cooperazione, l’autore dimostra che, nell’affrontare questioni scientifiche complesse, il giudice unionale predilige un metodo nel quale, in luogo di ricercare direttamente soluzioni comportanti conoscenze extra-giuridiche, si valorizza il corretto esercizio del potere da parte delle istituzioni e dei soggetti competenti, nonché il ruolo che, nel processo decisionale, viene affidato agli studi e alle autorità scientifiche. Ciò non esclude un ruolo fondamentale nella definizione di nozioni scientifiche, limitato tuttavia ai casi nei quali la questione può essere risolta esclusivamente sulla base delle regole dell’ermeneutica. Secondo l’autore, questo metodo è appropriato rispetto all’evoluzione della società, sempre più complessa e connotata da conoscenze specialistiche, nella quale il giudice non può più essere il peritus peritorum, ma deve piuttosto riservarsi il ruolo di istituzione che verifica responsabilmente il rispetto delle regole ad opera di tutti gli stakeholders che concorrono alla definizione dei diritti e delle responsabilità individuali e collettive.
The article analyses the most significant judgments by the ECJ and the General Court on scientific and technical complex matters. Moving from the precautionary principle to that of sincere cooperation, the author shows that, in dealing with the above matters, the European courts do not provide solutions to cases directly delivering their opinion on non-legal questions. Rather, the European judiciary prefers to assess whether relevant (technical or political) institutions have properly discharged their duties, and verifies the role that, in this task, has been given to scientific evidence and to studies elaborated by established authorities or experts. The European judges retain, however, a fundamental role in shaping scientific notions when this can be done exclusively through the instruments of legal construction. The author considers this method appropriate for the present society, which is more and more characterised by complexity and specialised knowledge; in this society the judge can no longer be qualified as “expert among the experts”; on the contrary, its role is that of institution assessing the responsible compliance of their rules and tasks by all stakeholders whose activity contributes to the definition of individual or collective rights and responsibilities.
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I. Introduzione. - II. Il principio precauzionale come parametro per sindacare la legittimità di misure adottate a tutela della salute: dai casi della c.d. Mucca Pazza a quello Xylella. - III. Metodo scientifico e ruolo del giudice: il caso Pfizer. - IV. Contrapposte risultanze scientifiche e sindacato giurisdizionale: il caso Paraquat. - V. La leale cooperazione quale elemento di valutazione “esterno”: i casi relativi agli OGM. - VI. (Segue): il ruolo del giudice tra problemi scientifici complessi e valutazioni politiche. - VII. L’effetto della scienza sulle regole e sul ruolo del giudice nell’evoluzione dell’ordinamento giuridico europeo: il sistema REACH. - VIII. Tecnicismo giuridico o tecnicismo scientifico? Rifiuti, nuovi prodotti alimentari e sostanze pericolose. - IX. Osservazioni conclusive. - NOTE
Il rapporto tra diritto e scienza, in particolare per quel che riguarda le decisioni dei giudici nelle quali è decisiva la valutazione di concetti tecnico-scientifici complessi, è naturalmente molto presente anche nella giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea [1]. Del resto, larga parte delle regole aventi un’origine tecnico-scientifica che vengono applicate nel nostro ordinamento ha matrice unionale, ed è ovvio quindi che sovente il giudice europeo si debba confrontare con norme la cui interpretazione presuppone appunto un’adeguata valutazione di nozioni o conoscenze di natura tecnica o scientifica. L’oggetto precipuo di questo lavoro intende trattare alcuni profili giurisprudenziali rilevanti, e in particolare sull’approccio che i giudici dell’Unione riservano al loro rapporto con le scienze, e su alcune delle pronunce nelle quali, a mio avviso, questo approccio – ma forse sembra più appropriato parlare di “metodo” – appare particolarmente significativo. Naturalmente, le considerazioni che seguono si riferiranno al rapporto tra diritto dell’Unione europea tanto con le c.d. scienze dure [2], quelle cioè basate sul metodo scientifico causale e predittivo, quanto con le c.d. scienze morbide, nelle quali la ricerca scientifica, non riproducibile in laboratorio, richiede anche l’impiego di una metodologia di ricerca storica e interpretativa [3]. Ciò posto, vedremo che, quando la decisione del giudice europeo implica la valutazione di nozioni non strettamente giuridiche, è notevole – e a mio avviso apprezzabile – il self-restraint a favore del “metodo scientifico” compiuto sistematicamente dalla giurisdizione unionale.
Entrando nel merito delle pronunce in cui la Corte si rapporta alle scienze e alle questioni scientifiche complesse, uno dei casi sicuramente più noti è quello relativo al c.d. morbo della mucca pazza, deciso dalla Corte con due sentenze sostanzialmente identiche ormai qualche anno fa [4]. Tra l’altro, tali sentenze costituiscono una delle prime applicazioni del principio precauzionale da parte dei giudici [5]. La fattispecie da cui scaturiscono le decisioni Mucca Pazza è nota, e ai nostri fini è sufficiente tratteggiarne gli elementi essenziali: in particolare, si ricorderà che, in conseguenza della diffusione dell’encefalopatia spongiforme bovina-BSE (vulgo, il morbo della mucca pazza) soprattutto tra gli allevamenti del Regno Unito, e in considerazione dell’esistenza di possibili collegamenti tra il prione della mucca pazza e la sindrome di Creutzfeldt-Jakob, una patologia letale per l’uomo, la Commissione si determinò ad assumere, tra l’altro, misure radicali lesive della libera circolazione di animali e prodotti di origine animale dal Regno Unito agli altri Stati membri, quali il divieto di esportazioni; ad esse si accompagnarono misure ancor più drastiche, quali l’uccisione massiva di migliaia e migliaia di capi di bestiame. Il tutto in funzione di cercare di arrestare il contagio che si supponeva potesse arrivare da animali e allevamenti britannici, e quindi di eradicare la BSE. Le decisioni della Commissione avevano quale base giuridica talune direttive rispettivamente stabilenti le condizioni sanitarie e di polizia sanitaria per gli scambi e le importazioni nella Comunità di prodotti alimentari e concernenti i controlli veterinari applicabili negli scambi intra-unionali. Le misure davano espressamente atto dell’impossibilità di «pronunciarsi in maniera definitiva sul rischio di trasmissione della BSE all’uomo» e tuttavia della circostanza secondo cui «l’esistenza di tale rischio non può essere esclusa»; ed erano adottate quali provvedimenti di emergenza al fine tra l’altro di ridurre le preoccupazioni dei consumatori, che indistintamente avevano cominciato a non acquistare più carne e prodotti da essa derivati, quindi in una logica perfettamente coerente anche con le competenze europee in tema di mercato interno. Il cuore delle questioni giuridiche dibattute [continua ..]
Tuttavia, non sempre si versa in ipotesi, quali quelle relative ai casi Mucca Pazza e Xylella, nelle quali non si devono valutare contrapposte risultanze scientifiche. Ove ciò invece si verifichi, il ragionamento del giudice unionale diventa più articolato. All’uopo mi pare particolarmente utile l’esame della sentenza Pfizer [13], nella quale in effetti è possibile individuare una teorica sostanzialmente compiuta – e tuttora pienamente valida – del sindacato giurisdizionale del giudice dell’Unione rispetto a questioni tecniche complesse. Nel caso di specie, si trattava di sindacare una disposizione contenuta in un regolamento in tema di additivi per mangimi, nella quale era stata revocata la facoltà di utilizzo di un determinato antibiotico in tali additivi, ritenendo sussistente il rischio che l’alimentazione di animali con mangimi contenenti il predetto antibiotico avrebbe potuto sviluppare batteri resistenti a quest’ultimo o alla famiglia di antibiotici ad esso relativa, in una situazione in cui si trattava quindi di valutare se fosse preferibile accettare il «pericolo per la salute umana» scaturente dal rischio di resistenze agli antibiotici o privare i mangimi di un additivo idoneo a stimolare la crescita degli animali. È bene sottolineare che, benché esistesse – ed esista – un ampio consenso tra gli esperti in ordine alla circostanza secondo cui (a) la resistenza agli antibiotici è, in primo luogo, causata dall’uso eccessivo e inadeguato degli antibiotici in medicina umana, e (b) la resistenza agli antibiotici, sviluppata negli animali, può essere trasferita all’uomo, nel caso di specie, e cioè rispetto all’antibiotico di cui trattasi, non vi era alcuno studio che avesse ancora dimostrato il trasferimento della resistenza antimicrobica dagli animali all’uomo e, di conseguenza, la riduzione dell’efficacia di determinate terapie in medicina umana. Anche qui, dunque, si trattava di sindacare la legittimità di una misura adottata in forza del principio di precauzione. Al riguardo, il ragionamento del Tribunale può essere così sintetizzato: posta l’interpretazione del principio precauzionale coerente con quanto già deciso nel caso Mucca Pazza [14], secondo cui «quando sussistono incertezze scientifiche riguardo [continua ..]
Nel percorso di affinamento della giurisprudenza europea sui temi in oggetto, merita altresì una riflessione la sentenza Paraquat [19]. Nella fattispecie, si trattava di valutare se una sostanza usata come pesticida fosse o meno utilizzabile, e con quali prescrizioni, all’interno degli Stati membri, in una situazione in cui taluni di essi avevano impugnato una direttiva della Commissione che autorizzava l’utilizzo del Paraquat pur con determinate restrizioni, in presenza di studi scientifici sulla base dei quali emergeva che non tutti i rischi della sostanza erano stati adeguatamente valutati, sicché le restrizioni individuate avrebbero potuto essere inidonee a proteggere alcune specie di animali dai rischi specifici individuati dai predetti studi [20]. Nella sua disamina, il Tribunale innanzitutto ribadisce i parametri giuridici entro i quali sviluppare il giudizio, richiamando una precedente sentenza e ricordando che «[i]l principio di precauzione mira … ad evitare i rischi potenziali. Invece, rischi puramente ipotetici, fondati su semplici ipotesi scientifiche non provate, non possono essere presi in considerazione» [21]. In questa prospettiva, si ritiene che l’esistenza di indizi seri che, pur senza eliminare l’incertezza scientifica, consentano ragionevolmente di dubitare dell’innocuità di una sostanza, in linea di principio osta a ritenerla liberamente impiegabile. Naturalmente, questi indizi debbono essere qualificati alla stregua dei parametri accennati nel precedente paragrafo, e cioè provenire da fonti autorevoli nel senso dianzi descritto. Se queste risultanze scientifiche individuano specifici rischi non considerati invece dall’autorità competente (nella specie, come scritto, venivano in rilievo rischi per la fauna, ma il ragionamento vale certamente rispetto a rischi per la salute umana o per l’ambiente), questa ha l’onere di prendere posizione sugli specifici rischi, e dimostrare, «al di là di ogni ragionevole dubbio», che le misure in discussione consentono di garantire un impiego della stessa che sia idoneo a evitare i rischi stessi [22]. Ancora una volta, quindi, più che assumere essa stessa il compito di peritus peritorum, la giurisprudenza attribuisce la massima attenzione ai processi e alle metodologie in base alle quali l’autorità competente [continua ..]
Un altro elemento ricostruttivo utile nell’analisi della giurisprudenza unionale intorno alle questioni qui in oggetto proviene dalla disamina delle sentenze adottate in materia di organismi geneticamente modificati [24]. È noto che l’autorizzazione all’immissione in commercio di OGM viene condizionata all’adozione di una specifica autorizzazione, limitata nel tempo, normalmente adottata con decisione di esecuzione e in conformità alla procedura di c.d. comitologia [25]. Una volta autorizzati, gli OGM sono comunque soggetti a un costante monitoraggio. Tanto che si prevede sia un meccanismo che modifica, sospende o interrompe l’emissione deliberata di OGM qualora diventino disponibili informazioni relative al rischio di emissione, sia una clausola di salvaguardia, a disposizione di ciascuno Stato membro, quando siano (sopravvenuti) fondati motivi di ritenere che un OGM come tale o contenuto in un prodotto debitamente notificato e autorizzato in base alla direttiva rappresenti tuttavia un rischio per la salute umana o l’ambiente [26]. Nel primo caso che interessa, e cioè quello di cui alla sentenza Greenpeace France [27], a seguito di richiesta di autorizzare l’immissione in commercio di mais geneticamente modificato, in sede di comitologia la Commissione aveva invitato le competenti autorità degli Stati membri a pronunciarsi, senza ricevere alcuna obiezione. Ciò aveva sbloccato l’immissione in commercio per tale varietà di mais che era stata quindi autorizzata. Successivamente, la Francia aveva adottato una decisione favorevole alla predetta immissione in commercio in territorio francese, impugnata davanti ai tribunali nazionali da parte di Greenpeace e altri, e fondata su risultanze scientifiche dalle quali si assumevano rischi per l’ambiente derivanti dalla diffusione di tale OGM. Il giudice francese chiedeva quindi alla Corte se gli Stati membri, che non avevano fatto osservazioni in occasione della fase antecedente la comunicazione della Commissione agli Stati membri stessi di autorizzare l’immissione in commercio, potessero riservarsi successivamente un potere discrezionale di non dare il consenso a tale autorizzazione, specie quando tale decisione scaturisse da evidenze scientifiche sopravvenute. La Corte ha escluso che gli Stati membri possano non collaborare in fase di richiesta di consenso [continua ..]
(Segue). Naturalmente, questa giurisprudenza non può essere trasposta sic et simpliciter a qualunque altra ipotesi di valutazione, da parte del giudice, di situazioni implicanti rischi per la salute umana o l’ambiente, essendo evidentemente collegata a una specifica disciplina che individua misure e procedure ad hoc [31]. Tuttavia, è importante valorizzarne quanto meno alcuni punti che appaiono suscettibili di una portata più generale. In primo luogo, la riluttanza della Corte a valorizzare “principi” o “diritti fondamentali” (nel caso di specie, il diritto alla salute), come parametri idonei a superare norme di rango subordinato che tuttavia dettagliatamente stabiliscono le modalità con cui i primi devono essere protetti rispetto al rischio specifico di un loro pregiudizio. Sotto questo profilo, la mancata legittimazione, da parte della Corte, di una valutazione compiuta dalle autorità di uno Stato membro in ordine a potenziali “misure emergenziali” a tutela della salute, ma in difformità dalle scelte legislative compiute al riguardo, non solo riafferma la forte valorizzazione dell’equilibrio tra poteri, ma segnala anche l’indisponibilità del giudice a ergersi lui stesso, in definitiva, a difensore ultimo dei diritti fondamentali rispetto a materie molto tecniche nelle quali la cognizione del giudice stessa non può che essere derivata, e cioè acquisita da fonti tecniche (le cui doverose caratteristiche di autorevolezza abbiamo esaminato sopra). In secondo luogo, neppure sfugge il rilievo attribuito dalla giurisprudenza alla necessità secondo cui, su delicate questioni di natura tecnico-scientifica rispetto alle quali non vi è unanimità di posizioni, l’adozione di misure lesive di altri diritti contrapposti alla salute sia legittima esclusivamente a condizione che queste misure (i) siano avallate dalla sussistenza di una manifesta evidenza di rischio per la salute, e cioè di una prova liquida e idonea a essere direttamente apprezzata dal giudicante, e (ii) siano comunque accompagnate da comportamenti idonei a consentire un’immediata possibilità di superare la contrapposizione sul piano tecnico-scientifico mediante il coinvolgimento di istituzioni espressamente legittimate dall’ordinamento a compiere le rilevanti valutazioni [continua ..]
È innegabile, tuttavia, che nel mondo in cui viviamo le acquisizioni scientifiche siano sempre più complicate e approfondite, e che rispetto a tale situazione l’ordinamento nel suo complesso, e non solo il giudice, siano tenuti ad adeguarsi. Sotto questo profilo, ancora una volta il diritto dell’Unione europea offre interessanti spunti di riflessione. Mi riferisco, in particolare, alla disciplina istitutiva del regime europeo sulle sostanze chimiche (c.d. REACH, acronimo di Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemicals) [35]. Non è ovviamente possibile in questa sede dar conto di tale disciplina [36], ma interessa ai nostri fini il sistema di verifiche introdotto dal regime REACH rispetto ai possibili rischi per la salute e l’ambiente generati da sostanze chimiche della cui circolazione in ambito europeo si deve decidere. Segnatamente, oltre all’istituzione dell’Agenzia chimica europea (ECHA-European Chemicals Agency), che ha funzioni tra l’altro di gestire e attuare gli aspetti tecnici, scientifici e amministrativi del sistema REACH, e fornire consulenza tecnico-scientifica su questioni relative alle sostanze chimiche in ambito REACH, la normativa prevede la costituzione anche di comitati tecnici, aventi funzioni consultive e di supporto, e meccanismi di risoluzione di controversie interni all’ECHA medesima. Così, le decisioni dell’Agenzia sono soggette a verifica da parte di una commissione di ricorso interna all’Agenzia stessa (Board of Appeal), e solo in alcuni casi sono impugnabili “direttamente” dinanzi alla giurisdizione europea (nonché alle giurisdizioni nazionali [37]). Inoltre, la disciplina REACH prevede un obbligo dell’ECHA di coordinarsi e confrontarsi con altre agenzie europee qualora sorgano divergenze su questioni di interesse comune, e individua un obbligo di cooperazione “tecnico” tra agenzie e altri organismi tecnici costituiti nell’ambito dell’ordinamento UE, funzionale non solo ad appianare «conflitti» o «divergenze di opinione» su questioni tecniche o scientifiche, ma anche all’adozione di documenti comuni «che chiarisca[no] le questioni scientifiche e/o tecniche oggetto di divergenza» [38]. La ratio di queste regole appare evidentemente volta a ridurre gli spazi di conflitto in materia [continua ..]
Nei paragrafi precedenti si è evidenziato l’approccio di self-restraint da parte della Corte di giustizia su questioni tecniche particolarmente complesse, e se ne sono anche sottolineate l’opportunità e i pregi rispetto ad impostazioni … più interventiste. Un tale approccio non implica affatto quale conseguenza quella di chiedere al giudice di rinunciare a elaborare su questioni tecnicamente complesse allorché non vi siano questioni scientifiche difficili da risolvere: al riguardo, viene innanzitutto in rilievo la giurisprudenza della Corte in materia di rifiuti. Così, partendo dalla definizione normativa secondo cui, com’è noto, un rifiuto è «qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi» [40], la Corte ha sviluppato ragionamenti molto perspicui quando è stata chiamata ad applicare la disciplina sui rifiuti rispetto a sostanze che – pur apparentemente tali – in realtà non erano rifiuti, essendo invece sottoprodotti o residui, e cioè avendo un impiego (a) diverso da quello per il quale la materia originaria era stata elaborata o trattata, ma comunque (b) suscettibile di una utilizzazione economica e di una utilità propria [41]. Sempre al riguardo, altrettanto acute sono state le indicazioni della giurisprudenza della Corte, quando ha evidenziato l’opportunità di ricavare spazi interpretativi esterni alla nozione di rifiuto al fine di individuare il regime corretto di sostanze che, pur essendo certamente state una volta rifiuti, possono aver cessato di essere tali [42]. Il ruolo del giudice è stato anzi talmente importante nella fattispecie da determinare una codificazione sia dei sottoprodotti che del c.d. end-of-waste nella più recente disciplina quadro in materia di rifiuti, con effetti molto positivi sulla gestione delle risorse naturali e quindi sull’ambiente. Altro esempio di notevole capacità della Corte nell’individuazione di soluzioni a questioni tecniche complesse si è avuto nel recentissimo caso Davitas [43], nel quale la Corte ha accertato che una determinata sostanza era un «nuovo prodotto alimentare» ai sensi del regolamento (CE) n. 258/97 che disciplina il regime per l’immissione sul mercato dell’Unione europea di nuove [continua ..]
Il costante avanzamento delle conoscenze scientifiche e tecniche impatta necessariamente sulle scienze sociali, e tra esse sul diritto e sulla giurisprudenza [51]. Segnatamente, la crescente specializzazione in ogni campo del sapere richiede crescente attenzione (e umiltà) del Giudice nel suo ruolo di servitore della giustizia, nella misura in cui l’allocazione delle, e la decisione sulle, posizioni di diritto in gioco, dipendono da conoscenze che solo non giuristi possono fare entrare nel giudizio, ovvero trasferire al Giudice stesso con tutti i limiti imposti dalle regole del processo [52]. La breve disamina compiuta nei precedenti paragrafi mi pare abbia messo in luce come il metodo seguito dal Giudice europeo nella risoluzione di controversie implicanti valutazioni di ordine tecnico o scientifico tenga conto di tale impatto, e nel rispetto delle altre scienze riservi per sé un sindacato “indiretto”, ma certamente più sicuro ed efficace. Si nota, al riguardo, una convergenza con altre tipologie di contenzioso nelle quali non viene sindacata l’azione di un’autorità (o in generale di un’amministrazione), quanto piuttosto condotte individuali, la cui legittimità o conformità a norma debbono pur sempre essere valutate sulla scorta di nozioni particolarmente tecniche, o rispetto alle quali la téchne è comunque prevalente: si pensi ad esempio al diritto aeronautico e alle situazioni nelle quali debbano essere accertate eventuali responsabilità, ma anche alle cause di responsabilità civile del medico. In tali casi, assumono crescente importanza come parametri di conformità alla norma, o al livello di diligenza, professionalità e competenza richiesto all’interessato dall’ordinamento, il rispetto di determinate procedure, c.d. check-list o linee guida elaborate da istituzioni autorevoli tecniche o scientifiche considerate di riferimento. E sempre più la valutazione del giudice si caratterizza – a mio avviso del tutto opportunamente – nel senso di non elaborare propri convincimenti di natura tecnica o scientifica sulla fattispecie, quanto piuttosto verificare la conformità della condotta in concreto posta al suo esame con queste c.d. best practices sviluppate da enti riconosciuti e specificamente competenti nella materia tecnico-scientifica di cui trattasi. [continua ..]