This paper explores the evolution and recent developments of the application of financial penalties under Article 260 TFEU. As the application of Article 260 TFEU became standard practice, questions related to its application arose.
The paper specifically focuses on the role of the Commission at the stage of execution of judgments delivered under Article 260(2) TFEU and levying financial penalty on a Member State concerned.
In this context, disputes between the Commission and a Member State may arise. Either relating to the elimination of an infringement (this issue has been addressed by the Court in an appeal in Case C292/11P, Commission v. Portugal), or relating to the definition and adaptation of financial penalties. This is, for instance, the issue in Case C-496/09, Commission v. Italy, concerning the recovery of state aid. In this case the Court adopted a flexible approach towards the conditions for calculating the periodic penalty payment. This approach was designed with the aim to adapt the penalty to progress in the execution of the judgment, ensuring that the penalty “is both appropriate to the circumstances and proportionate to the infringement that has been established”. The execution of this judgment led to a complex dispute between Italy and the Commission on the methodology used to calculate the penalty payments (Cases C-496/09INT, Italy v. Commission; T-268/13, Italy v. Commission; T-122/14, Italy v. Commission).
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I. Introduzione - II. Il procedimento sanzionatorio dell’inadempimento degli obblighi derivanti dai Trattati nei confronti degli Stati membri: alcuni profili problematici dell'esecuzione delle sentenze di condanna - III. Il ruolo della Commissione nell’esecuzione della sentenza di condanna - IV. Penalità fissa e penalità decrescente: i problemi di calcolo - V. La portata delle competenze della Commissione e i poteri di controllo del Tribunale: la controversia tra Portogallo e Commissione - VI. Questioni intorno al computo della penalità decrescente: la controversia tra Italia e Commissione sull'esecuzione della sentenza C-496/09 - VII. Segue. La richiesta di interpretazione della sentenza C-496/09 - VIII. Segue. I ricorsi dell’Italia al Tribunale - NOTE
Introdotta nel 1992 dal Trattato di Maastricht con l’aggiunta di un nuovo par. 2 nell’allora art. 171 TCE, oggi art. 260 TFUE, la procedura sanzionatoria degli Stati membri per la mancata esecuzione di sentenze della Corte di giustizia che ne abbiano accertato, ai sensi dell’art. 258 TFUE l’inadempimento ad obblighi posti dal diritto dell’Unione, ha sollevato delicati problemi applicativi. Ciò non solo in ragione dei pesanti oneri finanziari che le sanzioni pecuniarie hanno dimostrato di poter comportare per gli Stati membri che ne sono destinatari, quanto anche per la laconicità del disposto normativo. La disposizione del Trattato si limita infatti a prevedere la possibilità che, nel caso di mancata esecuzione da parte di uno Stato membro di una sentenza di accertamento di un inadempimento del diritto dell’Unione resa ai sensi del citato art. 258 TFUE, la Commissione possa nuovamente adire la Corte di giustizia e chiedere la condanna dello Stato in questione al pagamento di una somma forfettaria o di una penalità. Dal diritto primario non sono dunque ricavabili, o almeno non in termini espressi e dettagliati, indicazioni in merito ad alcuni, fondamentali, aspetti, quali quelli relativi alla natura e all’ammontare delle sanzioni; alla possibilità del loro cumulo; alla definizione del rapporto tra le competenze della Commissione e quelle della Corte in ordine alla determinazione della sanzione, in particolare sotto il profilo dell’applicabilità del principio dispositivo; alle modalità di esecuzione della sentenza di condanna. Questi profili problematici, che erano stati evidenziati già dai primi commentatori [1] e che sono poi emersi nella prassi applicativa, non hanno trovato riscontro nei successivi esercizi di revisione dei Trattati. L’assoluta essenzialità del quadro normativo di diritto primario ha fatto pertanto sì che l’istituto si stia “costruendo” sulla base della prassi applicativa della Commissione [2] e della giurisprudenza della Corte di giustizia [3]. Alcune riforme, peraltro significative, sono state per la verità apportate dal Trattato di Lisbona. Ma queste, di tutta evidenza, non sono destinate a risolvere i problemi segnalati, avendo piuttosto avuto l’obiettivo di rendere più effettivo il rispetto da parte degli Stati membri delle sentenze di condanna [continua ..]
Partita in sordina, inizialmente forse anche un po’ sottovalutata nelle sue potenzialità, la procedura sanzionatoria dell’art. 260 TFUE è stata applicata per la prima volta nel 2000 quando, dopo parecchi anni dall’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, la Grecia, primo fra gli Stati membri, venne condannata al pagamento di una penalità di 20.000 euro per giorno di ritardo nell’attuazione dei provvedimenti necessari all’esecuzione della sentenza con cui la Corte di giustizia sanzionava la mancata attuazione di una sua precedente sentenza di accertamento dell’inadempimento ad alcuni obblighi derivanti dalla normativa europea in materia di smaltimento di rifiuti [5]. Dopo quella prima sentenza il procedimento sanzionatorio è diventato una realtà sempre più incisiva. Sebbene infatti non siano ancora molte le sentenze di condanna [6] e sebbene la condanna al pagamento di una sanzione pecuniaria non costituisca l’esito necessario del procedimento [7], è vero nondimeno che nella maggior parte dei casi la somma forfettaria, ma soprattutto la penalità possono raggiungere un ammontare assai elevato [8]. A ciò va aggiunto che, a partire dal 2005, la Corte di giustizia [9] e la Commissione [10] hanno ritenuto, in costanza di inadempimento, di poter comminare cumulativamente le due sanzioni – somma forfettaria e penalità – per ciò stesso aggravando le conseguenze finanziarie per lo Stato membro condannato. Nel contempo, l’inasprimento della procedura di cui all’art. 260 TFUE conseguente alla riforma di Lisbona e la creazione di modelli analoghi in contesti formalmente esterni ai Trattati istitutivi, come nel caso del Fiscal Compact [11], sembrerebbero anzi dare inspiegabilmente conto di un’inusitata e per certi versi incauta disponibilità degli Stati membri a sottoporsi a meccanismi sanzionatori che possono avere ripercussioni fortemente negative sulle finanze nazionali. Ciò non ha tuttavia impedito, che proprio l’onerosità delle conseguenze economiche delle sanzioni irrogate dalla Corte di giustizia abbia talvolta dato luogo a contestazioni da parte degli Stati membri interessati in ordine all’esecuzione delle stesse. Questo problema è stato certamente acuito dal fatto che in taluni casi la Corte di giustizia ha [continua ..]
Prima di affrontare la questione delle controversie relative all’esecuzione di una sentenza di condanna ex art. 260 TFUE che possono sorgere tra lo Stato membro censurato e la Commissione, occorre fornire alcune essenziali coordinate che consentano di inquadrare nei suoi esatti confini la questione. Secondo la Corte di giustizia il par. 2 dell’art. 260 TFUE ha stabilito un mezzo di ricorso autonomo che apre «uno speciale procedimento giudiziario di esecuzione delle sentenze della Corte, in altri termini … un mezzo di esecuzione» [13], nel contesto del quale «possono essere trattati solo gli inadempimenti agli obblighi incombenti allo Stato membro in forza del Trattato che la Corte, sulla base dell’art. 226 CE [art. 258 TFUE], ha giudicato fondati» [14]. Obiettivo esclusivo della procedura di cui all’art. 260, par. 2, TFUE – e quindi delle sanzioni – è quello di spingere lo Stato membro a eseguire la sentenza di accertamento, sanando quanto prima e in modo completo la relativa situazione di inadempimento [15]. L’inadempimento da sanare è dunque quello che ha formato oggetto di accertamento nella sentenza della Corte resa ai sensi dell’art. 258 TFUE [16]. L’accertamento dell’inadempimento della norma sostanziale e della sua sussistenza assume rilievo in ordine alla quantificazione della sanzione: la data della pronuncia della sentenza resa ex art. 258 TFUE è infatti il dies a quo utile al fine di calcolare il coefficiente di durata dell’infrazione che, insieme a quello della sua gravità e a quello relativo alle capacità finanziarie dello Stato membro considerato, costituisce uno dei criteri fondamentali per determinare l’importo di questa. Più precisamente, la Corte di giustizia considera che, ai fini della quantificazione della sanzione, la durata dell’infrazione debba essere valutata a partire dalla sentenza di accertamento fino al «momento in cui essa esamina i fatti e non di quello in cui è adita dalla Commissione» [17]. Diverso rilievo assume il fattore temporale ai fini della nascita e dell’estinzione dell’obbligo di pagamento della sanzione. Secondo la giurisprudenza tale obbligo decorre, in linea di principio, dalla data della pronuncia della sentenza ex art. 260 TFUE e termina nel [continua ..]
Se l’esazione della somma forfettaria, essendo questa di importo fisso e definito dalla Corte di giustizia, difficilmente potrà dar luogo a contestazioni che non siano quelle legate al rispetto dei termini di pagamento, assai più delicata si presenta invece la questione con riferimento alla penalità. A questo proposito occorre ricordare che finalità precipua della penalità è di spingere lo Stato membro a porre fine quanto prima a un inadempimento che altrimenti tenderebbe a persistere; pertanto l’imposizione di una penalità è giustificata soltanto se e fintantoché perdura l’inadempimento relativo alla mancata esecuzione della sentenza di accertamento fino all’esame dei fatti da parte della Corte [21]. In considerazione di tale finalità l’importo della penalità – che si configura dunque come una vera e propria penalità di mora – deve essere calcolato in ragione della persistenza dell’infrazione a partire da una certa data e per tutta la sua durata. La natura coercitiva della sanzione e la necessità di modularne l’entità alla luce del principio di proporzionalità [22], hanno portato la Corte di giustizia a dare applicazione della penalità periodica in maniera differenziata, computandola vuoi nella forma di una somma fissa da versare periodicamente, in lassi di tempo più o meno ampi [23], fino alla piena esecuzione della sentenza di accertamento, vuoi nella forma di una somma decrescente, che si riduce a misura dell’avanzamento nell’esecuzione della sentenza [24]. Per far sì che la penalità risulti adeguata alle particolari circostanze del caso di specie e commisurata all’inadempimento accertato, la Corte di giustizia ha infatti adottato un approccio flessibile, stabilendo che nel fissarne l’importo si debba tener conto dei progressi realizzati dallo Stato membro convenuto nell’esecuzione della sentenza di accertamento, così come delle particolari circostanze del caso che possono evolvere più o meno gradualmente. Un tale approccio appare particolarmente opportuno nei casi in cui lo Stato membro sia responsabile di un fascio di addebiti che possono essere distinti tra loro; in queste eventualità e qualora lo Stato membro esegua via via parti della sentenza, addebito per addebito, si [continua ..]
Su tali questioni sono recentemente arrivate a giudizio davanti ai giudici europei alcune controversie tra la Commissione e taluni Stati membri [27]. Il primo caso riguarda l’esecuzione della sentenza della Corte di giustizia del 10 gennaio 2008 [28] di condanna del Portogallo al pagamento di una penalità per ogni giorno di ritardo nell’attuazione delle misure necessarie a conformarsi a una precedente sentenza di accertamento del 14 ottobre 2004 [29]. Nel caso di specie l’infrazione era data dalla mancata abrogazione di un decreto legge portoghese [30], che subordinava la concessione del risarcimento danni ai soggetti lesi da una violazione della direttiva 89/665/CEE in materia di appalti pubblici o di norme nazionali che la recepiscono alla prova della colpa o del dolo. Nel corso dell’esecuzione della sentenza di condanna è insorta una controversia tra il Portogallo e la Commissione in merito all’idoneità delle misure prese dal primo per sanare l’infrazione accertata dalla Corte nella sentenza del 2004 e quindi al calcolo dell’arco temporale della sanzione. In particolare, la Commissione sosteneva che la sopravvenuta L. n. 67/2007 che aveva abrogato il citato decreto legge non costituiva una misura di esecuzione adeguata e completa della sentenza del 2004 e nemmeno una trasposizione conforme della direttiva 89/665; pertanto rifiutava di fissare la cessazione dell’inadempimento alla data in cui il decreto legge era stato abrogato dalla L. n. 67/2007, ritenendo che la stessa andasse individuata nella data di adozione della L. n. 31/2008 con cui il Portogallo aveva finalmente modificato la L. n. 67/2007 nel senso voluto dalla Commissione. In conseguenza di ciò, quest’ultima aveva notificato al governo portoghese una decisione in cui, indicando appunto nella data di entrata in vigore della più recente legge il termine dell’inadempimento, calcolava su quella data la penalità da versare al bilancio dell’Unione. Ritenendo errata l’interpretazione che la Commissione aveva dato della L. n. 67/2007, il Portogallo ha impugnato la decisione davanti al Tribunale dell’Unione. Constatato in via preliminare che il Trattato non stabilisce le modalità di esecuzione della sentenza di condanna e neppure prevede alcuna disposizione speciale relativa alla risoluzione delle controversie che potrebbero sorgere [continua ..]
Anch’essa vertente sull’esecuzione della sentenza di condanna resa ex art. 260 TFUE, ma sotto il diverso profilo del termine a partire dal quale calcolare la decorrenza della penalità di mora e delle modalità di calcolo della stessa, è la complessa controversia che oppone l’Italia alla Commissione. Il caso riguarda l’annosa questione del mancato recupero degli aiuti a favore dell’occupazione (contratti a formazione lavoro) per il quale il nostro Paese era stato ritenuto responsabile con la sentenza del 1° aprile 2004 [38]. A fronte della mancata esecuzione di questa da parte dell’Italia, la Corte di giustizia, con la sentenza del 17 novembre 2011, ha condannato lo Stato italiano al pagamento di forti sanzioni pecuniarie. Si tratta di una somma forfettaria di 30 milioni di euro e di una penalità decrescente con cadenza semestrale [39]. La Corte ha stabilito che l’importo della penalità vada calcolato a partire dall’im-porto di base di 30 milioni di euro moltiplicato per la percentuale degli aiuti illegali incompatibili il cui recupero non sia stato ancora effettuato o dimostrato al termine del semestre di riferimento, calcolata rispetto alla totalità degli importi non ancora recuperati alla data della pronuncia della sentenza di condanna [40]. La scelta della Corte di giustizia in favore di una penalità variabile, che tenga conto dei progressi realizzati dallo Stato membro, trova fondamento nella necessità di tener conto della specificità delle operazioni di recupero degli aiuti versati e del fatto che, come osservato dalla Corte stessa, «sarà particolarmente difficile pervenire a breve termine, a un’esecuzione completa» della decisione di recupero. Con la conseguenza che se la penalità fosse costante essa rimarrebbe esigibile per tutto il tempo in cui lo Stato interessato non ha completamente adempiuto, risultando per ciò stesso in contrasto con il principio di proporzionalità. In effetti, si è in presenza di una situazione molto complessa, riguardante un regime di aiuti estremamente parcellizzato sul territorio nazionale, che ha interessato migliaia di imprese, con la conseguenza che la ricostruzione dei dati rilevanti, in specie la raccolta delle informazioni e delle prove relative al recupero degli aiuti o alle altre situazioni [continua ..]
Investendo un problema di interpretazione del dispositivo della sentenza di condanna del 2011, il Governo italiano ha ritenuto di seguire la strada del ricorso alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 43 dello Statuto della Corte [43] in relazione ai punti sui quali è sorta la controversia interpretativa [44]. In particolare l’Italia ha chiesto alla Corte se i termini «importi non ancora recuperati alla data della pronuncia della presente sentenza», che figurano ai punti 52, 55 e 68 della motivazione e 2 del dispositivo di tale sentenza, vadano interpretati nel senso che essi si riferiscono agli importi non ancora recuperati alla data in cui si è conclusa, nel processo, la fase di acquisizione delle fonti di prova, vale a dire al momento in cui si è cristallizzata la situazione di fatto processuale sulla base della quale la Corte ha definito la controversia [45]. Con l’ordinanza dell’11 luglio 2013 la Corte ha respinto il ricorso considerando che «è pacifico che una lettura rigorosamente letterale del dispositivo della sentenza di cui si chiede l’interpretazione» [46] è tale da fungere da fondamento per il metodo di calcolo indicato dalla Commissione. Insomma, la Corte non ha esaminato in alcun modo il problema sollevato nella domanda del Governo italiano, limitandosi a rinviare a una lettura rigorosamente letterale del dispositivo della sentenza di condanna, proprio quella modalità di lettura che aveva sollevato la divergenza interpretativa tra le autorità italiane e i servizi della Commissione. Da questo punto di vista la pronuncia finisce anzi per imputare al Governo italiano il tentativo di «rimettere in discussione le conseguenze di tale lettura rigorosamente letterale del dispositivo della sentenza di cui si chiede l’interpretazione», sentenza che non presenta «nessuna difficoltà quanto al senso e alla portata» [47]. Per la verità, l’esistenza stessa di una divergenza interpretativa tra Italia e Commissione dà di per sé conto di una difficoltà nell’interpretazione del dispositivo della sentenza di condanna rispetto alla quale la Corte avrebbe forse dovuto soffermarsi con maggior cautela e attenzione. Ciò premesso, desta in ogni caso perplessità il ricorso, insistentemente [continua ..]
Inevitabilmente, la decisione della Commissione è stata impugnata dal Governo italiano davanti al Tribunale il quale, con la sentenza pronunciata il 21 ottobre 2014, ha respinto il ricorso [54]. Nel corso di tale procedimento, tenendo conto dell’esito sfavorevole del ricorso di interpretazione davanti alla Corte di giustizia, le doglianze italiane erano state limitate ad un unico motivo riguardante gli aspetti concernenti il recupero degli aiuti erogati ad imprese oggetto di procedure concorsuali di concordato preventivo o di amministrazione straordinaria e il relativo difetto di motivazione della decisione della Commissione. Partendo dalla premessa che l’iscrizione al passivo del credito relativo alla restituzione degli aiuti, qualora gli aiuti non vengano integralmente recuperati, consente di porsi in regola con l’obbligo di restituzione solo se la procedura fallimentare giunga alla liquidazione e alla cessazione definitiva dell’attività delle società beneficiarie [55], la Commissione ha escluso la possibilità di assimilare le procedure di concordato preventivo e di amministrazione straordinaria alle procedure concorsuali. Ciò in quanto, secondo la Commissione, nell’ordinamento italiano soltanto il fallimento e la procedura di liquidazione coatta amministrativa sarebbero «procedure di liquidazione», che portano cioè alla cessazione definitiva dell’attività dell’impresa, mentre tale non sarebbe l’esito delle procedure in questione. Il Governo italiano ha contestato tale impostazione della Commissione innanzitutto rilevando come la liquidazione dell’impresa rappresenta l’esito naturale della stragrande maggioranza delle procedure di concordato preventivo. Inoltre il Governo ha sottolineato come non possa imputarsi alle autorità italiane la responsabilità del ricorso a tali procedure in quanto la proposta di concordato preventivo è approvata da un numero di voti che rappresenta la maggioranza dei crediti, decisione a cui il Governo non può opporsi; mentre rispetto alla procedura di amministrazione straordinaria viene acquisito il parere del ministero dello sviluppo economico sulla base delle condizioni che ne regolano l’ammissione, tra le quali non c’è quella relativa all’esistenza di debiti per la restituzione di aiuti di Stato illegali. Veniva poi evidenziato [continua ..]