Il tema delle minoranze è emerso in ambito UE in parallelo con il protagonismo acquisito dagli enti e dalle associazioni territoriali, attirando l’attenzione dell’UE soprattutto sulle minoranze “nazionali”, collocate in una specifica porzione del territorio di uno Stato. Nel tempo, però, sono emerse anche le istanze di gruppi minoritari non identificabili con uno specifico territorio, come, ad esempio le esigenze delle minoranze religiose, il cui rispetto è stato riconosciuto dalla Corte di giustizia quale principio generale dell’UE. Il presente lavoro analizza il processo di progressiva apertura dell’UE nei confronti delle minoranze “non nazionali”, assumendo come caso studio la minoranza Rom. Lo studio evidenzia il contributo delle sentenze della Corte EDU e delle decisioni del CEDS nel sensibilizzare le Istituzioni dell’UE sulle specificità della comunità Rom quale “comunità transnazionale”. Successivamente lo studio analizza il metodo utilizzato dalla Commissione europea per affrontare il problema, consistente nell’acquisire un ruolo di supporto operativo e finanziario, demandando agli Stati le scelte strategiche e cercando soprattutto di consolidare la relazione tra enti territoriali e associazioni Rom e pro Rom. Tale scelta, se, da un lato, ha favorito la responsabilizzazione degli Stati, dall’altro lato, comporta il rischio di una diversificazione e frammentazione della tutela dei diritti delle comunità Rom. In un’ottica di rafforzamento della tutela delle minoranze “non nazionali” – nella loro dimensione individuale e collettiva –, il lavoro auspica l’elaborazione di “standard europei di tutela” per la comunità Rom e il suo riconoscimento quale simbolo della diversità culturale dell’UE.
The problem of “minorities” emerged within the EU in parallel with the relevance acquired by the territorial entities and associations, attracting the EU attention mainly on the “national” minorities, located in a specific area of a State territory. However, during the time, also the instances of minority groups which could not be identifiable with a specific territory emerged, as, for example, the exigencies of the religious minorities, whose respect has been acknowledged by the Court as a EU “fundamental principle”. The study analyses the process of EU progressive openness to the “non-national” authorities, assuming Roma minority as a case-study. The analysis underlies the contribution of the ECHR and ECSR decisions in attracting the EU Institutions’interest on the Roma community specificities as a “transnational community”. Then, the study highlights the Commission method to face the problem, consisting in acquiring a role of operational and financial support, in leaving the strategic choices to the States and in consolidating the relationship between territorial entities and Roma and pro-Roma associations. This choice, if, from a point of view, has favored the States’acquisition of responsibility on the Roma communities, from the other point of view, determines the risk of a diversification and fragmentation of Roma right protection. To the extent to strengthen the “non – national” minority protection – in their individual and collective dimension –, the study hopes for the elaboration of “European protection standards” for Roma community and its acknowledgment as a symbol of the EU cultural diversity.
KEYWORDS: Minorities – Territorial entities and associations – Anti-discrimination – Traditional lifestyle – Transnational community – Cultural diversity – National strategy for Roma inclusion – Access to the services in conditions which do not have an offensive or stigmatizing effect – Financial incentive – Conditionality – European standards of protection
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I. Introduzione. - II. Il progressivo emergere della tutela delle minoranze nell'UE: le minoranze "nazionali". - III (Segue): la lenta affermazione delle minoranze "non nazionali". - IV. Il contributo della Corte EDU e del CEDS nell'identificazione dei Rom come comunità "transnazionale". - V. La tutela della minoranza Rom nell'Unione europea: verso la progressiva territorializzazione della comunità "transnazionale". - VI. Conclusioni. - NOTE
Ai sensi dell’art. 2 TUE, «l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, … dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze». Relativamente a queste ultime, dal testo emergono due dati. Il primo è che nel sistema dell’UE la tutela delle minoranze è considerata una componente della tutela dei diritti umani. Il secondo è che tale tutela non è inquadrata in chiave “collettiva” ma “individuale”, nel senso che riguarda i singoli appartenenti alle minoranze e non i gruppi di persone che condividono origine etnica, lingua, tradizioni, religione specifiche e che vogliono preservare tale specificità [1]. A prima vista, questo approccio sembra differenziarsi da quello tradizionale del diritto internazionale, in cui, per quanto i diritti delle persone appartenenti alle minoranze si configurino come diritti individuali, si tiene conto della dimensione collettiva legata alla necessità che il godimento e l’esercizio dei diritti da parte dei singoli sia esercitato e condiviso in comunità con gli altri membri del “gruppo” [2]. Invero, anche in ambito europeo un certo rilievo dell’aspetto collettivo dei diritti delle minoranze è emerso grazie alla rappresentanza dei loro interessi da parte soprattutto di enti e associazioni attivi nei loro territori di appartenenza. La pressione di tali soggetti, finalizzata a far venire in rilievo l’esigenza di tutela e valorizzazione delle peculiarità delle minoranze e a garantire loro autonomia decisionale e gestionale, ha contribuito all’affermazione di un concetto articolato e complesso di diversità culturale europea in cui sono rappresentate non solo le differenze tra i popoli degli Stati membri, ma anche quelle “intra-statali”, basate sulle specificità regionali e locali [3]. Se il processo in parola ha contribuito a far risaltare la dimensione (anche) “collettiva” della tutela delle minoranze, esso, però, ha avuto l’effetto collaterale di spingere gli Stati e l’UE a concentrarsi sulle minoranze c.d. “nazionali” e a dare minor peso alle minoranze “non territorializzate” (o “non nazionali”), che non si [continua ..]
La tutela delle minoranze, oggetto di grande attenzione sia nell’ambito di Organizzazioni universali come l’ONU [4] o l’UNESCO [5], sia nell’ambito del Consiglio d’Europa (CoE) [6], si è affermata con difficoltà in ambito UE. Il tema, completamente ignorato dal Trattato originario, è venuto in rilievo, a partire dagli anni ‘80 parallelamente, come già evidenziato, alla rivendicazione di autonomia decisionale e gestionale da parte delle comunità territoriali e degli enti che le rappresentano. Ne sono prova le risoluzioni adottate in quegli anni dal Parlamento europeo in cui il tema delle specificità culturali regionali e quello delle minoranze etniche sono trattati in maniera unitaria [7]. La rivendicazione di un maggiore protagonismo da parte di enti e associazioni rappresentativi dei territori ha portato all’istituzione, ad opera del Trattato di Maastricht, del Comitato delle Regioni. In quanto sede di rappresentanza, nel processo decisionale dell’UE, delle esigenze delle collettività regionali e locali, esso ha finito col divenire il veicolo anche delle istanze delle minoranze [8], facendo emergere il loro collegamento con la necessità di tutelare e valorizzare la diversità culturale dell’UE. E che il tema della diversità culturale e quello della emersione delle istanze regionali siano collegati è dimostrato proprio dall’art. 128 TCE relativo alla “Cultura”, in base al quale «la Comunità contribuisce al pieno sviluppo delle culture degli Stati membri nel rispetto delle loro diversità nazionali e regionali» [9]. Anche il riferimento nelle Conclusioni del Consiglio europeo di Copenaghen del 21-22 giugno 1993 alla necessità che gli Stati candidati alla adesione dovessero raggiungere «una stabilità istituzionale che garantis[se] … la protezione delle minoranze» [10] dimostra la crescente sensibilità verso il problema. E per quanto il Trattato di Amsterdam, nel prevedere, all’art. 6, par. 1 TUE, i principi su cui si fonda l’Unione, non abbia fatto alle minoranze alcuno esplicito riferimento, pure esso ha introdotto l’art. 13 TCE relativo al contrasto alle discriminazioni basate, tra l’altro, sulla razza e l’origine etnica o la religione. In base alla [continua ..]
Il Trattato di Lisbona, come già ricordato, ha espressamente previsto, all’art. 2 TUE, la necessità di garantire il rispetto dei «diritti delle persone appartenenti a minoranze». In più, in base all’art. 3, par. 3 TUE, relativo agli obiettivi dell’Unione, «essa rispetta la ricchezza della sua diversità culturale e linguistica». È emblematico il fatto che, a differenza della Convenzione quadro del 1995 e della Carta dei diritti fondamentali, l’art. 2 TUE si riferisca genericamente alle minoranze, senza affiancarvi la specifica “nazionali”. Altrettanto emblematico è che, come già evidenziato, la tutela non riguardi le minoranze in genere ma le persone appartenenti a minoranze. In ogni caso, l’esplicito riferimento alle minoranze nell’art. 2 comporta la possibilità di attivare, in caso di violazioni gravi e persistenti dei loro diritti, procedure di controllo in base all’art. 7 TUE [26]. In seguito all’adozione del Trattato di Lisbona, sono state presentate ben due proposte di iniziativa dei cittadini sul tema delle minoranze. La prima ha come obiettivo il rafforzamento dell’impiego dei fondi europei a favore delle regioni in cui siano presenti minoranze, contribuendo alla salvaguardia delle loro specifiche caratteristiche etniche, culturali, religiose o linguistiche [27]. La seconda, il c.d. Minority SafePack [28], comprende ben undici proposte di regolamenti, direttive e raccomandazioni del Consiglio che affrontano il tema della diversità culturale e linguistica ad ampio spettro [29]. La Commissione ha rigettato entrambe le iniziative, considerandole non rientranti negli obiettivi dell’Unione, ma entrambe le decisioni di rigetto sono state annullate dai giudici europei [30]. Indipendentemente dall’esito che avranno le due iniziative, la loro elaborazione è stata il frutto di dinamiche “dal basso” (o bottom-up), alimentate soprattutto dall’attivismo di alcune associazioni rappresentative delle istanze delle minoranze, e delle regioni in cui sono presenti, in grado di costituire veri e propri “gruppi di pressione”. Per converso, per le minoranze che non possono far leva su forme di rappresentanza degli interessi strutturate e radicate territorialmente, è più difficile far valere le proprie [continua ..]
I gruppi di etnia Rom, sia nomadi sia sedentari, costituiscono una minoranza “transnazionale” caratterizzata da una lingua (il romanes), modalità di vita, tradizioni culturali e organizzazione familiare comuni [38]. Generalmente, si riconosce nel “nomadismo” il carattere identificativo delle comunità di etnia Rom. Nella realtà, la maggior parte delle comunità Rom ha da tempo abbandonato il nomadismo in senso stretto. Tuttavia, nonostante molte persone di etnia Rom abbiano allentato i legami con le loro comunità di origine, avendo ormai acquisito lingua, usi e religione dei territori in cui vivono, alcune comunità hanno mantenuto uno stile di vita particolare, che si connota per la convivenza da parte di più nuclei familiari (stile di vita “comunitario”) in strutture mobili o removibili ubicate in aree non edificate ed urbanizzate, i c.d. “campi Rom”. Lo stile di vita peculiare e la dislocazione diffusa sul continente europeo – che impedisce di identificare i Rom con uno specifico territorio – hanno fatto sì che essi siano stati sempre percepiti come “estranei” nei contesti in cui sono presenti e per questo siano da sempre oggetto di pregiudizio, discriminazione ed emarginazione [39]. Le stesse autorità pubbliche hanno teso ad ignorarne la presenza nei loro territori, indugiando sia nel garantire soluzioni abitative adeguate [40] e servizi essenziali, sia nel verificare caso per caso la sussistenza di condizioni che potessero condurre al conferimento di uno specifico status (di cittadini, di apolidi, di rifugiati) con relativi diritti e forme di tutela. La carenza di intervento delle autorità pubbliche è stata evidenziata, fin dagli anni ’60, sia dal CoE [41] sia dall’ECOSOC [42]. Tuttavia, la stretta interconnessione del tema dei Rom (e in particolare quello della gestione dei “campi”) con la pianificazione urbanistica e con il governo del territorio ha fatto sì che esso si intrecciasse con la necessità di riconoscere un ruolo sempre più rilevante agli enti territoriali e di responsabilizzarli nel garantire la tutela e la gestione delle minoranze presenti nei loro territori [43]. Negli anni ’90, in seguito alla dissoluzione dei regimi comunisti dell’Europa Centro-Orientale, molte [continua ..]
L’Unione europea ha cominciato ad interessarsi del problema dei Rom soprattutto in seguito all’allargamento del 2004 e del 2007 agli Stati dell’Europa Centro-Orientale, quando gran parte dei Rom presenti sul continente europeo ha acquisito la cittadinanza dell’Unione, con il conseguente diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri [63]. È emersa così l’urgenza di assicurare tali diritti negli Stati di origine, negli Stati di transito e negli Stati di destinazione. Nella consapevolezza dei numerosi problemi che caratterizzavano le comunità Rom [64], a partire dal 2008 il Parlamento ha sollecitato la Commissione a sviluppare una strategia quadro europea per la loro inclusione [65]. Tuttavia, la Commissione si è limitata, nel 2011, a definire un «quadro dell’UE per le strategie nazionali di integrazione dei Rom fino al 2020» [66], focalizzato su quattro obiettivi prioritari: accesso all’istruzione, all’occupazione, all’assistenza sanitaria e agli alloggi. Nella prospettiva della Commissione, spetta agli Stati il compito di elaborare le strategie per migliorare le condizioni di vita delle comunità Rom presenti nel proprio territorio [67], mentre l’Unione deve assumere un ruolo di coordinamento operativo e di supporto finanziario. Pur non volendo acquisire un protagonismo sotto il profilo strategico, la Commissione ha, infatti, stanziato contributi finanziari per supportare gli Stati nel gestire la situazione dei Rom. In primo luogo, nel 2011 la Commissione ha avviato, in cooperazione con il Consiglio d’Europa, il programma ROMED, finalizzato a supportare, attraverso la formazione di mediatori, gli enti territoriali più direttamente chiamati a rispondere alle esigenze delle comunità Rom, soprattutto in termini di offerta di servizi. Contribuendo al ravvicinamento delle prassi statali – e alla condivisione di valori – l’azione in parola sembra voler dettare “standard europei” di approccio al problema dei Rom, soprattutto sotto il profilo operativo. Nel contempo, la Commissione ha finanziato progetti a favore delle comunità Rom presentati da enti locali, ONG, scuole, operatori economici nell’ambito dei programmi c.d. “a gestione diretta” [68]. I programmi in parola si caratterizzano [continua ..]
La scelta della Commissione di demandare l’elaborazione delle strategie di inclusione dei Rom agli Stati, mantenendo un ruolo di coordinamento e di supporto finanziario, presenta luci ed ombre. Essa, da un lato, ha il vantaggio di responsabilizzare gli Stati rispetto al miglioramento della situazione dei Rom facendo leva sulla “soft sanction” dell’impossibilità, in caso di fallimento, di impiegare i Fondi strutturali per questi obiettivi. Ciò ha sicuramente stimolato un’accelerazione nell’elaborazione delle strategie nazionali ed una maggiore considerazione dei problemi delle comunità Rom nella pianificazione territoriale e dei servizi locali [96]. Allo stesso tempo, però, questa scelta di fatto consiste nella rinuncia da parte dell’Unione ad acquisire un ruolo di coordinamento nell’approccio con cui affrontare il problema e a definire “standard minimi europei di tutela” per la minoranza Rom. Ciò comporta, sotto il profilo gestionale, scelte disorganiche e dispendio di risorse [97], ma soprattutto, sotto il profilo della tutela dei diritti, il rischio di trattamento differenziato e di una protezione “a macchia di leopardo”. L’assenza di un quadro strategico europeo può così tradursi, da un lato, in un acuirsi delle situazioni di discriminazione e marginalizzazione in alcuni Stati membri, e, dall’altro, in una disgregazione dell’identità culturale ed etnica della comunità Rom quale “minoranza transnazionale europea”. E di fatti, nella Risoluzione del 12 febbraio 2019, il Parlamento europeo ha evidenziato che «… i Rom in Europa sono ancora privati dei loro diritti umani di base» [98], ribadendo nuovamente la necessità di lanciare, per il periodo post-2020, un vero e proprio quadro strategico europeo «con una serie più ampia di settori prioritari, obiettivi chiari e vincolanti, calendari e indicatori per monitorare e affrontare le sfide specifiche e riflettere la diversità delle comunità Rom, e stanziare a tal fine sostanziali fondi pubblici … aggiungendo un obiettivo specifico di lotta alla discriminazione» [99]. L’elaborazione di un quadro strategico a livello europeo, che preveda standard minimi anti discriminazione, oltre a ravvicinare il livello di protezione degli individui e delle [continua ..]