The EU legal order and the system of the European Convention of human rights are based on diverse and perhaps antithetical conceptions: Whereas the latter is a classical international sub-system, premised on the unity of the entities party to it, the first is classically considered to be a supranational legal order, featured by the fragmentation of powers and competences between the Union and its MS.
In Opinion 2/1013, the ECJ has decided that the draft agreement designed to pronounce the accession of the EU to the ECHR is inconsistent with the founding treaties. If some of the arguments employed by the ECJ may have been inspired by the desire to preserve its central role as the highest custodian of the Treaties, most of them reflect the systemic inconsistencies between the two legal orders. This comment argues that the draft agreement proved to be incapable to adapt the idiosyncratic features of the EU to the regime of responsibility applicable within the ECHR.
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I. Introduzione: il quadro giuridico stabilito dai Trattati istitutivi e le soluzioni dell'accordo di adesione - II. La Convenzione europea come accordo misto: le conseguenze sul piano procedurale - III. Segue: le conseguenze sul piano degli obblighi sostanziali derivanti dalla Convenzione - IV. Il rapporto fra il livello di tutela assicurato nei due ordinamenti - V. Ripartizione di competenze e norme internazionali sull'attribuzione: il meccanismo del convenuto aggiunto - VI. La tutela dei diritti fondamentali e il problema dei rapporti fra Corti: il meccanismo del previo coinvolgimento della Corte di giustizia - VII. Considerazioni conclusive: incompatibilità sistemica fra ordinamenti e soluzioni di diritto positivo. - NOTE
In tempi recenti, il processo di integrazione europea nel campo dei diritti fondamentali si è considerevolmente arricchito. La prassi istituzionale evidenzia una serie di attività dell’Unione tese alla protezione e alla promozione dei diritti fondamentali. Non sempre, tuttavia, tali attività trovano un fondamento positivo nei Trattati istitutivi. Come la dottrina ha notato, anzi, vi è una crescente divaricazione fra l’assetto delle competenze che emerge dai Trattati e le recenti tendenze della prassi; fra la considerazione dell’Unione come entità che possa perseguire liberamente l’obiettivo della protezione e della promozione dei diritti dell’uomo, avvalendosi di tutti i mezzi di azione posti a sua disposizione dai Trattati, e il rigore del principio di attribuzione [1]. Tale tensione si avverte anche, e in maniera particolarmente acuta, nel tormentato processo di adesione dell’Unione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Conviene indicare sommariamente alcuni dati, peraltro notissimi, che saranno richiamati costantemente nelle pagine successive. Nel parere 2/94 la Corte aveva indicato come l’Unione non abbia alcuna competenza nel campo dei diritti fondamentali e, anzi, come tali diritti costituiscano solo un limite, e non un obiettivo, dell’azione dell’Unione. Di conseguenza, l’adesione alla Convenzione avrebbe richiesto una modifica del quadro costituzionale dell’Unione. Il Trattato di Lisbona ha modificato in maniera considerevole i dati normativi del problema. Da un lato, esso ha espressamente indicato che la protezione e la promozione dei diritti fondamentali costituisce un obiettivo dell’Azione esterna dell’Unione. Il significato normativo di questa enfatica proposizione è peraltro significativamente attenuato da una serie di disposizioni tendenti a riaffermare la perdurante vigenza del principio di attribuzione e, quindi, la necessità che ogni azione dell’Unione si fondi sugli obiettivi ad essa specificamente assegnati. Per quanto riguarda l’adesione alla Convenzione, il Trattato di Lisbona ha quindi inserito nei Trattati istitutivi una disposizione, l’art. 6, par. 2, TUE che costituisce, incontrovertibilmente, una base giuridica ad hoc per l’adesione alla Convenzione europea. L’art. 6, par. 2, anzi, stabilisce addirittura un dovere giuridico di adesione, il [continua ..]
Fra i vari motivi di incompatibilità evidenziati dalla Corte di giustizia, un posto di rilievo spetta alla circostanza che l’accordo di adesione non contiene alcuna regola atta ad evitare che controversie fra Stati membri, o fra Stati e Unione, relative al rispetto degli obblighi convenzionali, possano essere definite dalla Corte europea dei diritti dell’uomo [3]. La Corte ha riferito questo motivo di incompatibilità alla regola, contenuta nell’art. 4, Protocollo 8, che impone all’Unione di assicurare il rispetto dell’art. 344 TFUE ad opera dell’accordo di adesione [4]. Vi sono motivi per ritenere che tale situazione sia anche contraria alla regola stabilità dallo stesso art. 6, par. 2 TUE, e ossessivamente ribadita in varie disposizioni di diritto primario, secondo la quale l’adesione alla Convenzione non deve alterare l’assetto di competenze dell’Unione. Se intesa nel suo significato letterale, tale regola sarebbe priva di contenuto normativo e sostanzialmente inutile. È ovvio, infatti, che l’Unione non possa attribuirsi nuovi poteri attraverso la conclusione di un accordo internazionale. Intesa in senso assoluto, tuttavia, la regola finisce con il rendere pressoché impossibile l’adesione alla Convenzione. La competenza ad aderire a un accordo internazionale comporta, infatti, implicitamente, anche l’attribuzione della competenza a esercitare poteri e prerogative sul piano internazionale derivanti dalla qualità di parte dell’accordo nonché ad essere oggetto passivo dell’esercizio di tali poteri e prerogative ad opera di un’altra parte. Sarebbe difficilmente accettabile per le altre parti della Convenzione una adesione dell’Unione priva però delle prerogative attive e passive che consentano l’esercizio delle posizioni giuridiche che ne derivano. L’adesione alla Convenzione europea comporta, da un lato, l’obbligo dell’Unione di osservare i diritti fondamentali e l’obbligo di sottoporsi ai meccanismi di controllo stabiliti dalla Convenzione; d’altro lato, il potere di pretendere l’eguale rispetto di tali diritti ad opera delle altre parti contraenti, inclusi i propri Stati membri, nonché quello di attivare tali meccanismi nei loro confronti. In altri termini, l’adesione alla Convenzione allarga la sfera delle competenze [continua ..]
In termini più generali, la Corte di giustizia ha rilevato un profilo di incompatibilità fra l’accordo di adesione e i Trattati istitutivi in relazione al principio della fiducia reciproca fra Stati membri sul rispetto dei diritti fondamentali, che costituisce, come è noto, un presupposto per l’applicazione di taluni istituti operanti soprattutto nell’ambito dello Spazio di sicurezza, libertà e giustizia [5]. In particolare, il parere indica come l’adesione non possa avere l’effetto di considerare «l’Unione e gli Stati membri come Parti contraenti … nei loro reciproci rapporti, anche quando questi ultimi siano disciplinati dal diritto dell’Unione» [6]. Non è chiaro, peraltro, se tale conclusione si riferisca, giustificatamente, ad un profilo di carattere processuale ovvero si estenda anche all’applicazione della normativa sostanziale della Convenzione. Nel primo caso, il motivo di incompatibilità rilevato dalla Corte tenderebbe a coincidere con quello relativo al possibile deferimento alla Corte europea di una controversia fra Stati membri ovvero fra Stati membri e Unione relativamente al rispetto dei diritti convenzionali nell’ambito di applicazione della Convenzione, discusso nel precedente paragrafo. Peraltro, la Corte ha precisato come l’incompatibilità con il principio della fiducia reciproca fra Stati deriverebbe anche dall’esigenza di salvaguardare l’autonomia del diritto dell’Unione, precisato dall’art. 3, Protocollo n. 8, che impone all’accordo di adesione il rispetto delle «caratteristiche specifiche dell’Unione e del diritto dell’Unione». Il richiamo a tale principio sembra inteso dalla Corte nel senso che anche le regole sostanziali della Convenzione non opererebbero nei rapporti fra Stati membri o nei rapporti fra Stati membri e Unione nell’ambito di applicazione del diritto europeo e, specificamente, nell’area di sicurezza libertà e giustizia [7]. La posizione della Corte sembra fondata sull’idea dell’unitarietà dell’Unione come centro unitario di imputazione dei rapporti soggettivi che derivano dalla Convenzione nell’ambito dell’applicazione del proprio diritto. Qualora l’adesione abbia l’effetto di accentrare in capo all’Unione la responsabilità per possibili [continua ..]
Un motivo di incompatibilità fra l’accordo di adesione e i Trattati istitutivi deriva, secondo il Parere 2/2013, dalla circostanza che l’accordo non esclude che gli Stati membri possano applicare lo standard di tutela dei diritti fondamentali stabilito dalla Convenzione europea, in ipotesi più elevato rispetto all’analogo standard stabilito dal diritto dell’Unione. È noto come l’art. 53 della Carta dei diritti fondamentali sembra indicare come lo standard di tutela dei diritti fondamentali stabilito dalla Carta costituisca uno livello minimo di tutela, cedevole, quindi, rispetto allo standard più elevato assicurato dalla Convenzione europea nonché dalle Costituzioni nazionali. Tuttavia, nella nota sentenza Melloni [9], la Corte di giustizia ha stabilito che tale disposizione non può essere interpretata nel senso di consentire a uno Stato membro di disapplicare una norma dell’Unione, conforme rispetto allo standard di tutela dei diritti fondamentali assicurato dalla Carta, pur se confliggente con una norma costituzionale che assicuri un livello di tutela più alto. Il Parere 2/2013 indica come la medesima esigenza debba valere anche per quanto riguarda la Convenzione europea dei diritti dell’uomo [10]. In una prospettiva funzionale, la traslazione ai diritti convenzionali dei medesimi principi enunciati dalla sentenza Melloni in riferimento alle Costituzioni nazionali sembra giustificata dall’esigenza di assicurare il primato del diritto dell’Unione e di non consentire ai giudici nazionali la disapplicazione delle sue norme. Accanto a tale analogia, peraltro, non mancano le differenze. L’adesione avrà, infatti, l’effetto di fare della Convenzione europea un accordo internazionale vincolante per l’Unione, ai sensi dell’art. 216 TFUE. Ne consegue che un giudice nazionale non potrà disapplicare una norma dell’Unione a causa della sua presunta difformità rispetto al parametro convenzionale di tutela dei diritti fondamentali tutelati dalla Convenzione, ma dovrà chiedere alla Corte di giustizia di pronunciarsi in via pregiudiziale sulla validità della normativa derivata. Vero è che un giudice nazionale potrebbe, sulla base di condizioni previste dal proprio ordinamento, disapplicare invece una [continua ..]
La “specificità” dell’Unione come parte della Convenzione europea si avverte, in maniera particolare, rispetto al problema di determinare la ripartizione di competenze fra essa e i suoi Stati membri nel rispetto degli obblighi convenzionali. Si tratta, invero, di una conseguenza della natura particolare della Convenzione come accordo misto, concluso cioè sia dall’Unione che dai suoi Stati membri. A differenza di quanto non accada rispetto alla maggior parte degli accordi misti, tuttavia, appare impossibile determinare tale ripartizione su base “orizzontale”, attribuendo cioè ciascun obbligo in via alternativa all’Unione ovvero agli Stati membri. Gli obblighi della Convenzione si rivolgono, pressoché tutti, sia all’uno che all’altro ente, nell’ambito delle competenze rispettivamente esercitate. Dato che, peraltro, le competenze dell’Unione sono prevalentemente di carattere normativo, la cui attuazione è quindi affidata in gran parte agli organi giudiziari e amministrativi degli Stati membri, la ripartizione di competenze appare semmai di carattere “verticale”, nel senso che una condotta in violazione della Convenzione costituisce non di rado il punto terminale di un complesso procedimento al quale prendono parte, in misura variabile, sia l’Unione che i suoi Stati membri. L’adesione alla Convenzione comporta, quindi, il delicatissimo problema di determinare criteri per l’attribuzione, all’Unione ovvero a uno o più dei suoi Stati membri, di una presunta violazione della Convenzione alla quale ciascuno dei due enti abbia variamente contribuito. Si tratta, conviene sottolineare, di un compito particolarmente difficile. Da un lato, l’art. 1, Protocollo 8 indica la necessità di assicurare che «i ricorsi proposti da Stati non membri e i ricorsi individuali siano indirizzati correttamente, a seconda dei casi, contro gli Stati membri e/o contro l’Unione». D’altro lato, la predeterminazione dei casi in cui un ricorso debba essere indirizzato all’uno o all’altro ente si scontra con l’infinita varietà dei modi nei quali le competenze dell’Unione possono combinarsi con quelle degli Stati membri nell’ambito di una violazione della Convenzione. Insomma, proprio la necessità di assicurare la “specificità” [continua ..]
. Meno convincente appare la conclusione del parere in relazione all’altro controverso istituto adottato al fine di salvaguardare la specificità dell’ordinamento dell’Unione: il meccanismo del previo coinvolgimento della Corte di giustizia dell’Unione europea, previsto, se pure non disciplinato, dall’art. 3, par. 6, dell’accordo. La Corte di giustizia ha indicato due possibili motivi di incompatibilità di tale meccanismo con i Trattati istitutivi: in primo luogo, in quanto l’accordo non prevede il previo coinvolgimento laddove si tratti di determinare se una questione di diritto dell’Unione identica a quella costituente sostanzialmente l’oggetto del procedimento innanzi alla Corte europea sia già stata risolta dalla Corte di giustizia; in secondo luogo, in quanto l’accordo prevede il previo coinvolgimento solo in relazione alle questioni di validità del diritto dell’Unione, ma non in relazione alle questioni di interpretazione. Se il meccanismo del previo coinvolgimento fosse effettivamente necessario al fine di salvaguardare la specificità dell’ordinamento dell’Unione, la conclusione della Corte sarebbe impeccabile. Non vi è dubbio che il monopolio della Corte di giustizia nel determinare la validità e, entro certi limiti, l’interpretazione del diritto dell’Unione verrebbe intaccato non soltanto qualora la Corte non venisse previamente posta in condizione di determinare la validità di una norma dell’Unione all’origine di una presunta violazione. Esso verrebbe intaccato altresì in caso di mancato coinvolgimento della Corte di giustizia nel determinare l’interpretazione del diritto dell’Unione, nonché nel caso di mancato coinvolgimento nel determinare se vi sia una reale questione di interpretazione o di validità, ovvero se essa non sia già stata risolta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Queste esigenze, le quali hanno invero assunto rilievo anche in precedenti orientamenti giurisprudenziali della Corte di giustizia, sembrano peraltro portare alle estreme conseguenze l’idea dell’autonomia: una idea che tanto peso ha avuto nella ricostruzione di un ordinamento dell’Unione distinto sia da quello degli Stati membri che da quello internazionale [14]. Se si intendesse il principio di autonomia in senso così [continua ..]
Il Parere 2/2013 ha portato a emersione, in tutta la sua portata, il problema di trovare nessi di compatibilità giuridica fra i due sistemi, fondati su presupposti diversi e filosoficamente antitetici. Mentre l’ordinamento convenzionale è fondato sul classico principio internazionalista dell’unitarietà delle sue parti contraenti; l’ordinamento dell’integrazione europea è, di converso, un ordinamento di carattere sovranazionale, fondato sulla frammentazione dei poteri e sulla dinamica delle competenze. Il compimento del nobile progetto dell’adesione richiede dunque, da tutti gli attori in gioco, grande sensibilità politica e una altrettanto spiccata capacità tecnica. Né l’una dote né l’altra sembrano aver ispirato le soluzioni elaborate finora: dalla istituzione di un fondamento giuridico ad hoc per l’adesione, accompagnato da una serie di condizioni ambigue, di ardua coerenza e di difficile realizzazione, alla redazione di un accordo di adesione astruso e talvolta indecifrabile. Lungi dall’elaborare un regime speciale che tenesse conto delle difficoltà tecniche dell’adesione, e ne esaltasse le opportunità politiche, i redattori del Trattato di Lisbona e, successivamente, quelli dell’accordo di adesione hanno piuttosto agito sulla spinta degli eventi, cercando di stemperare le une e le altre e immiserendo la portata e il senso generale del progetto. In tale contesto sembra doversi quindi valutare il Parere 2/2013. È diffusa, fra i primi commentatori, una lettura politica, che riconduce le conclusioni della Corte di giustizia all’esigenza di salvaguardare l’assoluta autonomia del diritto dell’Unione, e, di conseguenza, la propria funzione di custode ultimo del sistema [15]. A tale convinzione può aver contribuito sia il suggestivo accostamento al precedente Parere 2/94, che una certa tendenza della Corte a identificare le esigenze di autonomia dell’ordinamento dell’Unione con la salvaguardia delle prerogative delle Istituzioni giudiziarie. Peraltro, a differenza del precedente del 1996, adottato verosimilmente in corrispondenza alle aspettative degli Stati membri, il Parere 2/2013 è stato reso dalla Corte in senso contrario alle aspettative di tutti gli altri attori del gioco istituzionale. In una valutazione più equilibrata, peraltro, le [continua ..]